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Paolo Ginsborg
Per la sinistra una partita doppia
27 Giugno 2009
Sinistra
Due scelte possibili: fare un vero partito nuovo, con la necessaria pazienza, oppure entrare nel Pd. Il manifesto, 26 giugno 2009

Con molti altri ho provato per ben tre volte a mettere insieme la sinistra: la prima volta nel 2003-4 con Gian Paolo Patta e «Lavoro e società» della Cgil; la seconda nel 2004-5 con Alberto Asor Rosa e la Camera di Consultazione della sinistra, la cui storia è stata riassunta in modo impeccabile da Asor Rosa stesso su queste pagine (19 giugno); la terza volta con la Sinistra Arcobaleno del 2007-2008. In quest'ultima occasione non dimenticherò mai la discrepanza tra le promesse dei leader di aprire una vera fase costituente e innovatrice e la squallida realtà successiva del loro blindare tutte le scelte - le candidature per le elezioni in primo luogo - in una disperata ricerca di auto-conservazione.

Ora non ci provo più. Mi sembra più facile convincere i bambini piccoli a mangiare spinaci che persuadere la sinistra italiana a stare insieme. Di fronte a un comportamento reiterato, che privilegia sempre gli elementi di distinguo a scapito di quelli dell'unità, non bisogna fare finta di nulla o continuare a provarci. Piuttosto bisogna cercare di spiegare perché tutto questo è successo, per poi trarne le conseguenze.

Perché la sinistra italiana, invece di conservare e rinnovare la profonda cultura di sinistra del paese, è riuscita finora solo a sperperare? Una prima spiegazione va cercata nella mancata analisi del rapporto tra partiti e società civile. Norberto Bobbio scrisse nel 1983 che «nel gioco politico democratico ... gli attori principali sono dati, e sono i partiti». Ma la realtà storica di questi ultimi 30 anni è quella di una progressiva atrofia dei partiti e una costante invenzione di forme di organizzazione politica promosse dai cittadini stessi - laboratori, comitati, social forum, gruppi di difesa ambientali e territoriali. L'atteggiamento dei partiti di sinistra verso queste forme di auto-organizzazione è sempre stato strumentale e sospettoso: sono un pericolo, possiamo penetrarle, incorporarle, guidarle, distruggerle? O addirittura renderle in istanze metafisiche ('il movimento dei movimenti') che misteriosamente dettino la linea più conveniente al particolare partito o gruppo.

Dietro tali atteggiamenti risiede la consueta forma della politica, l'agire dall'alto attraverso un centralismo democratico riverniciato. Al livello identitario, l'individuo-militante rimane fortemente legato alla sua formazione politica che può anche offrirgli possibilità di impiego e di carriera. I comportamenti personali verso quelli che non fanno parte della formazione (o corrente) sono spesso aggressivi, perfino incontinenti. Il nemico è vicino. La sinistra è stata incapace di elaborare un codice di comportamento nella sfera pubblica che premi il rispetto reciproco, la collaborazione, l'uguaglianza al posto della competizione, del predominio maschilista, del disprezzo.

Quest'insieme di fattori - atteggiamento strumentale verso la società civile, competizione tra piccoli gruppi politici portatori di carriere individuali, assenza di una cultura di pace praticata a casa e non solo predicata per l'estero - sono alcuni degli elementi più pregnanti per spiegare il fallimento storico della sinistra.

E le conseguenze? Mi concentro qui solo sull'aspetto organizzativo, ovvero sulla forma della partecipazione. Ci sono due possibilità, tutte e due di grande rottura rispetto a un passato fallimentare. La prima sarebbe davvero di ricominciare daccapo. Cioè, di invitare tutte e tutti a procedere a un'assemblea costituente, basata sul principio di una persona un voto; preparare l'assemblea attraverso un lungo lavoro territoriale, scrivere decaloghi di intenti programmatici e di comportamento individuale nella sfera pubblica. Bisogna capire che un nuovo soggetto politico, radicalmente diverso dal passato, ha necessità di tempo per crescere e di radicarsi prima di portare frutti. Durante il processo occorre rispettare le scelte di altri che optano per una strada diversa, ma cercare costantemente punti di contatto e condivisione. Lavorare tra i ceti popolari colpiti dalla crisi ma anche tra i ceti medi spesso dimenticati dalla sinistra, e accompagnare il lavoro sociale e culturale con una costante attenzione all'elaborazione teorica.

La seconda possibile scelta è diametralmente opposta alla prima e si basa sull'ammissione che l'attuale sinistra italiana è semplicemente incapace di inventarsi qualcosa di nuovo. Meglio allora abbracciare il Pd e cercare di portare un contributo di sinistra dentro un partito che ha molte anime e pecche ma rappresenta il perno di qualsiasi opposizione al regime di Berlusconi. In questo caso si cerca di difendere la democrazia e al contempo di rinnovarla, dentro e fuori il partito, introducendo temi e culture che, pur sembrando all'inizio troppo radicali, con il tempo possano diventare cultura comune. In questo caso si tratta di agire senza illusioni, sapendo della necessità di compromessi, riconoscendo il pericolo storico di venire più facilmente cambiati dal partito che cambiarlo. Molti grideranno (come sempre) al «tradimento». Non la vedo necessariamente così.

Idealmente, sono attratto dalla prima opzione; anagraficamente, e perché siamo in un'emergenza democratica, dalla seconda. Chiedo solo una cosa : di non ballare il vecchio minuetto per la quarta volta.

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