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Giuseppe Chiarante
Perché è finito il PCI
27 Ottobre 2009
Sinistra
Una chiara e lucida analisi delle ragioni per cui si interruppe la più singolare esperienza politica italiana del XX secolo. Dal capitolo “L’offensiva del pensiero unico” del libro La fine del PCI

Giuseppe Chiarante, La fine del PCI. Dall’alternativa democratica di Berlinguer all’ultimo Congresso (1979-1991), Carocci, Roma 2009. Fa seguito a Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta (2006) e a Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico (2007), con lo stesso editore.

[…] Cominciava in sostanza a far breccia, anche nel Partito comunista italiano o almeno in settori rilevanti del partito, la grande offensiva ideale e politica neoconservatrice che negli anni Ottanta – favorita sia dal precipitare della crisi del sistema comunista in tutto l’Est europeo, sia dal logoramento e dall’esaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche dell’Europa occidentale – si sviluppò con tanto impeto in Europa come in America, nei paesi dell'Est come in quelli dell'Ovest. È in questo modo che andò maturando per la sinistra, anche nella realtà italiana, una grave sconfitta che era e sarebbe stata culturale e ideale ancor prima che politica.

Mi sembra opportuno richiamare almeno altre tre questioni (se non altro a titolo esemplificativo) per mettere in luce come in pochi anni, anche in un paese come l'Italia, questa offensiva abbia modificato in modo radicale idee e convinzioni diffuse nell'area dell'opinione democratica, compresa buona parte della sinistra di opposizione, con conseguenze negative che presto si sarebbero manifestate anche sul piano delle scelte e dei comportamenti politici.

In primo luogo, raccoglieva crescenti consensi, e trovava ascolto anche in settori assai estesi della sinistra politica e sindacale, la tesi che la crisi delle politiche di pianificazione o programmazione (sia nelle forme della pianificazione centralizzata dei paesi comunisti dell'Est europeo, sia nelle forme programmatorie delle politiche keynesiane e delle esperienze dello Stato sociale) non solo poneva alle forze riformatrici seri problemi di ripensamento, ma costituiva una prova quasi definitiva dell'impraticabilità di serie alternative alle regole del liberismo, del privatismo, del libero mercato. Non a caso l'idea di riaffermare o ricostruire un "punto di vista di sinistra" in economia (a partire, per esempio, dai problemi della cooperazione col Sud del mondo o da quelli della tutela ambientale e dell'affermazione di una diversa gerarchia di priorità e finalità nella produzione e nei consumi, come aveva proposto Berlinguer nel discorso sull'austerità) incontrava difficoltà via via più estese e anzi veniva rigettata quasi pregiudizialmente, nell'opinione più diffusa, come astratta e velleitaria. La conseguenza è che diventava quasi un luogo comune affermare che il banco di prova per dimostrare la maturità di governo della sinistra stava nella capacità di far valere come scelta prioritaria, senza concessioni a ideologismi solidaristici o a interessi di categoria, il rispetto dei vincoli "oggettivi" delle regole di mercato e delle compatibilità finanziarie e monetarie.

È comprensibile che il diffondersi di simili posizioni, anche al di là dell'area moderata - tanto più in una fase di intense ristrutturazioni che già tendevano a ridurre o rendere più precaria l'occupazione, ad accentuare la flessibilità della risorsa lavoro e della risorsa ambiente, a diminuire i vincoli e i costi sociali che pesavano sulla produzione -, abbia avuto il risultato pratico di contribuire a indebolire la tutela della classe operaia e di modificare a suo svantaggio i rapporti di forza nella struttura produttiva e sociale. Non per nulla si è potuto parlare, appunto a partire da questi anni, dell'affermazione di una sorta di "pensiero unico" di ispirazione neoliberista. Si ponevano così le basi di quell'«eutanasia della sinistra» (riprendo questa espressione dal titolo di un recente libro di successo[1]) che avrebbe portato all'affermazione della destra politica ed economica e al successo del berlusconismo.

In secondo luogo, non si può sottovalutare il peso che ebbe, nel modificare negli anni Ottanta gli orientamenti dí larga parte dell'opinione pubblica, l'insistente campagna sulla "crisi" e anzi sulla "morte" delle ideologie. È quasi inutile ricordare quanto di ideologico vi fosse e vi sia alla base di una simile tesi. Ma è un fatto che essa finì con l'essere largamente accettata, anche a sinistra, non solo come critica dei "partiti ideologici" (e partiti ideologici per eccellenza erano ovviamente considerati, in Italia, la Democrazia cristiana e il Partito comunista), ma anche e soprattutto come negazione dell'idea stessa di una finalizzazione ideale e morale dell'azione politica.

Nella polemica corrente, alle "finalità" e ai "finalismi" - e al loro retroterra ideologico - veniva sempre più di frequente contrapposta la vera o presunta "concretezza" dell'apertura al nuovo, al moderno, all'innovazione, sino a giungere all'assunzione ideologica del "nuovismo" come criterio di commisurazione della validità dell'iniziativa politica. Non c'è bisogno di ricordare quale peso abbia avuto una simile posizione nella fase di passaggio dal Pci al Pds, cioè dal vecchio "partito ideologico" alla "cosa" di cui non si conosceva né il nome né il programma, e neppure le finalità o i contenuti, e che non a caso non avrebbe mai neppure raggiunto una effettiva consistenza politica.

Va rilevato, infine, come la critica alla degenerazione del sistema dei partiti abbia subito nel corso di quel decennio, anche in settori via via più estesi del gruppo dirigente comunista, un cambiamento di segno: sino a porre capo non più a una domanda di "rinnovamento della politica" - così come era stata formulata da Berlinguer - ma a una proposta di mutamento del solo "sistema politico" (inteso in senso stretto), ossia come cambiamento delle regole istituzionali o elettorali. Veniva in tal modo spalancata la strada alla deriva decisionista. In particolare, all'idea che bastasse "sbloccare" il sistema politico per realizzare l'alternanza e mettere così fine alla spartizione dello Stato, alla corruzione, al malgoverno. E per sbloccare il sistema politico chi doveva compiere il primo passo era naturalmente il Pci, mettendo in discussione se stesso, ponendo fine al "partito diverso", omogeneizzandosi agli altri partiti. Erano dunque mature le condizioni per portare a compimento la storia del partito comunista italiano.

Si tratta soltanto di alcuni esempi. Ma sono esempi significativi per porre in evidenza come il declino del PCI nella seconda metà del decennio abbia avuto come fondamento una debolezza culturale e ideale ancor prima che politica. Il che trova riscontro, del resto, nella crisi delle idee di sinistra, che si estende in quegli anni anche sul piano mondiale. Basti pensare al collasso dei regimi comunisti dell'Est, alla crescente afasia delle grandi socialdemocrazie, all'involuzione pressoché generale dei movimenti progressisti e indipendentisti dei paesi del Terzo Mondo.

[1] R. Barenghi, Eutanasia della sinistra, Fazi, Roma 2008

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