«Chiunque affermi che il peggio è definitivamente passato, o è un pazzo o è qualcuno che ha interessi da proteggere».
Così scrive l’Economist con un tono ben più ruvido di quello usato fino a qualche giorno fa a proposito delle perturbazioni finanziarie. E aggiunge che si tratta di una «grande ondata», che sovrasta i guai del mercato immobiliare americano, di cui non si può ancora misurare la portata e l’estensione; e che rivela comunque la debolezza di certe fondamenta della finanza mondiale. Segue un’analisi serrata dei fatti, che avremmo voluto leggere quando già erano sotto gli occhi di tutti, denunciati peraltro da molte parti, anche, tra le altre, su questo giornale.
L’analisi è severa. Come anche la constatazione dei fallimenti delle previsioni delle agenzie di rating e di molti ultrasofisticati modelli come quelli della Goldman & Sachs che aveva valutato i rischi di ciò che è accaduto a un pacchetto di titoli sottoposti al suo controllo con una probabilità di 1 su 100 millenni.
Devo dire che non altrettanto convincente mi appare l’analisi di Tito Boeri e Luigi Guiso riportata dalla «Voce» su Repubblica del 22 agosto. I due autori attribuiscono la responsabilità di ciò che è accaduto a tre fattori: la bassa alfabetizzazione delle famiglie dei risparmiatori americani, la cartolarizzazione di attività illiquide; la politica monetaria della Fed dal 2001 al 2003. Quanto alla prima mi pare francamente sorprendente attribuire alle vittime le colpe di avere seguito i consigli e accolto le offerte «licenziose» di credito facile e facilissimo che le banche proponevano. Come dire, la colpa è di Tecoppa, che si è fatto infilzare.
Quanto alla seconda causa l’analisi, simile a quella dell’Economist, è corretta tranne che per la giustificazione della condotta diretta a «spalmare i rischi di insolvenza su una platea più vasta»: insomma di scaricare su altri operatori che a loro volta li addosseranno a risparmiatori più o meno inconsapevoli rischi che sarebbe responsabilità fondamentale delle banche di assumere e di affrontare. Quanto alla terza causa non ci sono dubbi circa le responsabilità pesanti di una politica monetaria ultrapermissiva guidata da colui che fino a ieri ci era presentato come un mago della finanza, il signor Greenspan.
«Il re ne ha colpa», grida Laerte prima di morire insieme con Amleto. Ma è proprio così? Qui Keynes non c’entra proprio per niente. La politica monetaria americana rientra in una strategia più generale non rivolta al finanziamento di investimenti produttivi ma di un irresponsabile boom dei consumi. Il signor Greenspan non ha fatto che interpretarla. Anche Stiglitz lo critica, e non da oggi, per queste ragioni; e per lo squilibrio che da questa politica è sorto tra la finanza e l’economia reale. E qui il discorso non può non allargarsi. C’è infatti da chiedersi se alla radice di questo squilibrio non vi sia quella vera e propria mutazione del capitalismo intervenuta a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso e culminata negli anni Novanta con la liberalizzazione e globalizzazione dei movimenti di capitale. Questa mutazione segna il passaggio storico da un capitalismo ben temperato, di marca keynesiana, a un turbo capitalismo di marca neoliberista. Con il vantaggio di uno sguardo lungo sul tempo trascorso possiamo valutare meglio la performance di quel tipo di capitalismo che un marxista non pentito e certo non sospettabile di simpatie socialdemocratiche, lo storico Hobsbawn battezzò l’età dell’oro. Caratteristiche incontestabili di quella breve ma intensa esperienza furono un tasso di crescita dei paesi capitalistici avanzati molto più elevato dell’attuale, una notevole attenuazione delle disuguaglianze e una condizione finanziaria di relativa stabilità. Quest’ultima si fondava su un sistema di flussi finanziari liberi per quanto riguarda le merci e controllati per quanto riguarda i capitali. Era questa, del resto, la formula suggerita proprio da Davide Ricardo, l’autore di quella teoria dei vantaggi (e costi) comparati che costituisce la pietra angolare delle politiche di libero scambio e la cui condizione preliminare, come egli stesso spiegò era una relativa immobilità dei capitali: senza di che il commercio sarebbe stato regolato non dai costi comparati ma da quelli assoluti con conseguenti forti tendenze destabilizzanti.
Con la deregolazione dei capitali è intervenuto proprio questo: una fase di sregolatezza. Il lato positivo di questa fase sta nel potente impulso dato alla crescita di grandi economie stagnanti come l’India e la Cina, quello negativo, dall’aumento della instabilità e da una abnorme espansione della finanza e un sistema di flussi del risparmio perversi, diretti al finanziamento dell’economia americana, la più ricca e la più indebitata del mondo. Ciò non significa che la risposta a questa «confusion de confusiones» come un osservatore del Seicento definiva la Borsa di Amsterdam, possa comportare un ritorno al capitalismo keynesiano del quale non esistono le premesse economiche e politiche. Significa però che l’attuale situazione di sregolatezza non è a lungo sostenibile, come le frequenti fibrillazioni finanziarie dimostrano.