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Per la sinistra che ancora non c'è
9 Gennaio 2018
Sinistra
L'edizione integrale, rieditata da

L'edizione integrale, rieditata da

eddyburg, del documento dell'Assemblea Popolare per la Democrazia e l'Uguaglianza nel quale si riassumono i contenuti emersi delle piazze e città d'Italia dopo l'Assemblea del Brancaccio. In calce il link al testo .pdf

PER LA SINISTRA CHE ANCORA NON C’È,
PER INVERTIRE LA ROTTA DELL’ITALIA,
PER ROVESCIARE IL TAVOLO DELLE DISEGUAGLIANZE.

Gennaio 2018

Avvertenza.
Questo testo è un primo tentativo di sintetizzare e restituire a tutti le idee, i progetti, le aspirazioni, le proposte emerse nelle cento assemblee “del Brancaccio” che hanno attraversato l’Italia durante l’estate e l’autunno del 2017 (e che si possono tutte trovare sul
sito Assemblea Popolare DemocraziaUguaglianza. Non è un programma, non è omogeneo, non è compiuto. È un abbozzo, un inizio, un insieme di schede. Una sorta di cartello indicatore: che segna la direzione da imboccare se davvero vogliamo cambiare questo Paese.
La speranza è che tutti coloro che hanno creduto nel percorso “per la democrazia e l’uguaglianza” possano portare queste idee nelle liste che appoggiano in vista delle elezioni del prossimo 4 marzo. O anche semplicemente utilizzarle come pietra di paragone per giudicare i programmi elettorali. O come bussola per continuare a cercare la Sinistra che ancora non c’è. Quella Sinistra che, dal 5 marzo 2018, bisognerà̀ ricominciare a costruire.
A questo tentativo hanno collaborato, in modi e misure diverse: Andrea Baranes, Luca Benci, Piero Bevilacqua, Ilaria Boniburini, Alberto Campailla, Vezio De Lucia, Giuseppe De Marzo, Anna Falcone, Maria Pia Guermandi, Federico Martelloni, Filippo Miraglia, Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Livio Pepino, Gianni Principe, Christian Raimo, Andrea Ranieri, Edoardo Salzano, Francesco Sylos Labini.


Indice delle schede

1.La sinistra che ancora non c’é
4. iniziamo dalle donne.
10 il lavoro.
12 il reddito di dignità.
15 la democrazia.
16 centro e periferia.
18 per invertire la rotta in economia.
24 fisco.
27 salute.
29 la scuola.
31 la ricerca e l’universita’.
35 la casa e la casa comune: territorio e patrimonio culturale.
1. LA SINISTRA CHE ANCORA NON C’É

Il percorso iniziato con l’Assemblea del Brancaccio aveva, come compito primario, quello di colmare il fossato che ancora oggi esiste tra la politica istituzionale (cioè quella del sistema dei partiti e presente nelle istituzioni democratiche) e gli attori sociali che fanno politica nei contesti di vita e di lavoro delle persone. Le associazioni sindacali e culturali, quelle grandi e strutturate e quelle che si muovono su un obiettivo specifico – l’accoglienza dei migranti, il contrasto alla povertà, la cura del territorio – e su un contesto territoriale limitato, ma che sempre più spesso sono state capaci, partendo dalla concretezza dei problemi che affrontano, di produrre uno sguardo lungo, più lungo di quello della politica- istituzione, sui fenomeni del nostro tempo.

Abbiamo pensato che le elezioni politiche imminenti avrebbero potuto essere un terreno privilegiato per avviare questo percorso. Costruendo le liste elettorali attraverso un metodo partecipato e democratico, in cui – assieme, senza rendite di posizione e canali privilegiati – i militanti dei partiti politici di sinistra, alternativi ai tre poli esistenti, e i protagonisti del civismo attivo decidessero in maniera trasparente i programmi, le candidature, e la leadership collettiva che dovesse impersonarli. Costruendo dal basso quella unità di tutte le forze di sinistra che dall’alto sembrava difficile realizzare.

Non è andata così. Le elezioni si sono rivelate, una volta di più, il momento peggiore per progettare e realizzare il reinsediamento sociale della politica della sinistra. Nei partiti, in quale più e in quale meno, ha prevalso una logica di autoconservazione e di affermazione del proprio primato, e la società̀ civile attiva ha faticato a mobilitarsi per imporre ai partiti, a livello nazionale, quel metodo trasparente e democratico che aveva dati buona prova di sé, con buoni risultati elettorali, in tante elezioni amministrative recenti.

Le liste che hanno trovato impulso dalla Assemblea del Brancaccio sono dunque due: Liberi e Uguali e Potere al popolo. E se una parte del popolo della Sinistra voterà per la forza antisistema dei 5 Stelle, altri ancora non parteciperanno al voto. Il rischio che avvertiamo è che questa rottura, derivante in gran parte dalla storia passata delle diverse formazioni della sinistra, più o meno alternativa, provochi una rottura nel popolo che ci proponevamo di tenere insieme. Da una parte il sociale strutturato e istituzionalizzato, e dall’altra il conflitto sociale e culturale sorto fuori e talvolta contro le regole e i contenuti dei grandi contenitori tradizionali. Da una parte il popolo che ha dato vita alla grande manifestazione della CGIL sulle pensioni, e dall’altra quella dei diversi movimenti che hanno unito i migranti e il sindacalismo di base nella manifestazione romana del 16 dicembre.

Un unico popolo

Ma questo è un unico popolo: il popolo che riteniamo essenziale tenere insieme, se davvero vogliamo ricostruire la sinistra nel nostro Paese. Un popolo che era riuscito a stare insieme nelle tante coalizioni civiche a livello territoriale: mentre la coalizione civica nazionale non è decollata.

Tuttavia, le più di cento assemblee che nei territori si sono sviluppate hanno dimostrato che questo incontro, quando avviene, produce una straordinaria ricchezza di idee e di proposte. È questa ricchezza che vogliamo restituire.

Ci sono qui, in questo embrione di programma, elementi su cui invitiamo a riflettere: e che intendiamo discutere con tutti quelli che hanno partecipato alla sua elaborazione, e con le forze che si presenteranno alle elezioni. Ma queste istanze vanno molto oltre la stessa scadenza elettorale. Il cambiamento radicale che la situazione richiede, può funzionare se vede come protagonisti le persone impegnate nel lavoro sociale e culturale, se serve di orientamento e trae alimento dai conflitti e dalle pratiche sociali che avvengono nei contesti di vita e di lavoro. Per una politica che non si limiti a chiedere la delega, ma si metta al servizio di quanti cercano di praticare la democrazia di ogni giorno.

Non è una pura petizione di principio. La democrazia non delegata è la condizione necessaria per affrontare una crisi che è insieme economica, sociale, ambientale, e che nel suo insieme dà luogo a quella che papa Francesco ha definito come “bancarotta dell’umanità̀”. E che non è risolvibile senza la mobilitazione attiva della maggioranza delle persone, comprese quelle che non vanno più a votare perché si son stancate di un rituale che fa del voto un semplice bene di consumo individuale, sganciato dai conflitti e dai reali processi di trasformazione che riguardano la vita reale delle persone.

Una forza di sinistra è tale se pensa la sua presenza nelle istituzioni – al governo come all’opposizione – come un mezzo per ampliare i processi di partecipazione e di autogoverno dei cittadini, se si pensa non come il vertice della piramide, ma come il nodo di una rete con tutti i soggetti che fanno politica fuori dai confini delle istituzioni, che praticano con passione ed intelligenza l’utopia del quotidiano.

Del resto, hanno avuto questa caratteristica i due più grandi movimenti a cavallo tra i due millenni: quello per la giustizia ambientale e il femminismo. Entrambi capaci di coniugare la capacità di porsi obiettivi di politica globale, e quella di praticare nel quotidiano nuove modalità di relazione delle persone, nuovi stili di vita: quel “buon vivere” che è l’alternativa più radicale al consumismo individualista e alla riduzione dell’uomo e dei suoi diritti alla sfera economica e alla tirannia del mercato. La lotta per l’uguaglianza e quella per il lavoro, come quella per la pace nel mondo acquistano significato se si collegano alla lotta contro il riscaldamento climatico che sta mettendo in discussione la stessa sopravvivenza del genere umano sul pianeta. La sfida cruciale è quella di unire la lotta per l’uguaglianza al riconoscimento delle diversità, che è la cifra fondamentale del movimento delle donne.

Le migrazioni, le guerre, il riscaldamento climatico ci impongono infatti un mutamento radicale della nostra stessa idea di sviluppo economico, e dei nostri stili di vita.

Migliaia di persone sono morte, affogate nel Mediterraneo, perché́ il nostro benessere era stato pagato da un meccanismo che, attraverso le varie fasi dello sfruttamento delle risorse altrui, aveva trasformato le loro regioni in inferni, dai quali tentavano di scappare.

La morte nei nostri mari, a pochi passi da noi, di quelle persone ha posto la domanda del perchè fuggivano sapendo dei grandissimi rischi da affrontare. La risposta ha fatto comprendere, a coloro che se la sono posta, che il prezzo del nostro benessere era stato pagato con l’impoverimento dei popoli di cui avevamo rubato le risorse: a cominciare dagli uomini resi schiavi agli albori del colonialismo, per proseguire con l’estrazione dal suolo dei loro minerali e del loro petrolio, per proseguire ancora con la sostituzione delle nostre colture industriali ai loro regimi alimentari, con la distruzione delle loro culture e delle loro lingue, con la sostituzione del nostro imperialismo ai loro poteri, delle nostre lingue alle loro. È la truffa della parola “sviluppo” utilizzata per giustificare lo sfruttamento di popoli e risorse situati su territori lontani, in nome di una cultura superiore, più “sviluppata”.

Un'altra idea di sviluppo

Sviluppo non significava aumento della nostra capacità di ascoltare e comprendere gli altri, qualunque lingua essi adoperassero, utilizzando insieme cervello e cuore: significava solo aumento della produzione e consumo di merci, aumento della ricchezza di chi produceva e induceva a consumare merci sempre più inutili , sacrificando per una merce inutile ma fonte di maggior ricchezza il produttore a un bene che veniva distrutto (un bosco antico per qualche tonnellata di legname, una città storica per una marea di turisti, un paesaggio di struggente bellezza per una selva di palazzoni o una marea di villette).

Questo sviluppo, da un obiettivo è diventato una religione, una credenza cui tutti si inchinano obbedienti. In nome di questo sviluppo abbiamo invaso, saccheggiato, distrutto altre regioni e altri popoli, abbiamo trasformato paradisi in inferni da cui fuggire. E alla fine del ciclo abbiamo trasformato i fuggitivi da nostri simili in cerca di salvezza in nemici da abbattere.

Il primo passo che dobbiamo dunque compiere è diventare consapevoli del fatto che la miseria e la disperazione degli inferni del mondo sono fortemente dipendenti dalle decisioni prese nel nostro mondo – e dalla credenza dello “sviluppo” che abbiamo accettato e praticato. I passi successivi si chiamano accoglienza, cittadinanza e una politica estera profondamente diversa.

Accoglienza: i migranti vanno accolti e aiutati a mettersi in salvo, costruendo canali protetti per chi vuole fuggire, sconfiggendo le azioni malavitose che si generano attorno alla domanda di fuga. E non solo tragitti organizzati fisicamente con vettori adeguati, ma politiche di assistenza sanitaria e sociale, alle quali l’Europa deve contribuire a dare il suo sostegno.

Cittadinanza: non assimilazione e omogeneizzazione ma riconoscimento agli stranieri degli stessi diritti e doveri degli italiani, nel rispetto delle differenze culturali e religiose. Significa predisporci noi stessi a diventare diversi da quello che siamo: di diventare noi stessi meticci (se già non lo siamo).

Politica estera: una politica indipendente e incernierata sulla pace e su aiuti umanitari genuini, non legati a meccanismi di sfruttamento di risorse locali, favoreggiamento di interessi economici nazionali, o ricatti politici.

E poi dobbiamo comprendere che esiste una stretta correlazione tra il modello di sviluppo dominante, l’impoverimento economico e sociale della nostra società, le devastazioni ambientali entro e fuori i nostri confini, e i flussi migratori indotti provenienti dai paesi del Sud del mondo verso il Nord. E chi maggiormente subisce gli effetti negativi di questo sviluppo sono le persone più povere, fragili e molto spesso coloro che meno hanno contribuito a provocarli.

La parola sviluppo è quella che forse più di ogni altra è stata capace di plasmare un’epoca. Per oltre settant’anni, il concetto di sviluppo come sinonimo di progresso, civilizzazione, e positività a priori (senza il bisogno di qualificare lo sviluppo con un attributo) ha orientato le politiche di tutti i paesi del mondo e colonizzato le menti, impedendo ad altre concezioni di essere approfondite e altre pratiche di essere attuate.

Nei decenni successivi c’è stata una progressiva sovrapposizione tra sviluppo e “sviluppo economico” compiendo una forte riduzione dei significati complessi e che il termine comprende.

La caratteristica peculiare dello sviluppo, e dell’immaginario che lo accompagna, è che la crescita e il progresso possano svilupparsi all’infinito, anche grazie all’aumento costante delle merci prodotte.

Invece, a distanza di 70 anni ci ritroviamo un pianeta caratterizzato da profonde diseguaglianze socio-economiche, in cui lo sfruttamento delle risorse naturali e la protezione dei capitali e dei profitti dei grandi investitori sta provocando espulsioni di lavoratori, agricoltori e residenti non abbienti da un numero sempre più consistente di aree, e sta progressivamente deteriorando l’ambiente fisico, sociale e culturale in cui viviamo.

Occorre superare il paradigma dello sviluppo e dell’infinita e indefinita produzione di merci, poiché è una produzione indipendente da ogni valutazione delle loro qualità intrinseche in funzione del miglioramento dell’uomo e della società̀. L’economia “data”, (vogliamo alludere con questo termine al fatto che questa non è né l’unica economia storicamente esistita né l’unica possibile), va radicalmente trasformata. Due paradigmi a cui appellarci, per esplorare, indagare, studiare e sperimentare un nuovo sistema socio-economico, sono quello dei “beni comuni” e della “città come bene comune”.

Per cominciare, una nuova visione del mondo e dell’economia, radicalmente diversa da quella nel cui ambito viviamo da troppi secoli.

Non è uno sforzo né semplice né breve, ma se la distanza tra il mondo attuale e quello che vogliamo costruire è grande, grande, determinato e costante dovrà essere il nostro impegno.

Occorre anche essere pronti a superare l’eurocentrismo, che ha prodotto una sorta di inamidatura dei modi di vivere, produrre, consumare, rapportarsi agli altri. In questo senso, l’ondata immigratoria può costituire una risorsa e un’opportunità di rinnovamento della civiltà europea, nord-atlantica e globale. La globalizzazione, se intesa in questo senso di commistione, condivisione, confronto, dialogo e sintesi (al plurale) di modi di vivere e concepire diversi, diventa un’occasione di innovazione ed emancipazione.

Se assumiamo il conflitto sociale, la partecipazione alle decisioni e l’auto-organizzazione come i principi fondamentali della nuova politica, la città e il territorio e le sue trasformazioni sono il terreno fondamentale dell’iniziativa politica: allora, conoscere le regole che le governano e pensare alle nuove regole possibili diventa la priorità. E sulle città si è sviluppata gran parte delle discussioni nelle assemblee territoriali che si richiamano al Brancaccio e di cui proviamo a dare conto in questa bozza programmatica: ancora assai acerba, squilibrata, piena di lacune e di limiti. Ma che va intesa come un primo frutto di un intenso lavoro comune: che non intendiamo abbandonare.

4. INIZIAMO DALLE DONNE

Sono le donne ad avere le parole del cambiamento. Sono loro a muoversi, a trovare le forme per opporsi a un potere sempre più reazionario, violento, e nello stesso tempo inafferrabile, insomma il neocapitalismo contemporaneo. È successo in Polonia, nel settembre 2016, con la manifestazione del “lunedì nero”, giorno in cui lo sciopero delle donne da qualunque forma di lavoro, compreso il portare i bambini a scuola, ha trascinato tutto il paese in piazza contro il governo, contro una legge che voleva proibire la già limitata libertà di aborto. E in questi mesi sono le donne a guidare l’opposizione a un governo sempre più duro. È successo negli Usa. Il 21 gennaio 2017 la Marcia della donne ha riempito le strade della grandi città degli Stati Uniti, contro il neopresidente Trump, con in testa i pussy hat, cappellini fucsia, colore che è diventato il simbolo del movimento. Succede in America Latina, continente leader contro la violenza sulle donne.

NonUnaDiMeno è la sigla che si è estesa a livello internazionale. In Italia dal 2016 il movimento è tornato in piazza. Con forza, con rabbia, con gioia, con determinazione. Nelle manifestazioni contro la violenza, nell’8 marzo che a livello internazionale è stato rivitalizzato come giornata di lotta e di sciopero, non come la festa tra amiche in cui era stato relegato negli ultimi anni. In un mescolamento di generazioni, dalle ragazze delle scuole medie alle nonne, in una vasta presenza di esperienze e di sigle diverse, dalle lavoratrici ai sindacati alle studenti alle ricercatrici precarie, a chi insegue una pensione che si allontana sempre di più, in un ampia gamma di obiettivi, dal piano antiviolenza alla lotta alla precarietà, alla consapevolezza che la cura, l’antica gabbia in cui venivano rinchiuse le donne, è una risorsa attiva di cambiamento per tutta la società. Un movimento che crea connessioni inedite, preziose in questo momento di passaggio, di necessaria ridefinizione delle identità e degli obiettivi.

Tra i primi obiettivi da raccogliere la lotta contro la violenza. Le recenti vicende che si possono riassumere come “caso Weinstein”, hanno messo sotto i riflettori che la violenza contro le donne è estesa in tutti gli aspetti della vita, dalla casa alla strada, al lavoro. Che si tratta di una forma del potere. Le misure di prevenzione e contrasto alle molestie e alla violenza di genere vanno rafforzate, sostenute con investimenti e, soprattutto, con un approfondimento del lavoro culturale ed educativo, per smantellare le basi della diffusa mentalità sessista. Così come i centri antiviolenza e le case rifugio devono trovare forme continuative e costanti di finanziamento e rafforzamento della loro rete, in modo da coprire la domanda di aiuto e assistenza sull’intero territorio nazionale. Essenziale, inoltre, è la garanzia di una giustizia rapida e certa nei procedimenti giudiziari in materia, che garantiscano, prima durante e dopo la loro celebrazione una reale protezione delle vittime di violenza da vendette e reiterazione delle condotte criminose. Molti femminicidi sono il risultato di storie di violenza ignorate o sottovalutate. Non deve più accadere e il fenomeno va contrastato e prevenuto come priorità assoluta di una società che non pò̀ tollerare ulteriormente la morte violenta di tante donne per il solo fatto di essere donne.

Altro punto centrale per il movimento è la lotta alla precarietà del lavoro. Un obiettivo in comune con gli uomini, naturalmente. Per le donne la precarietà̀ mostra con più chiarezza come il neocapitalismo derubi le persone della loro vita. L’impossibilità o quasi di fare progetti per il futuro, diventa un forzatura dei ritmi biologici, dei corpi.

Reddito di dignità, sostegno alla maternità e paternità, asili nido pubblici e gratuiti, anche nei luoghi di lavoro, sono le misure essenziali. Ma anche un ripristino del welfare che non faccia gravare tutta la cura degli anziani e dei familiari con disabilità su donne che non vedono più la fine di rapporti di lavoro, rispetto a una pensione sempre più lontana. O che devono lottare con lavori sfuggenti e sempre più ridotti e precari, nonostante l’età.

Pace, antirazzismo, anticolonialismo, inclusione, solidarietà e sostegno sociale. Contro la violenza, contro le ingiustizie. Queste sono le parole che i nuovi movimenti, i nuovi femminismi riprendono e rilanciano nel mondo. Queste sono le parole che facciamo nostre.

10. IL LAVORO

Per la Costituzione, il lavoro è fattore d’emancipazione e riscatto, mentre al tempo del “lavoro povero” esso è divenuto, essenzialmente, ricatto e solitudine. Negli anni della crisi, poi, mentre la struttura produttiva italiana si riduceva e si trasformava, un uso politico della crisi agitava il miraggio dell’occupazione come leva di deregolamentazione e compressione retributiva, svalutando tutto il lavoro sul piano non soltanto economico. Disoccupazione e sotto occupazione toccano livelli drammatici specie per i giovani, anche altamente scolarizzati; abbondano forme di lavoro precario di tipo subordinato e non, o addirittura non qualificato: come lavoro, semi-gratuito e gratuito, talvolta anche coatto. Proseguono indisturbati i processi di scomposizione dell’impresa e decentramento della produzione anche oltreconfine, con esternalizzazioni (e privatizzazioni) che coinvolgono anche i servizi della Pubblica Amministrazione. Dilagano i contratti nazionali pirata, stipulati da finti sindacati per legittimare il peggioramento delle condizioni di lavoro.

Lo smantellamento di diritti e garanzie – prima praticata con la moltiplicazione di forme di lavoro alternative ai rapporti standard, poi con l’indebolimento delle tutele anche di questi ultimi, oltre che del ruolo del giudice – ha determinato uno spostamento dei rapporti di forza a vantaggio dei datori di lavoro. Se da un lato ciò scoraggia i lavoratori dall’esercizio, collettivo e individuale, anche dei diritti vigenti, dall’altro lato ha assecondato la “via bassa” allo sviluppo, favorita dalla politica di incentivi a favore delle imprese, slegati da investimenti in innovazione e qualità. Per contro, l’assetto organizzativo dell’impresa non va assunto come dato, ma come l’esito di un processo che il diritto può orientare e governare, affinchè chi utilizza lavoro altrui ne assuma sempre anche la responsabilità.

La sinistra muore se non riesce a rappresentare il lavoro, coniugandolo con la libertà. Un programma di cambiamento, nel solco della Costituzione, va fondato sulla ricomposizione del mondo del lavoro e sulla responsabilizzazione dell’impresa; sul rilancio delle libertà individuali e collettive, dentro e fuori dalle tradizionali forme della rappresentanza e sulla difesa della titolarità individuale del diritto di sciopero. Per riunificare il lavoro è, innanzitutto, necessario garantire l’emancipazione dal ricatto del bisogno, anche attraverso la garanzia di un reddito di base sganciato dalla prestazione lavorativa; al contempo, bisogna riconoscere essenziali diritti di libertà a chiunque svolga lavoro personale e continuativo in un’organizzazione altrui, per la realizzazione di beni o servizi di cui altri è immediatamente legittimato ad appropriarsi: a tutto il lavoro per conto altrui va riconosciuto un nucleo di diritti che vadano dal rispetto della riservatezza alla tutela della professionalità, dall’equo compenso ai diritti sindacali fino al diritto alla stabilità del rapporto, da considerarsi architrave e pre- condizione dell’effettività di ogni altra tutela. Sotto questo profilo, va innanzitutto reintrodotta ed estesa la reintegrazione sul posto di lavoro come rimedio generale al licenziamento ingiustificato: la reintegrazione non ha, infatti, alcun legame con l’organizzazione del lavoro di matrice fordista-taylorista; rappresenta, semplicemente, il più antico ed efficace rimedio contro gli abusi.

In seconda battuta, è tempo d’invertire la rotta sul fronte del lavoro povero, precario e gratuito o semi-gratuito: a) sperimentando forme, anche inedite, di regolamentazione del lavoro sulle piattaforme digitali; b) introducendo per tutti/e, ed anche per il lavoro autonomo, un salario minimo legale che si riferisca ai contratti collettivi autentici; c) disboscando la selva dei rapporti precari (a partire da lavoro a chiamata e occasionale), mal pagati (tirocini) o non pagati affatto (alternanza scuola-lavoro); d) tornando a legare tutti i contratti con una scadenza ad esigenze oggettive di carattere temporaneo.

Specie in un paese nel quale si lavora ben più della media europea, vanno introdotti istituti finalizzati alla riduzione dell’orario di lavoro, in modo tale da liberare tempo di vita, redistribuire lavoro e favorire nuova occupazione, in particolare giovanile.

In terzo luogo, al fine di responsabilizzare l’impresa e governarne l’articolazione organizzativa, alla tecnica della responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore va nuovamente affiancata la parità di trattamento tra dipendenti del primo e del secondo, il che consentirebbe solo un decentramento orientato alla specializzazione qualitativa, precludendo quello finalizzato alla mera riduzione dei costi.

La responsabilità̀ dell’impresa deve essere anche quella di far crescere, e non di indebolire la professionalità e le competenze dei lavoratori. Va quindi affermato il diritto per tutti i lavoratori alla formazione continua, anche come misura essenziale per affrontare le sfide dell’innovazione dei prodotti e dei processi, ampliando e non contraendo la dignità del lavoro.

In ultimo, ma non per ultimo, andrebbe garantito e agevolato l’acceso alla giustizia per chi vive del proprio lavoro, sia accelerando i tempi del processo, sia rinnovandone la gratuità.

Tornare a regolare il lavoro di mercato è essenziale per salvaguardare la dignità del lavoro e per perseguire uno sviluppo basato sulla qualità invece che sulla contrazione dei diritti e del costo del lavoro. Ma non risolverà di per sé i problemi della disoccupazione e della povertà crescente. È necessario per questo pensare e progettare nuovo lavoro fuori dalle compatibilità economiche del mercato. Esiste una immensa quantità̀ di lavori necessari per la sopravvivenza e il miglioramento delle condizioni di vita che non vengono effettuati, perchè il Mercato non li considera utili (non producono né profitto nè rendita). Esiste insomma una enorme domanda insoddisfatta di lavoro. Pensiamo alla messa in sicurezza del territorio: dalla ricostituzione dell’integrità fisica dei terreni non urbanizzati, alla ricostituzione del reticolo idrologico; dai rimboschimenti, allo sviluppo di un’agricoltura articolata secondo le diverse potenzialità e le diverse domande alimentari. Pensiamo alla ristrutturazione edilizia e urbanistica delle lande urbane devastate dalla speculazione. Pensiamo a una ricostruzione dei sistemi per la mobilità non più basati su modalità energivore e inquinanti. Pensiamo alle dotazione di spazi pubblici articolati in relazione delle esigenze, delle loro caratteristiche. Dobbiamo rovesciare il rapporto tra lavoro ed economia. È l’economia, che deve essere subordinata al lavoro, non il lavoro all’economia.

12. IL REDDITO DI DIGNITÀ

È necessario e urgente introdurre anche in Italia (come in moltissimi altri paesi europei) un Reddito di dignità (o minimo, o di cittadinanza). Dal 2008 al 2014 la crisi in Italia ed Europa, secondo i dati Istat, ha raddoppiato e quasi triplicato i numeri della povertà̀ relativa ed assoluta. Sono infatti 10 milioni quelli in povertà relativa, il 16,6% della popolazione complessiva, ed oltre 6 milioni, il 9,9% della popolazione, in povertà assoluta. Ma oltre i dati relativi alla condizione specifica della povertà, dobbiamo comprendere nel computo finale tutte quelle fasce sociali a rischio povertà: dai working poor (oltre 3,2 milioni di lavoratori e lavoratrici) ai precari, dagli over 50 senza alcun lavoro alle donne, dai migranti ai giovani, dagli anziani a coloro che hanno difficoltà abitative il numero dei soggetti a rischio potrebbe aumentare in maniera esponenziale.

Il Reddito di dignità, è un supporto al reddito che garantisce una rete di sicurezza per coloro che non possono lavorare o accedere ad un lavoro in grado di garantire un reddito dignitoso o non possono accedere ai sistemi di sicurezza sociale (ammortizzatori socio- economici) perché li hanno esauriti (esodati, mobilità) o non ne hanno titolo o vi accedono in misura tale da non superare la soglia di rischio di povertà. Il Reddito di dignità, garantisce uno standard minimo di vita per gli individui e per i nuclei familiare di cui fanno parte che non hanno adeguati strumenti di supporto economico. Il Reddito di dignità, è anche uno strumento fondamentale di contrasto alle mafie in una fase di grave crisi e di aumento della povertà e delle diseguaglianze sociali, perché è uno strumento che rompe il ricatto economico imposto da chi ha il vero controllo del territorio.

Occorre destinare al Reddito minimo di dignità almeno 16 miliardi di euro all’anno (la Francia ne impiega 10, l’Irlanda 20), da recuperare attraverso una riduzione della spesa militare, e da una ricostruzione del sistema fiscale ispirato alla progressività e alla giustizia.

15. LA DEMOCRAZIA

Da più di dieci anni l’Italia non ha una legge elettorale conforme alla Costituzione.

Prima il Porcellum, annullato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 2014; poi l’Italicum, annullato con la sentenza n. 35 del 2016; ora il Rosatellum, approvato abusando di rapporti di forza parlamentari costruiti illegittimamente e imponendo ben otto votazioni di fiducia incostituzionali. Il vizio, sorto nel 2006, è andato di anno in anno incancrenendosi in una situazione che la Corte costituzionale ha definito di «alterazione» del rapporto di rappresentanza tra elettori ed eletti, di «coartazione» della volontà degli elettori, di «contraddizione» del principio democratico, di lesione della libertà di voto. Cosa di più grave avrebbe potuto colpire la democrazia italiana?

L’ossessione di incoronare un vincitore la sera stessa delle elezioni ha travolto l’essenza stessa del sistema parlamentare: il confronto tra le posizioni presenti nella società, alla ricerca, conflittuale ma costruttiva, di possibili profili di compromesso. Abbiamo assistito alla creazione di giganti coi piedi d’argilla, forti in Parlamento grazie a numeri artificialmente gonfiati e deboli nella società perché privi di reale consenso. L’arroganza del potere è cresciuta in parallelo alla sua inettitudine: lo sprezzo per i deboli, l’irrisione delle minoranze, lo sfregio delle forme hanno prodotto azioni politiche di corto respiro, volte a cristallizzare l’esistente, sempre a rimorchio degli stravolgimenti socio-economici in atto. Tanto potere per una politica violenta, tronfia, subalterna.

Viviamo in una società sempre più diseguale e divisa. Abbiamo bisogno di costruire ponti, non di innalzare muri. Al centro del sistema deve tornare il Parlamento, l’organo che rappresenta tutti. Le decisioni fondamentali che riguardano la collettività devono tornare a essere apertamente discusse, a nascere dall’ascolto delle opinioni altrui, a guardare al futuro perché frutto di costruzioni condivise. La contrapposizione tra rappresentanza e governabilità è fuorviante. Un Paese è tanto più governabile quanto più le sue

istituzioni costituzionali sono rappresentative. Dalla scuola media unica, obbligatoria e gratuita (1962) al servizio sanitario nazionale (1978), passando per lo Statuto dei diritti dei lavoratori (1970), tutti i più rilevanti interventi di attuazione del dettato costituzionale si sono avuti quando massima è stata la capacità di rappresentare nelle istituzioni i differenti orientamenti politici presenti nella società. Per questo è, anzitutto, necessaria una legge elettorale proporzionale, che ridia finalmente voce agli italiani in modo equilibrato e plurale, anche con riguardo alla scelta dei rappresentanti. Inoltre, il Parlamento deve tornare ad assumersi la piena responsabilità delle scelte politiche fondamentali, riequilibrando il rapporto col governo sull’iniziativa delle leggi e ponendo fine all’abuso della delega legislativa.

Gli italiani hanno bisogno di tornare a concepire l’attività politica come un’occasione di impegno costruttivo, non di occupazione del potere. Le forze politiche devono essere messe in condizione di svolgere un’attività continuativa, diffusa sul territorio, organizzata. La loro presenza non può esaurirsi nella figura di leader che occupano spazi virtuali e si palesano fisicamente a singhiozzo, in occasione delle consultazioni elettorali. Per assicurare continuità servono risorse. È per questo che si deve reintrodurre il finanziamento pubblico delle forze politiche, da attribuirsi in rapporto al numero degli iscritti e vincolandolo a trasparente rendicontazione (sottoposta alla Corte dei Conti), e imporre rigorosi limiti quantitativi al finanziamento offerto dai privati perché nessuno possa approfittare delle proprie ricchezze personali e a tutti siano garantite uguali condizioni e opportunità di partecipazione alla contesa politica.

Per lo stesso motivo è necessario intervenire sul sistema dei media, nazionali e locali, attraverso cui passa la comunicazione politica: stampa, televisione, internet. È necessario recuperare l’idea che l’informazione è un bene pubblico, il cui pluralismo va tutelato a garanzia dei diritti costituzionali di informare e di essere informati. Per questo proponiamo una severa legge sull’informazione, che rilanci il servizio pubblico e garantisca la competitività delle aziende editoriali private colpendo le concentrazioni proprietarie.

16. CENTRO E PERIFERIA

In questi ultimi anni le regioni sono passate da essere presentate come la soluzione ai problemi dell’Italia, grazie all’avvicinamento delle istituzioni ai cittadini, al problema dell’Italia, a causa degli scandali che hanno colpito la classe politica locale. Come un pendolo fuori controllo, adesso, con i referendum del Veneto e della Lombardia, gli equilibri politici sembrano di nuovo tendere verso le regioni. L’incerta definizione del ruolo delle istituzioni territoriali ha investito anche gli enti locali, travolti da una legislazione continuamente in divenire che ha privato di ruolo e identità, oltre che di risorse, comuni, province e città metropolitane.

Nelle città vive la grande maggioranza della popolazione del globo. Anche in Italia vivono 22 milioni di persone solo nelle 14 città metropolitane ed almeno 10 milioni negli altri grandi comuni esterni a queste. Non è solo un fenomeno quantitativo. Il modo di vivere urbano condiziona l’insieme della vita umana sul pianeta. È cambiata l’idea storica di città, la stessa distinzione fra città e campagna, fra chi è dentro e chi è fuori. L’economia globale, coi suoi flussi di denaro e di persone, di parole e di cose, il computer e il container, rende vicino quel che è lontano, ma insieme allontana i vicini, sconvolgendo i vecchi modi del vivere insieme. Le città sono sempre più differenziate tra loro ed al loro interno, tra l’estremo delle zone riservate alle élites in rete col mondo, protette ed autosufficienti, le aree intermedie popolate da ceti medi più o meno impoveriti, e l’estremo opposto delle aree periferiche abitate dai ceti più emarginati, spaccati dalla contraddizione tra autoctoni ed immigrati.

Nelle città la crisi morde più forte. La riduzione di risorse e di poteri dovuta al neocentralismo di uno Stato cinghia di trasmissione delle Istituzioni sovranazionali e della finanza globale, al quale s’è aggiunto il neocentralismo delle Regioni, ha causato in quasi tutte le città la perdita di controllo del territorio e la riduzione degli spazi comuni, il degrado culturale ed ambientale, la sofferenza delle categorie più deboli, la crisi dei servizi pubblici fino alla soglia del collasso. Le associazioni ed i movimenti impegnati su queste

tematiche si trovano a riscontrarne le connessioni concrete nella vita delle persone e la derivazione comune dalle politiche di austerità̀; perciò, la contiguità territoriale dei progetti e delle pratiche di partecipazione ha la possibilità di produrre un coordinamento delle rispettive attività, fino a produrre forme di collegamento permanente a livello cittadino. Ovvero a livello politico.

Il governo delle città, in Italia, è stato compromesso dal fallimento della riforma delle Città metropolitane e dell’abolizione delle Province. più in generale, dall’ affermarsi del nuovo centralismo dello Stato e delle Regioni. E’ necessaria, perciò, una riforma dell’assetto istituzionale delle città nella direzione dello sviluppo della democrazia e della partecipazione. Ciò significa, in primo luogo spostare poteri e risorse verso il basso, dalle Regioni verso gli Enti locali; poi, allentare i vincoli di bilancio per la spesa sociale, gli investimenti, il buon andamento degli apparati; infine, rendere effettive ed esigibili le procedure di partecipazione.

È necessario porre un limite al centralismo regionale. Non è possibile che le Regioni continuino a gestire ed amministrare quando la Costituzione prevede che la loro funzione sia quella di legiferare, programmare, indirizzare e coordinare, mentre l’amministrazione attiva spetta di norma agli Enti locali. Agli Enti locali maggiori vanno attribuite nuove funzioni in materia di servizi essenziali, ed i mezzi per farvi fronte. Tutti gli Enti locali devono avere organi eletti dai cittadini, per essere responsabilizzati da un’investitura popolare sul programma.

Pertanto:

a) In applicazione dell’art. 118 COST. va precisato che di norma le funzioni amministrative e gestionali sono attribuite a Comuni, Province e Città metropolitane e non alle Regioni, anche per l’attuazione di leggi regionali. Nei casi in cui le Regioni ritengano di dover esercitare direttamente tali funzioni per assicurarne l’esercizio unitario, sono tenute a dimostrare le ragioni di tale necessità.

b) Le Città metropolitane e le Province devono essere governate da organi eletti direttamente dai cittadini ( Sindaco o Presidente, Consiglio ), Devono lavorare a tempo pieno, evitando doppi incarichi tra la Città metropolitana, la Provincia e i singoli Comuni. I Sindaci metropolitani e i Presidenti devono esercitare le proprie funzioni con il supporto di organi collegiali ( Giunte ) formate da Assessori non appartenenti ai Consigli, cui viene delegata la realizzazione delle missioni e dei programmi di governo dell’ Ente. Alle città metropolitane vanno attribuite competenze, anche normative, in materia di sanità, scuola, servizi sociali e di integrazione, lavoro.

c) Nella formazione dei rispettivi Bilanci, le Città metropolitane, le Province e i Comuni devono contemperare le garanzie dei diritti incomprimibili di cui alla Prima parte della Costituzione con il principio dell’equilibrio di Bilancio di cui all’ Art. 81, comunque escludendo che l’attuazione di tale principio possa condizionare in termini assoluti e generali l’ erogazione sui rispettivi territori dei servizi essenziali per garantire l’effettività dei diritti incomprimibili, come previsto dalla recente giurisprudenza costituzionale. In particolare, per garantire nel proprio territorio il buon andamento delle amministrazioni e l’erogazione dei servizi essenziali le Città metropolitane, le Province e i Comuni devono poter procedere ad assunzioni di personale superando i vincoli stabiliti dalla legislazione vigente in materia di assunzioni per gli Enti locali.

La centralità della partecipazione attiva dei cittadini costituisce un decisivo fattore di cambiamento della politica e dell’amministrazione, a partire dai livelli di governo più vicini alle persone. La spinta a favorire la partecipazione ha prodotto, negli ultimi venticinque anni, una grande quantità di norme, dagli Statuti degli Enti ai Regolamenti conseguenti, che tuttavia hanno avuto scarsa attuazione, sia per un atteggiamento di diffidenza di gran parte del ceto politico, sia per la crescente sfiducia dei cittadini verso la politica in generale. Questa situazione può essere rovesciata da due fattori: a) l’impegno deciso in questo senso di un nuovo progetto politico, che si fondi anche al suo interno sulla partecipazione democratica; b) una nuova disciplina che renda

obbligatoria, e dunque esigibile, l’attivazione di procedure di partecipazione in relazione all’ esercizio di funzioni e potestà amministrative decisive per il funzionamento democratico delle istituzioni locali.

Pertanto:

a) Nell’ordinamento di tutti gli Enti locali devono esse reinseriti Regolamenti sulla partecipazione democratica, che prevedano elenchi delle Associazioni abilitate ad intervenire nelle relative procedure nonché modalità di coinvolgimento dei singoli, cittadini o comunque residenti.

b) In tutti gli Enti locali, nelle procedure di approvazione del Bilancio di previsione va inserita la previsione della presentazione al Consiglio, congiuntamente alla proposta formale di Bilancio, di una proposta di Bilancio partecipato costruita con procedure decentrate di consultazione democratica di cittadini ed associazioni. Nella delibera di approvazione del Bilancio, il Consiglio è tenuto a motivare esplicitamente le ragioni delle eventuali difformità rispetto alla proposta di Bilancio partecipato.

c) In tutte le procedure di approvazione di Piani territoriali va inserita la considerazione di documenti unitari prodotti al riguardo dalle associazioni presenti sul territorio, con la previsione dell’obbligatorietà della motivazione delle scelte del Piano eventualmente difformi.

d) Ogni atto relativo all’ affidamento della gestione dei beni comuni, pubblici o privati, a imprese esterne alla pubblica amministrazione va subordinato all’ espletamento di una procedura di verifica della convenienza di un affidamento “in house” o ad aziende pubbliche o ad associazioni di cittadini e di residenti, procedura che si concluda con una specifica delibera del Consiglio competente.

È dunque necessario immaginare una legge di riforma dell’ordinamento delle Autonomie locali ( coi relativi tempi di discussione e di approvazione); una iniziativa politica nei confronti delle Regioni e degli Enti locali per realizzare le proposte di cui sopra nelle parti e nella misura consentite dalla legislazione vigente ( da avviare nell’immediato ).

La strategia dell’austerity ha teso ad allontanare dai cittadini i centri di potere un cui si prendono le decisioni. Lo spostamento di risorse economiche e politiche verso i comuni, che sono i luoghi dove i cittadini e le organizzazioni sociali possono far sentire la loro voce, non deve tuttavia permettere che continuino ad acuirsi oltre il tollerabile le diseguaglianze territoriali nell’attuazione dei diritti fondamentali: la salute, l’assistenza, l’istruzione. Si è giunti all’aberrazione di introdurre ticket sanitari differenziati su prestazioni integranti i livelli essenziali delle prestazioni che dovrebbero essere egualmente garantite su tutto il territorio nazionale. Come stupirsi che ammonti addirittura a quattro anni la differenza di aspettativa di vita tra i cittadini che vivono in regioni diverse? Da ultimo, stiamo assistendo a un insensato discorso sui residui fiscali regionali, volto a rattrappire egoisticamente la solidarietà da nazionale a regionale: come se, nell’affrontare il problema della redistribuzione della ricchezza, la regione di residenza fosse più importante della condizione di benessere o indigenza.

Dobbiamo dare a tutti gli italiani, in qualunque parte del territorio nazionale vivano, eguali opportunità di realizzare il proprio progetto di vita. Competenze attualmente attribuite alle regioni devono tornare a essere gestite dallo Stato, in particolare in quei settori dove si è perduta, o si sta perdendo, la dimensione nazionale dell’azione politica. Vogliamo che sui temi della salute, della formazione, della tutela dei beni culturali, della protezione dell’ambiente, del governo del territorio le competenze delle regioni siano ridotte o eliminate, incrementando le competenze dello Stato. Un profondo ripensamento deve, inoltre, investire il tema delle regioni a Statuto speciale: la specialità ha perso giustificazione, trasformandosi in privilegio odioso e controproducente. L’eventuale attribuzione di poche competenze differenziate, motivate da ragioni oggettive, deve prendere il posto degli Statuti speciali. Tutte le regioni tornino a essere ordinarie e con competenze circoscritte a profili non riguardanti diritti costituzionali da garantire egualmente a tutti.

Il Mezzogiorno d’Italia è oramai uno dei territori più arretrati d’Europa. Troppe risorse politiche, intellettuali ed economiche sono state negli ultimi anni destinate ad affrontare una presunta questione settentrionale di cui tutti siamo stati chiamati a farci carico, mentre la vera questione territoriale del Paese, quella meridionale, veniva abbandonata a se stessa. L’arretratezza, non solo economica, del meridione deve diventare un tema sentito da tutti gli italiani. Proponiamo l’istituzione di un’Agenzia per il Mezzogiorno, perché solo uno strumento d’intervento statale può adeguatamente far fronte a un problema che coinvolge lo Stato nel suo complesso.

La legislazione sul “federalismo” fiscale va abolita. La logica di mercato non può essere elevata a criterio attraverso cui gestire i rapporti tra Stato e autonomie. Territori e città devono poter contare sulla solidarietà reciproca. Le risorse vanno distribuite con l’obiettivo primario di migliorare i servizi dove più sono carenti, nel contempo preservando quelli che già hanno raggiunto idonei livelli di qualità.

18. PER INVERTIRE LA ROTTA IN ECONOMIA

La rinuncia ad inserire il Fiscal Compact nei Trattati europei e il suo affidamento ad una prossima direttiva rimanda ad una sede ancora meno democraticamente qualificata una decisione cruciale, in base alla quale dovremmo riportare entro 20 anni il rapporto tra debito pubblico e PIL al 60%. Potrà essere sancita, con forza superiore alle Leggi ordinarie, la rinuncia a qualsiasi margine di manovra dei prossimi governi, obbligandoci a continui avanzi primari, ovvero sempre più tasse e sempre meno servizi. Soprattutto, si potrà affermare il definitivo primato della tecnocrazia sulla democrazia. L'economia come scienza esatta, guidata da regole matematiche dove il benessere dei cittadini, i diritti o l'ambiente diventano le variabili su cui giocare, mentre i parametri macroeconomici sono immutabili.

Il Fiscal Compact è solo uno delle regole che hanno messo nero su bianco le politiche di austerità, diligentemente seguite dal nostro Paese, malgrado periodiche quanto roboanti dichiarazioni sul volere “battere i pugni sul tavolo a Bruxelles”. Un comportamento ambiguo quanto pericoloso, perché da credito alle pulsioni nazionaliste e populiste di chi dice che è impossibile cambiare le cose in UE. Da un lato “è l'Europa che ce lo chiede” e “non ci sono i soldi” come foglie di fico per giustificare tagli e sacrifici, dall'altro, caso più unico che raro in UE, cambiamo la Costituzione per inserirvi il pareggio di bilancio.

I singoli trattati seguono il dogma mercantilista che domina in Europa. Il compito principale dello Stato non è più il benessere dei cittadini – il bene comune, come scriveva Giuseppe Dossetti –, ma mettere le proprie imprese nelle migliori condizioni per competere. La competitività come obiettivo in sé, e soprattutto una competitività che non si gioca su ricerca e innovazione di prodotto o processo. Al contrario, in particolare in Italia assistiamo a una corsa verso il fondo in materia ambientale e sociale, inseguendo la Cina sul piano del costo e dei diritti del lavoro o le Isole Cayman su quello della tassazione.

L'unica “politica industriale” - oltre alle privatizzazioni per fare cassa - è assicurare sgravi e contributi alle imprese. Politiche unicamente dal lato dell'offerta, per produrre di più e a prezzi più bassi. Ma il problema in Italia è dal lato offerta o nella domanda? Le imprese non investono e non assumono perché il costo del lavoro è eccessivo e ci sono troppe tutele, o al contrario perché le diseguaglianze deprimono la domanda, perché c'è una profonda sfiducia nel futuro, perché queste stesse politiche contribuiscono al peggioramento della crisi?

Una crisi nata dagli eccessi e dai disastri della finanza privata, il cui conto è stato scaricato sul pubblico. In un gigantesco ribaltamento dell'immaginario collettivo, oggi quest'ultimo è sotto accusa e subisce le politiche di austerità, mentre la prima è ripartita a pieno ritmo e viene inondata di soldi. Le migliaia di miliardi del Quantitative Easing sono in massima parte rimasti incastrati in circuiti speculativi invece di alimentare l'economia reale.

Sul piano delle regole va se possibile ancora peggio. A ottobre la Commissione europea dichiara di abbandonare il progetto di separazione tra banche commerciali e di investimento. Le lobby rialzano la testa, chiedendo nuovamente di abbattere regole e controlli La lezione della crisi, se mai era stata appresa, è stata già dimenticata.

Una risposta è dunque chiudere una volta per tutte il casinò finanziario. Da una tassa sulle transazioni finanziarie a misure contro i paradisi fiscali o gli eccessi della speculazione, sappiamo cosa andrebbe fatto e come. Il problema non è nelle difficoltà tecniche, ma nella volontà politica di attuare tutto questo.

In parallelo occorre riaffermare il ruolo della finanza pubblica. Serve un piano di investimenti per l'occupazione, la riconversione ecologica dell'economia, la mobilità sostenibile, la ricerca. Tutti obiettivi di lungo periodo che non possono essere lasciati alla mano invisibile di un mercato guidato dal massimo profitto nel brevissimo periodo.

Come primi passi dobbiamo escludere gli investimenti dal patto di stabilità e abbandonare il Fiscal Compact.

Nello stesso momento, le regole europee non possono essere un alibi per non cambiare rotta in Italia. Le risorse si possono trovare con un diverso utilizzo della spesa pubblica. Tagliare le spese militari per investire nel sociale; chiudere la disastrosa stagione delle grandi opere e occuparsi di tutela e conservazione del territorio; investire nella transizione energetica dalle fossili alle rinnovabili con vantaggi non solo ambientali, ma anche per l'occupazione e la bilancia commerciale (considerato il peso delle importazioni di gas e petrolio), per non parlare delle implicazioni geopolitiche. Solo pochi esempi per chiarire che servono regole diverse, ma che è ancora più urgente un cambiamento culturale, tanto in Italia quanto su scala europea.

24. FISCO

Negli ultimi decenni, il sistema fiscale italiano è andato trasformandosi: da improntato al principio di progressività a ispirato a una tendenziale proporzionalità. È noto che più aumenta la disponibilità di un bene, meno prezioso questo diventa per il suo possessore. Per questo, al crescere della ricchezza deve crescere la percentuale di risorse da pagare in imposte, in modo che la raccolta delle risorse pubbliche non gravi egualmente su tutti, ma in misura maggiore sui ricchi. Questo elementare principio di giustizia, prescritto dall’art. 53 Cost., è oggi pressoché ignorato nel nostro sistema fiscale. L’imposizione sul reddito grava quasi esclusivamente sui redditi medi e medio-bassi, a tutto vantaggio di coloro che guadagnano cifre più elevate. L’imposizione sui patrimoni mobiliari e immobiliari è modestissima. L’imposizione sulle eredità è addirittura risibile: la più alta aliquota italiana è inferiore alla più bassa aliquota tedesca. Il rapporto tra imposte dirette (progressive) e imposte indirette (proporzionali) è sempre più squilibrato a favore delle seconde. A ciò va aggiunta un’evasione fiscale ampiamente superiore ai 100 miliardi di euro annui e l’opacità prodotta da una giungla di detrazioni, deduzioni, sgravi, esenzioni, assegni familiari, bonus, addizionali locali.

Un’enorme quantità di ricchezza si è spostata, negli ultimi anni, dal basso verso l’alto. Luciano Gallino ne ha calcolato l’ammontare in 240 miliardi di euro. Nel 1973, quando venne istituita l’Irpef, erano previsti trentadue scaglioni, l’aliquota più bassa era fissata al 10%, quella più alta al 72%. Oggi gli scaglioni sono scesi a cinque; l’aliquota più bassa è salita al 23%, quella più alta è scesa al 43%. Si sono alzate le tasse ai poveri per abbassarle ai ricchi. Il risultato è stato l’impoverimento non solo degli strati più indigenti della popolazione, ma anche della classe media, sempre più “schiacciata” verso il basso. Ridurre le tasse indiscriminatamente è sbagliato: vanno ridotte a chi ne paga troppe; vanno aumentate a chi ne paga poche.

Sono diverse le misure che si potrebbero mettere in campo. Aumentare il numero degli scaglioni Irpef, introducendo almeno un

sesto scaglione per i redditi oltre i 100.000 euro, con aliquota più alta di quella massima attuale. Diminuire le aliquote per il primo e secondo (redditi fino a 28.000 euro), aumentandole per quarto e quinto scaglione (oltre i 55.000). Rivedere la tassa di successione, riducendo l’attuale franchigia di un milione di euro e introducendo anche qui scaglioni ad aliquote progressive. È poi inammissibile che in Italia venga tassato quasi esclusivamente il reddito ma non la ricchezza. Dobbiamo riprendere il dibattito intorno a una seria tassazione patrimoniale, che riguardi prima di tutto il patrimonio immobiliare inutilizzato. Più in generale, non si può addurre la scusa di una completa libertà di movimento dei capitali per giustificare l'impossibilità di tassare i patrimoni mobiliari e finanziari. Al contrario, questo è un ulteriore argomento per tornare a parlare di controlli sui flussi di capitale in entrata e in uscita dall’Italia. Un argomento che si lega alla necessità di un serio contrasto ai paradisi fiscali, che non può ridursi a inseguire l’isoletta tropicale di turno. Dobbiamo guardare in casa nostra. Da dove provengono i soldi che finiscono offshore? Chi ne trae beneficio? La proposta, oggi discussa in UE, di obbligo per tutte le imprese di pubblicare i bilanci suddivisi in ogni giurisdizione in cui operano (Country by Country reporting) sarebbe una delle misure in tale direzione e un passo in avanti non solo contro l’evasione fiscale ma anche per contrastare riciclaggio internazionale e traffici illeciti.

Queste sono alcune prime proposte, alle quale possono seguire diverse altre. La cosa fondamentale è invertire la rotta degli ultimi anni e adottare da subito delle misure per una maggiore progressività del sistema fiscale, in linea con quanto previsto dalla nostra Costituzione.

27. SALUTE

Negli ultimi anni, con particolare accelerazione a partire dalla spending review sono state adottate politiche di definanziamento del Servizio sanitario nazionale che prevedono una diminuzione in termini percentuali del rapporto fondo sanitario/pil che nel 2020 dovrebbe scendere al 6,3%. Nei paesi europei solo Portogallo, Grecia e Slovenia hanno un rapporto inferiore.

Il definanziamento ha portato alla chiusura di ospedali, di posti letto, al depotenziamento dei servizi, al blocco del turnover del personale, alla diminuzione degli investimenti, alle maggiori difficoltà di accesso alle cure e all’aumento delle liste di attesa.

La contrazione della spesa pubblica ha comportato il progressivo aumento della spesa privata dei cittadini sia con acquisito di prestazioni dirette (out of pocket) sia intermediata da assicurazioni e fondi sanitari integrativi. Nel 2015 a fronte di 147 miliardi di spesa sanitaria totale, 113 miliardi sono risultati della spesa pubblica, 30 miliardi di spesa out of pocket e 4,5 di spesa intermediata.

La spesa intermediata privata è destinata a salire non solo per il progressivo peggioramento delle strutture pubbliche, ma anche per le politiche fiscali favorevoli ai fondi sanitari e alle assicurazioni. Anche gli accordi sindacali che portano alla creazione del c.d. “welfare aziendale” portano la spesa in quella direzione.

Il diritto alla salute non è omogeneo sul territorio nazionale anche per la diversa organizzazione posta in essere nelle regioni e per le politiche di compartecipazione alla spese (ticket) diverse sul territorio nazionale. Negli ultimi anni cinque regioni meridionali sono commissariate dal ministero dell’economia e i vincoli di bilancio hanno nettamente prevalso sulla tutela del diritto costituzionale alla salute.

Sul versante dei diritti legati alla bioetica (inizio e fine vita) il ritardo del nostro paese è ancora più evidente: una legge conquista di civiltà, come la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, è in difficoltà per lo strumentale utilizzo dell’istituto dell’obiezione di coscienza; la legge sulla fecondazione assistita è, nonostante i ripetuti interventi della Corte costituzionale, ancora inaccettabile.

Occorre mettere in atto un progressivo rifinanziamento del Fondo sanitario nazionale che permetta, entro la fine della legislatura, un recupero più ottimale del rapporto spesa pubblica/pil per permettere:
– un progressivo smaltimento delle liste di attesa;
– uno straordinario programma di assunzioni di operatori e
professionisti del Servizio sanitario nazionale;
– la riforma delle cure primarie e territoriali oggi non più rinviabile;
– l’eliminazione del c.d. superticket e la progressiva diminuzione delle altre forme di partecipazione alla spesa in favore di politiche di appropriatezza per combattere sprechi e abusi. Le politiche di compartecipazione alla spesa devono essere omogenee su tutto il territorio nazionale;
– investimento in edilizia sanitaria per la sostituzione di ospedali obsoleti, inefficienti e costosi nella gestione (con il divieto di costruzione di ospedali con la “finanza di progetto” che vede la compartecipazione e la gestione di “concessionari” privati).

È necessario anche un forte contrasto alla corruzione e ai conflitti di interesse che allignano in molte parti dell’intero sistema.

Sul fronte della bioetica è necessaria una stagione riformatrice che metta fine agli abusi dell’obiezione di coscienza per le procedure abortive e che porti al varo di una nuova legge sulla fecondazione assistita che ponga, tra l’altro, fine ai divieti per le donne single e alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale.

Sempre sul versante bioetico è necessaria una legge sulle decisioni complessive di fine vita – che integri la recente legge sul testamento biologico - che riconosca il pieno diritto di autodeterminazione delle proprie scelte individuali per porre fine alla “migrazione” verso l’estero.

29. LA SCUOLA

La scuola della Costituzione è la scuola che deve assicurare la mobilità sociale e dare a tutti pari opportunità per essere cittadini sovrani, inserirsi nella società e nel lavoro come soggetti liberi e consapevoli, superando le differenze derivanti dalla famiglia e dal luogo in cui si è nati, e dalle condizioni economiche di partenza. Uno strumento fondamentale per rimuovere le cause dell’ineguaglianza, come indicato dall’art. 3 della Costituzione. E invece la scuola italiana resta, a settant’anni dalla Costituzione, una scuola classista. In cui gli alunni si distribuiscono nei diversi ordini scolastici a seconda delle condizioni di reddito e cultura della famiglie di provenienza, e in cui i “dispersi” vivono tutti in famiglie povere e nelle periferie delle città, figli di migranti o di italiani poveri. Una scuola che, come diceva don Milani, continua ad assomigliare ad un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Tutto questo nonostante l’impegno profuso da migliaia di insegnanti, di pedagogisti illuminati, da militanti del movimento operaio e sindacale, consapevoli dell’importanza che ha la scuola nel segnare le disuguaglianze fra le persone nel lavoro e nella società̀, per costruire una buona scuola, capace di far crescere tutti, a partire dai più poveri e svantaggiati, portando nella scuola pubblica l’ispirazione e i metodi educativi della scuola di Barbiana.

Il problema è che le riforme, dopo quelle degli anni sessanta e settanta – i tempi della scuola media unica, del sostegno alla innovazione didattica e ai programmi delle elementari, al superamento delle classi speciali per i diversamente abili, alla conquista del tempo pieno, riforme ancora segnate dallo spirito della Costituzione – hanno avuto come effetto quello di creare difficoltà e intralci burocratici alla buona scuola reale, piuttosto che aiutarla e sostenerla. Un buon inizio sarebbe quello di de-riformare la scuola: abrogando tutte le ultime riforme.

La buona scuola reale, la pedagogia per crescere tutti insieme, vive finché vive una speranza di trasformare il mondo, di promuovere la dignità e la libertà del lavoro, di vincere la fame e le guerre; entra in crisi quando ci si propone l’adattamento dei bambini e degli adolescenti al mondo com’è.

E le riforme degli ultimi anni, l’ultima, quella del governo Renzi è l’esempio più clamoroso, hanno come obiettivo l’adattamento ad un mondo che nel frattempo è diventato sempre meno uguale, sempre più ingiusto e violento. La buona scuola reale ha come asse la cooperazione educativa, la buona scuola di Renzi promuove la competizione, la gerarchia e l’individualismo, un una sorta di neoliberismo dell’anima che enfatizza le eccellenze, reali o presunte, e colpevolizza chi non ce la fa.

La scuola è colpevolizzata perchè non sa fornire alla economia e alle imprese quello che serve. Così si addebita alla scuola la ‘colpa’ di non preparare i ragazzi al lavoro, e si ‘rimedia’ istradandoli in percorsi di alternanza scuola-lavoro in lavori poveri e dequalificati, in imprese in cui è assente la formazione per gli stessi lavoratori. Contemporaneamente, si vanifica il lavoro della scuola per far convivere bambini di tanti paesi diversi negando la cittadinanza a chi ha un colore della pelle diverso; e le scuole che insegano ai bambini il rispetto dell’ambiente li consegnano poi ad un mondo che l’ambiente e il territorio continua a inquinarlo e cementificarlo.

Ma la buona scuola reale è quella che interroga il mondo per cambiarlo, non quella che insegna ad adattarsi al mondo com’è. La sinistra che vuole cambiare il mondo deve dunque impegnarsi per sostenere e fare avanzare la buona scuola che ha resistito alla riforme calate dall’alto. Lavorando a sostegno di quanti oggi sono impegnati a mettere in rete le esperienze migliori: il movimento di cooperazione educativa, il CIDI, le organizzazioni studentesche, i sindacati della scuola che non si rassegnano ad una lotta di pura resistenza, ma difendono gli spazi di autodeterminazione delle scuole che interpretano l’autonomia come comunità educativa

Dove è presente nelle istituzioni locali deve impegnarsi a mettere in rete la scuola con le opportunità educative e culturali presenti nel territorio, consapevole che la scuola funziona quando l’intera città sa essere città educativa. E concentra il suo impegno maggiore sulle scuole delle periferia, che sono spesso l’unico momento in cui un tessuto sociale frammentato e disperso può provare a ripensarsi come una comunità.

Una sinistra di governo dovrebbe avere come impegno prioritario la rimozione delle cause della dispersione scolastica. A partire da quelle economiche. La gratuità dell’istruzione deve essere resa effettiva a tutti i livelli, contrastando la deriva che scarica sulle famiglie, in maniera insostenibile per le famiglie più povere, i tagli al sistema scolastico e ai bilanci delle singole scuole. Una percentuale altissima, quasi la metà dei ragazzi delle superiori, ricorre alle lezioni private, per raggiungere gli standard che permettono una valutazione positiva. I compiti a casa acuiscono le differenze fra chi ha in casa libri e genitori in grado di aiutarli e chi non ce l’ha. È la scuola della meritocrazia e dell’individualismo che genera queste derive. La scuola della cooperazione educativa, quella in cui si impara tutti assieme e i più bravi diventano ancora più bravi impegnandosi a fianco di chi resta indietro, non ha bisogno né di lezioni private né di compiti a casa. Il divieto delle lezioni private deve essere accompagnato dal giusto riconoscimento economico del lavoro degli insegnanti, sottratto alla logica di una valutazione meritocratica che premia l’individualismo docente e scoraggia la cooperazione educativa.

Le scuole devono essere aperte alla educazione permanente degli adulti. La scuola italiana ha vissuto il momento più ricco della sua storia recente quando gli operai sono tornati a scuola dopo la conquista contrattuale delle 150 ore. Quando i genitori erano contemporaneamente genitori ed allievi. L’assenza di un sistema di educazione degli adulti, che vuol dire scuola, ma anche biblioteche pubbliche, teatri, cinema, accesso al patrimonio culturale del territorio, è una delle carenze più gravi del sistema educativo del nostro Paese. Eppure ha a che fare con i diritti di cittadinanza fondamentali e la vivibilità del territorio. La stessa percezione della sicurezza passa in gran parte da qui. Gli anziani che invecchiano soli si sentono infinitamente più insicuri di quelli che non hanno rinunciato a imparare, che escono di casa per vivere la città anche come un insieme di opportunità educative.

Abrogare la riforma di Renzi non è di per se sufficiente a risolvere i problemi della scuola italiana. Ma liberarsi della logica aziendalistica e mercatistica che la ispira è la precondizione per affrontare i problemi reali che la riforma non ha affrontato o distorto. La dispersione scolastica. L’ingresso nella scuola italiana di bambini provenienti da ogni parte del mondo. La crescente demotivazione dei ragazzi e delle famiglie a investire e a impegnarsi nello studio. A quest’ultimo problema la riforma di Renzi ha risposto enfatizzando l’uso delle tecnologie, diventate un fine del percorso educativo invece che un mezzo per condividere sapere e conoscenza. Oltre che alla onnipotenza del mercato i ragazzi sono chiamati ad adattarsi alla onnipotenza dell’algoritmo, per prepararsi ad un sistema produttivo in cui sempre più le tecnologie non sono al servizio dell’uomo ma l’uomo al servizio delle tecnologie. Il fatto che i percorsi scolastici sempre meno abbiano come sbocco un lavoro dignitoso è risolto con il mito della auto-imprenditorialità. Nel frattempo l’alternanza in lavori e lavoretti per abituarsi fin da subito all’obbedienza e alla passività, al lavoro senza diritti dei call center o dei mcdonald. L’adattamento al mondo oltre che ingiusto si rivela impossibile, incapace di produrre, nelle condizioni attuali, un patto educativo fra insegnanti, alunni, famiglie. Perché il mondo a cui ci si dovrebbe adattare è un mondo senza futuro. Educare i ragazzi e le ragazze ad essere attori di un futuro possibile dovrebbe essere il compito primario della scuola. A partire dalla questione che più di ogni altra sbarra la strada al futuro, il riscaldamento climatico che mette in pericolo la stessa vita umana sul pianeta. È quello che Edgar Morin indicava ai ragazzi orfani della Resistenza e del ’68: studiare per salvare il mondo. E su questo tema provare a trovare un filo comune delle discipline separate e disperse. La storia degli uomini e la storia della natura, lo studio dell’ambiente e quello del paesaggio. E questo tema doveva interrogare le professioni e i lavori del futuro. La pedagogia, come direbbe Gunther Anders, del futuro anteriore, quella che non ha paura di indicare il disastro a cui ci porterebbe il nostro modo di produrre e di consumare, ma fornisce gli strumenti per impegnarsi ad evitarlo.

31. LA RICERCA E L’UNIVERSITA’

La ricerca è il frutto di un sistema d’istruzione che crea quelle competenze che sono la precondizione del processo che collega ricerca a sviluppo economico. La politica degli ultimi quattro lustri ha identificato nel sistema formativo, alla base della formazione delle competenze, il capro espiatorio del mancato sviluppo del paese. Per renderlo più adatto al mondo del lavoro sono state introdotte la riforma Gelmini, la riforma della Buona Scuola, ecc.: si tratta però di una risposta politica sbagliata che invertita in maniera radicale.

I laureati fanno fatica a entrare nel mondo del lavoro, ma in Italia la percentuale di laureati è la metà che nell’Europa del centro-nord; su dieci ragazzi che lasciano il paese nove hanno la laurea; i ricercatori italiani sono ancora capaci di vincere i più ambiti e ricchi progetti europei, ma sempre più spesso scelgono di svolgere la loro attività di ricerca all’estero. Nonostante i laureati siano pochi, la politica dell’ultimo decennio sono state tagliate risorse nel settore della formazione con il risultato di ridurre il fondo di finanziamento ordinario delle università del 20%, i finanziamenti per la ricerca di base dell’80%, del 20% i corsi universitari e del 45% quelli di dottorato. Complessivamente vi è stata una diminuzione del 20% dei docenti e degli immatricolati mentre è esploso il precariato. Per contro le tasse universitarie sono aumentate in media del 60% (raggiungendo il terzo posto in Europa) mentre le borse di studio si collocano ai minimi del continente. Inoltre i tagli si sono distribuiti in maniera molto eterogena sul territorio nazionale, colpendo il centro sud a vantaggio del nord, generando pericolosi e nuovi squilibri. La spesa per il sistema universitario pubblico è oggi di circa 6,5 miliardi di euro, contro i 20 miliardi della Francia e i quasi 27 miliardi della Germania: una differenza abissale.

La presenza di un’attività di ricerca che sia di livello internazionale, è, una condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo economico. Il sistema formativo deve creare delle conoscenze e delle capacità che rappresentano il potenziale indispensabile per poi

riuscire a innovare; tuttavia queste capacità, se non sono inserite in un sistema imprenditoriale e industriale adeguato, non possono di per sé generare sviluppo economico. Il problema del nostro paese è, infatti, un altro: quello di essere il fanalino di coda nella quota di occupati nei settori ad alta conoscenza e ad alta intensità tecnologica che rendono possibile lo sviluppo di beni che più difficilmente sono prodotti anche da altri. L’Italia eccelle nell’occupare la penultima posizione per quanto riguarda la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese. Dunque la motivazione delle politiche dell’istruzione è stata di formare personale che si possa adeguare a un sistema produttivo a bassa intensità tecnologica, che a sua volta non richiede dal sistema formativo competenze qualificate, generando in tal mondo un circolo vizioso al ribasso per

economia basata sulla competitività del costo del lavoro piuttosto che puntare alla competitività tecnologica. Dunque la rotta tracciata è caratterizzata dalla desertificazione non solo tecnologica, ma anche scientifica e culturale e dalla crescita di una tipologia lavoro sempre più mortificante per il paese e per le nuove generazioni. E’ perciò necessario ricostruire la base scientifica, tecnologica e intellettuale del nostro paese. Quest’obiettivo deve essere guidato dall’intervento pubblico, considerati l’ingente dimensione dell’impegno finanziario e l’incerta redditività economica che caratterizzano l’investimento in questi contesti. Solo un coordinamento la formazione. Per questo si è preferito puntare su un’

presenza di settori tecnologicamente innovativi, potrà evitare tra politiche della formazione, di ricerca e sviluppo e politiche industriali volte a potenziare la all’Italia di andare incontro a una emarginazione dal contesto competitivo internazionale e dunque a una regressione economica ancora più marcata di quella cui abbiamo assistito negli ultimi anni.

Delle politiche, cioè, che invece di puntare a formare manodopera di basso livello formativo per lavori a basso costo, ripunti a formare quelle capacità di conoscenza che rappresentano l’unico potenziale di uno sviluppo solido. Queste dunque le proposte chiave per una inversione della rotta:

(1) rifinanziamento del sistema universitario (2) renderlo tendenzialmente gratuito, iniziando con l’abbassare le tasse universitarie e renderle più progressive con il reddito familiare (3) intervenire per diminuire gli squilibri geografici, soprattutto con riguardo al mezzogiorno (4) piano straordinario di reclutamento (5) separazione tra reclutamento e progressione di carriera (5) aumentare i fondi per i progetti di ricerca di base da 30 milioni/anno a almeno 500 (6) tutelare la libertà di ricerca (articolo 33 della Costituzione) e in particolare abolire l’Agenzia di Valutazione che al momento interferisce pesantemente con la libertà di ricerca (7)riorganizzazione del comporto ricerca (Enti Pubblici di Ricerca e Istituto Italiano di Tecnologia) (8) coordinamento interministeriale delle politiche per la ricerca e l’innovazione tecnologica (9) Messa a punto di strategie progettuali di ricerca e innovazione in risposta agli obiettivi di sviluppo del paese.

35.LA CASA E LA CASA COMUNE:
TERRITORIO E PATRIMONIO CULTURALE

Quello della casa è un problema strutturale non un’emergenza. Da circa vent’anni, con l’esaurimento delle entrate ex Gescal e con il trasferimento delle competenze alle regioni, l’Italia è l’unico Paese europeo privo di una politica nazionale per la casa. Sono più di 600 mila le domande per l’assegnazione di alloggi pubblici, alle quali vanno aggiunti i bisogni delle famiglie che non possono far fronte neanche ai canoni delle case popolari. Sono stati disposti solo occasionali finanziamenti volti più al sostegno dell’imprenditoria che ad alleviare il disagio abitativo. Le politiche da attivare al più presto sono almeno le seguenti: riassetto degli istituti preposti alla gestione dell’edilizia pubblica; abrogazione delle sciagurate norme che autorizzano la svendita degli alloggi pubblici; garanzia di risorse pubbliche costanti e continuative.

Le suddette azioni, perché siano efficaci, pretendono l’istituzione di un settore dell’amministrazione statale – ministero, agenzia o dipartimento – cui affidare le politiche della casa, attualmente disperse in varie sedi e gestite in maniera estemporanea.

Lo stesso settore dell’amministrazione statale dovrebbe coordinare apposite politiche per le città, come avviene in molti Paesi europei. Si consideri che più della metà degli italiani vivono in aree urbane dove, tra l’altro, è di vitale importanza l’introduzione di misure per far fronte a problemi fino a poco tempo fa sconosciuti come il cambiamento climatico, le ondate di calore, le siccità, le inondazioni. L’incremento del verde pubblico, degli spazi aperti e degli alberi è una delle più efficaci politiche, perseguibile anche con modeste risorse, funzionale a: catturare CO2; garantire l’alimentazione delle falde; assecondare la coesione sociale; favorire la mobilità dolce pedonale e ciclabile.

No al consumo del suolo. Anche se recentemente rallentato, il consumo del suolo (legale e illegale) continua a essere responsabile dello snaturamento del paesaggio e delle città. Il disegno di legge governativo approvato dalla Camera nel 2016 prospetta un progressivo calo delle espansioni destinate ad azzerarsi nel 2050, come richiesto dall’UE. Quand’anche fosse credibile il rispetto dei tempi con un improbabile meccanismo a cascata (Stato, regioni, comuni), la prosecuzione seppure frenata della crescita edilizia per oltre trent’anni porterebbe alla definitiva dissipazione del Bel Paese e a un inevitabile peggioramento delle condizioni di vita nei nuovi insediamenti destinati a restare forse per sempre privi di servizi adeguati.

L’unica soluzione consiste nel fermare subito il consumo del suolo In questo senso agiscono la legge della Toscana del 2014 e il Prg di Napoli del 2004 che non consentono nuove espansioni. Un testo da assumere a modello è quello proposto dal sito eddyburg del 2013: scavalcando le regioni, fa capo alle competenze esclusive dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e del paesaggio (Costituzione, art. 117, c. 2, lett. s) e obbliga i comuni a localizzare qualsivoglia trasformazione solo nell’ambito del territorio urbanizzato.

Tutela del paesaggio. A 13 anni dall’approvazione del Codice dei beni culturali, solo cinque regioni dispongono di piani paesaggistici approvati o adottati (Puglia, Toscana, Piemonte, Sardegna e Lazio). Un risultato scandaloso. Né risultano predisposte le “linee fondamentali del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio”

Il patrimonio culturale. Non c’è mai stata, in questo paese, una politica culturale costituzionalmente orientata. Nell’ultima legislatura, poi, sono arrivate le ‘riforme’ di Dario Franceschini. La riforma Franceschini si basa su un principio semplice, anzi brutale: separare la good company dei musei (quelli che rendono qualche soldo), dalla bad company delle odiose soprintendenze, avviate a grandi passi verso l'abolizione. Il resto (archivi, biblioteche, siti minori, patrimonio diffuso) è semplicemente abbandonato a se stesso: avvenga quel che può.

In gioco non c'è la dignità dell'arte, ma la nostra capacità di cambiare il mondo. Il patrimonio culturale è una finestra attraverso (Codice, art. 145, c. 1) che potrebbero dare un contributo decisivo a mettere ordine nell’assetto urbanistico. Urge perciò – nel quadro di una radicale riforma del Mibact – rilanciare con fermezza e competenza la pianificazione paesaggistica. la quale possiamo capire che è esistito un passato diverso, e che dunque sarà possibile anche un futuro diverso. Ma se lo trasformiamo nell'ennesimo specchio in cui far riflettere il nostro presente ridotto ad un'unica dimensione, quella economica, abbiamo fatto ammalare la medicina, abbiamo avvelenato l'antidoto. Se il patrimonio non produce conoscenza diffusa, ma lusso per pochi basato sullo schiavismo, davvero non abbiamo più motivi per mantenerlo con le tasse di tutti: non serve più al progetto della Costituzione, che è "il pieno sviluppo della persona umana" (art. 3).

Il progetto sulla tutela, invece, è stato chiarito da Maria Elena Boschi. Dialogando amabilmente con Matteo Salvini in diretta televisiva (Porta a Porta, 16 novembre 2016), l'allora ministra per le riforme ha candidamente ammesso: "io sono d'accordo diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d'accordo". Ecco la verità. Renzi l'aveva scritto, in un suo libro: "soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della democrazia". Detto fatto: ora chi vuole cementificare, distruggere, esportare clandestinamente, saccheggiare necropoli ha la strada spianata.

Tutto questo non è una novità, è l'estremizzazione della linea anticostituzionale di Alberto Ronchey (ministro per i beni culturali dal 1992 al 94), guidata da un micidiale cocktail ideologico nel quale erano mescolati la dottrina del patrimonio come ‘petrolio d’Italia’, la religione del privato con l’annesso rito della privatizzazione, e (specie dopo il ministero di Walter Veltroni) lo slittamento ‘televisivo’ per cui il patrimonio non ha più una funzione conoscitiva, educativa, civile, ma si trasforma in un grande luna park per il divertimento e il tempo libero.

La storia dell’arte è in grande parte la storia dell'autorappresentazione delle classe dominanti, e per un lungo tratto i suoi monumenti sono stati costruiti con denaro sottratto all’interesse comune. Ma la Costituzione ha redento questa storia: le ha dato un senso di lettura radicalmente nuovo. Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati.

Perché questo si realizzi, i primi passi sono semplici e chiari: abrogare le riforme Franceschini; tornare immediatamente al livello di finanziamento precedente al taglio Bondi-Tremonti del 2008; riportare la pianta organica dei Beni culturali a 25.000 unità e coprirle tutte con posti a tempo indeterminato; riunire Ambiente e Beni Culturali in un solo Ministero del Territorio e del Patrimonio, da intendere come un ministero dei diritti della persona, come lo sono quelli della Salute e dell’Istruzione.

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