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Gaetano Lamanna
Per un impiego virtuoso del “federalismo fiscale”
19 Ottobre 2011
Scritti ricevuti
Proposte concrete e ragionevoli per ridurre il disagio abitativo e finanziare i comuni, in un intervento per eddyburg del responsabile delle politiche abitative e urbane della Cgil

I primi atti del governo, oltre a ridimensionare l’autonomia impositiva di Regioni e Comuni (con buona pace della Lega), ledono fortemente la loro stessa autonomia politica. Lo fanno con provocatorie incursioni su materie e funzioni di stretta competenza regionale e locale, come sono le politiche abitative o le scelte urbanistiche e di governo del territorio. E lo fanno con una serie di misure (e di tagli indiscriminati) che, in ultima analisi, sono destinate ad abbattersi negativamente sul Welfare locale e sulla qualità dei servizi, minando le condizioni di una crescita ordinata e, civile del territorio e gli stessi cardini della coesione sociale.

Chiediamoci dove i Comuni troveranno le risorse per il loro funzionamento. Le uniche porte aperte lasciate dal governo sono quelle degli “oneri di urbanizzazione” e della “valorizzazione” fondiaria e immobiliare del patrimonio pubblico e demaniale. Si tratta, com’è evidente di un ulteriore formidabile incentivo alla cementificazione e alla speculazione edilizia! Infatti, se l’imperativo è “più concessioni edilizie, più oneri di urbanizzazione” si spingono le amministrazioni locali a rilasciare quanto più licenze di costruzione possibile, pur di incamerare risorse che - tra l’altro - sempre meno saranno utilizzate per migliorare la qualità urbana e sempre più per far fronte alla spesa corrente. L’esperienza di questi anni ci ha mostrato i guasti prodotti da comportamenti poco virtuosi, per non dire miopi, di amministrazioni che hanno rilasciato con troppa frequenza e leggerezza autorizzazioni per programmi di trasformazione urbana che poi si sono rilevati un affare solo per i grandi gruppi immobiliari ma non per le comunità locali. E con il rilancio delle vendite delle case ex Iacp e delle operazioni di “valorizzazione” immobiliare sul patrimonio pubblico si cerca di rinverdire la nefasta stagione delle cartolarizzazioni.

I Comuni hanno annunciato lo “sciopero” dei bilanci per denunciare l’impossibilità di approvare documenti contabili credibili. Ma siamo arrivati a questa situazione anche per la debolezza con cui essi hanno contrastato la politica governativa e perché, troppo spesso, nei fatti hanno abdicato alle tendenze del cosiddetto libero mercato rinunciando a usare, come avrebbero dovuto, i poteri di cui dispongono in fatto di edificabilità dei suoli, di destinazione delle aree, di cambio di destinazione d’uso degli immobili. Sono stati rilasciati permessi per la costruzione di megastore e centri outlet lungo le principali vie di ingresso delle nostre città e si continuano ad approvare piani di edilizia residenziale, destinati alla vendita, equivalenti a nuovi quartieri popolati da decine di migliaia di abitanti. Viceversa, sorgono sempre mille difficoltà quando si tratta di reperire aree per l’edilizia sociale. Ora, il governo, col cosiddetto Piano Casa, cerca di gestire questa difficoltà e si appresta a varare nelle grandi città una serie di accordi di programma e di interventi integrati ( concordati e stipulati direttamente dal ministero delle Infrastrutture). Il rischio è che l’accattivante messaggio del “piano casa” favorisca in realtà mire speculative su spazi liberi o sui terreni agricoli (come, per es., sta avvenendo a Roma), continuando così una politica di sostanziale sostegno al mercato immobiliare e agli interessi della rendita. Non è un caso che il piano casa sia incentrato sull’idea di nuova edilizia residenziale, da realizzare con l’apporto di imprese e soggetti privati, e non contenga alcun riferimento alla priorità dell’offerta in affitto.

Questa impostazione, se dovesse trovare conferma, incontrerà la contrarietà del sindacato e, ci auguriamo, di tutti coloro che hanno a cuore la tutela del territorio e del paesaggio e la qualità della vita nelle nostre città. Ma ci deve anche spingere a riflettere sul ruolo delle autonomie locali e delle forze sociali e culturali presenti sul territorio. E’ necessario che la gestione del territorio, l’uso del suolo, i piani di intervento nelle città, siano oggetto di negoziazione pubblica e trasparente e non di trattativa privata tra sindaci e assessori all’urbanistica da un lato e proprietari dei terreni e imprenditori edili dall’altro.

Il degrado, il caos, la congestione e l’invivibilità che stanno soffocando le città, sia nei centri urbani che nelle periferie, sono il risultato dell’abbandono dello “spirito pubblico” in materia di urbanistica e di governo del territorio. E su queste cose il confine tra destra e sinistra - nelle politica locale - è diventato sempre più sbiadito. C’è stato il progressivo abbandono di una cultura amministrativa incentrata sulla città come “bene comune” e sul principio della pianificazione urbanistica. E’ andata avanti, nel silenzio pressoché generale, una espansione urbana contrassegnata da crescenti diseguaglianze sociali e dalla rottura di forme di coesione sociale, di solidarietà, di convivenza e buon vicinato, un tempo forti e consolidate nelle nostre città. Nuove povertà e drammatiche solitudini convivono insieme a intollerabili esibizioni di lusso e di egoismo. L’abbandono delle periferie fa il paio con vecchi centri storici riqualificati e magari chiusi al traffico per operazioni di marketing o d’immagine.

Cambiare politica urbana significa dunque assumere scelte coerenti con uno sviluppo delle città che coniughi solidarietà, equità, ed efficienza dei servizi (e anche la sicurezza seguirà!). Ma per mettere gli enti locali nelle condizioni di operare in questa direzione, c’è bisogno di risorse ovvero di una riforma fiscale in senso federalista che individui nel settore immobiliare la base imponibile principale dei Comuni.

Dopo l’eliminazione dell’Ici sulla prima casa, i Comuni devono poter agire sui grandi patrimoni immobiliari presenti in loco e sull’enorme volume di affari e di ricchezze che circola sul territorio al di fuori del loro controllo fiscale. I tributi immobiliari, ridisegnati e rimodulati nell’ottica del rafforzamento dell’autonomia politica degli enti locali, rappresenta anche lo strumento per regolare con serietà ed efficacia un mercato (quello degli immobili), che oggi risponde unicamente agli interessi della rendita e della speculazione edilizia.

Riappropriarsi di un ruolo fiscale sul proprio territorio, significa per i Comuni poter governare il territorio, decidere sui delicati aspetti inerenti l’uso e il consumo del suolo, intercettare, ai fini impositivi, la crescita dei valori immobiliari (e delle transazioni) conseguenti a interventi pubblici di riqualificazione.

Allo stato l’ammontare delle imposte immobiliari (catastali, ipotecarie, di registro) è di circa 8 miliardi l’anno ed entrano totalmente nelle casse dello Stato. La riforma federalista - e il decentramento ai Comuni della gestione del Catasto – dovrebbe comportare coerentemente l’attribuzione di questi tributi alle istituzioni locali. Diventerebbe anche più efficace la lotta per ridurre e debellare un’elusione e un’evasione fiscale che, in campo immobiliare, ha percentuali elevatissime, e che la Guardia di Finanza conduce da tempo con scarsa efficacia. Uno studio Cresme del 2005 per l’Anci ha calcolato un’evasione della fiscalità erariale sugli immobili di circa 2,8 miliardi di euro (su 8 miliardi di gettito complessivo). Solo dal recupero dell’evasione delle imposte di registro sui contratti d’affitto (il 40% dei quali non è registrato) potrebbe derivare un’entrata aggiuntiva di 550 milioni di euro.

Ancora, un uso flessibile delle aliquote massime e minime dell’Ici (ancora operante su seconde case, grossi patrimoni, immobili a uso terziario), soprattutto in presenza della rivalutazione degli estimi catastali, potrebbe contribuire ad una redistribuzione più equa del carico fiscale sugli immobili oltre che incoraggiare comportamenti virtuosi nel mercato dell’affitto.

Serve infine flessibilità nell’imposizione sui trasferimenti di proprietà per favorire il passaggio da casa a casa e la mobilità intercomunale e interregionale. In un paese con circa l’80% di case in proprietà diventa indispensabile una misura che riduca al minimo le imposte di registro e catastali sulle compravendite che riguardano la prima abitazione, da compensare con imposte più alte sulle case di lusso, seconde case e altri tipi di immobili, per i quali il valore catastale deve diventare sempre più vicino all’effettivo valore di mercato.

Su queste e altre proposte è utile aprire un confronto che contribuisca a delineare una fiscalità locale nuova e adeguata alle complesse esigenze di città moderne e solidali.

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