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Pierluigi Cervellati
Per carità, non facciamo una New L’Aquila
7 Giugno 2009
Terremoto all'Aquila
“La città va restaurata fedelmente e con criteri antisismici. Il terremoto non può essere occasione per distruggere il territorio”. Da la Repubblica, 9 aprile 2009

Tremendo sarebbe costruire una New L’Aquila. Si distruggerebbe per sempre la sua memoria e l’eventuale ripristino dei suoi monumenti sarebbe del tutto inutile. Privati del loro ambiente diventerebbero vuoti simulacri in mezzo alle rovine. L’Aquila, al pari degli altri centri terremotati, deve essere ricostruita fedelmente, con criteri giusti, antisismici. Cercando di mantenere il più possibile le murature esistenti, rafforzandole con trefoli in ferro o altri sistemi tecnici non invasivi. Si utilizzi l’artigianato e non le imprese di prefabbricati cementizi. Non si dimentichi che è inagibile il nuovo ospedale inaugurato pochi anni fa e sono crollati lo studentato e altri edifici moderni, con struttura in cemento armato.

Le new towns non sono un modello di ricostruzione. Si faccia il confronto fra "nuova" Coventry e la piazza di Varsavia ricostruita con l’orgoglio di riconquistare la memoria del passato. La prima è diventata omologa ad altri moderni aggregati urbani, mentre la seconda è ritornata ad esser una piazza di città. In Italia c’è la nuova e, si fa per dire, modernissima Gibellina in Sicilia e Gemona e Venzone in Friuli, tutte distrutte dai terremoti. In Friuli la ricostruzione fedele è un modello. Ha gratificato gli abitanti e ha mitigato il dolore delle perdite perché ha ristabilito l’identità dei luoghi e ha rilanciato le attività economiche. L’artigiano ha dimostrato di rappresentare una risorsa troppo presto abbandonata in nome di un’industria che non ha saputo reggere l’urto della globalizzazione.

A Gibellina il concorso di grandi artisti, di insigni maestri dell’architettura moderna ha provocato lacerazioni, violente polemiche e un risultato tutt’altro che condiviso. La vecchia città, lontana 20 chilometri dalla nuova - pur abbandonata a se stessa - per quanto insieme di ruderi fra sterpaglie, è meno desolante della nuova. Forse per il Friuli l’esempio di Longarone ha insegnato che il nuovo non restituisce l’identità perduta.

Il terremoto non deve esser l’occasione per distruggere altro territorio non urbanizzato. Aggiungendo danno alla catastrofe. Al contrario, può offrire la possibilità di ripensare l’assetto urbano e territoriale che a L’Aquila, come altrove, è caratterizzato dal consumo progressivo dell’ambiente circostante. Non c’è bisogno di una nuova città. La documentazione esistente, la sapienza del lavoro artigianale, le stesse tecniche tradizionali adeguate per impedire il rischio sismico, offrono tutte le garanzie per ripristinare, pietra su pietra, strada per strada, luogo pubblico per luogo pubblico, il fascino di una città storica che nello scenario del Gran Sasso è – e potrà tornare a essere - una fra le più suggestive del nostro straordinario Paese.

Non è il tempo per realizzare new towns. Dopo il fascismo, ahimè, non siamo più riusciti a farle. Abbiamo abbandonato o stravolto quelle vecchie nei centri storici e abbiamo consumato territorio costruendo solo periferie. Migliaia e migliaia di ettari di periferia. Il furore costruttivo può essere più dannoso di quello distruttivo del terremoto. Dal primo Paese che eravamo per presenza turistica siamo oggi al quinto. Cerchiamo di non scendere ancora. E si ricordi: senza memoria non si costruisce il presente e tanto meno il futuro. Ripristiniamo i centri storici aquilani, magari con l’aiuto di tutti, per dimostrare a tutti che il nostro Paese ha ancora un avvenire, in quanto capace di mantenere il suo patrimonio storico e artistico, conservando o ripristinando i suoi insediamenti storici, senza alterare ulteriormente un territorio/paesaggio/ambiente, unico al mondo.

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