Non è più così emozionante far volare aquiloni in piazza Tian An Men. Lo era fino a qualche anno fa, in un cielo alto e limpido, di un azzurro intenso, quasi da altopiano tibetano. Ora il cielo di Pechino è sempre grigio e basso, calato come una cappa sull'enorme piazza. È colpa dell'inquinamento, frutto a sua volta dei profondi cambiamenti che hanno investito la città in questi ultimi decenni, in questi ultimissimi anni. Chi oggi arriva per la prima volta, perso tra enormi palazzi in vetro, strade a scorrimento veloce, sopraelevate, cinque anelli viarii, non riesce a immaginare che cosa fosse questa capitale ancora qualche anno fa. Zhang Kaiji, architetto in età, ricorda con nostalgia il vecchio profilo pechinese: una città tutta orizzontale dove il grigio uniforme delle abitazioni piano terra era spezzato dai colori e dall'altezza del complesso imperiale, dalle varie torri, dalla pagoda bianca. Ora questa armonia è stata cancellata dai grandi palazzi (non ancora grattacieli) che hanno coperto la vista degli antichi gioielli architettonici.
Non è che in Occidente ci si possa meravigliare più di tanto per questa opera di demolizione. A Roma la nascita del Vittoriano a piazza Venezia, ai primi del novecento, costò la distruzione o lo stravolgimento di una parte importante della vecchia città papale. La Parigi del barone Hausmann è sorta, nella seconda metà dell'Ottocento, dalla demolizione dei quartieri medievali. La differenza sta tutta nella dimensione del fenomeno: della vecchia Pechino non è rimasto più niente e tutto si è svolto di corsa. Eppure la Cina è il paese che sempre vanta i suoi cinquemila anni di civiltà. Ma è anche il Paese nel quale ogni passaggio di dinastia si è accompagnato alla distruzione dei simboli materiali di quelli usciti di scena. E così oggi si può vedere nella cancellazione della vecchia Pechino, dei suoi hutong ( i vicoletti medievali), delle sue pagode e dei suoi archi in legno, il segno di un superamento ormai completamente realizzato e irreversibile del patrimonio maoista del Paese. Può pure restare il ritratto di Mao sul rostro della Città proibita, può anche restare il mausoleo di Mao al centro della piazza Tian An Men: sono simboli che non hanno più alcuna sostanza. La sostanza vera è quello che è nato intorno. E dice che il passato rivoluzionario è un fardello, il nazionalismo autarchico è sbagliato, l'imperialismo non è più «una tigre di carta», l'egualitarismo non è segno di virtù sociale, è solo umiliante.
Tutto è avvenuto di gran corsa. Yiang Pin è un ex giornalista che ora si occupa di una ong che gode anche di finanziamenti italiani ed è impegnata nel progetto di rimboschimento dell'area al confine con la Mongolia interna in modo di evitare a Pechino le tempeste di sabbia e di polvere che l'affliggono, ancor più dalla seconda metà dello scorso decennio, due o tre volte all'anno. Yiang Pin è stato a Roma e così commenta la sua visita: «Ho visto che voi proteggete le facciate dei vecchi palazzi e ristrutturate solo gli interni. Noi abbiamo fretta, non possiamo perdere tanto tempo, preferiamo abbattere tutto e ricostruire interamente di nuovo». Mostra di non capire che una cosa è un antico palazzo romano e un'altra cosa è un cortile di un hutong pechinese. Ma la sua è una frase molto illuminante. La fine del maoismo residenziale è stata gestita attraverso una sfrenata privatizzazione. Il suolo pubblico è stato concesso a società immobiliari che hanno delineato in prima persona la nuova faccia urbanistica di Pechino ( a Shanghai i risultati sono stati più affascinanti).
Le nuove ricchezze private hanno al novanta per cento origine nella frenesia edilizia che corre per la intera Cina. E a Pechino innanzitutto: di nuovo la capitale sta vivendo una fase di grande effervescenza. Sono all'opera due occasioni di grandi stravolgimenti: le Olimpiadi del 2008, il piano urbanistico per il 2020. In vista della prima scadenza, sono state fatte scelte radicali. Il grande complesso siderurgico, che ha occupato anche centomila persone garantendo loro casa e ospedale, scuole per i figli e la banca per il risparmio, verrà trasferito nella lontanissima periferia e se non ce la si farà per il 2008, allora l'attività produttiva sarà sospesa. Il costo previsto è di 50 miliardi di yuan ( servono dieci yuan per un euro). Per garantire la migliore copertura possibile dei giochi si sta costruendo (costo 900 milioni di yuan) una nuova stazione radiotelevisiva, nella zona orientale della città: il complesso, al cui interno sorgerà anche un albergo a cinque stelle, avrà la sagoma della «Grande Arche» parigina. Sono stati avviati i lavori per nuove strade a scorrimento veloce ed è prossima l'apertura del sesto anello, a valorizzare ancora di più la parte nord della città. Si spera che da questo fluire di soldi verrà un grande impulso al consumo privato e quindi all'economia della città (del resto non in cattiva salute).
Naturalmente il controllo dei giochi olimpici è saldamente nelle mani del partito comunista: il presidente dell'apposito comitato è il segretario del partito di Pechino, primo vicepresidente è la signora Chen Zhili, una dirigente che ha percorso la sua carriera politica a Shanghai prima di approdare nella capitale nell'entourage dell'ex primo ministro Zhu Rongji. Sarà il sindaco della città il responsabile della gestione operativa del tutto, aiutato da Deng Pufang, figlio di Deng Xiaoping. La riuscita della scommessa è fortemente sentita dalla dirigenza del paese, una questione di vita o di morte.
È ovvio che i giochi condizionino al massimo la definizione della Pechino da qui al 2020. E quale sarà la nuova capitale? I cinesi amano molto darsi degli ampi orizzonti strategici e così attraverso tre tappe temporali hanno fissato al 2050 l'anno nel quale la capitale potrà fregiarsi del pieno inserimento nell'elenco delle grandi e moderne città del mondo, ricca di uno sviluppo che ha saputo «armonizzare economia, benessere sociale, rispetto per l'ambiente». Si vedrà.
Nel frattempo, il plastico esposto al pubblico nell'appena ristrutturato museo della pianificazione urbana, a pochi passi dalla Tian An Men, ci racconta che cosa viene previsto da qui al 2020. Sono interessanti due dati. Il primo: oggi gli abitanti di Pechino sono poco più di 14 milioni; tra quindici anni non dovranno essere più di diciotto. Di questi ultimi, tredici milioni e mezzo saranno «residenti permanenti», il resto costituirà la massa di pendolari. Con quanti e quali problemi per la gestione del rapporto tra i servizi della città e questa folla di arrivi giornalieri è facile immaginare. Saranno cinque milioni le auto un circolazione mentre oggi sono due milioni e trecentomila, con spaventosi effetti sul tasso di inquinamento e sul traffico, dal quale sono quasi completamente scomparse le mitiche biciclette. L'altro dato interessante è la previsione più propriamente di pianificazione urbanistica. Oggi Pechino è strutturata con due assi viarii centrali, nord-sud, est-ovest e cinque anelli di scorrimento viario, che hanno permesso l'estensione della città a cerchi concentrici. Pare che questa struttura non venga sostanzialmente messa in discussione anche se per il 2020 si progetta la creazione di undici «città satellite» verso ovest e verso est, con l'obiettivo di allentare la pressione sulla parte centrale della estesa capitale. Questa soluzione non è che trovi tutti d'accordo. Fortemente critico è il professor Jiang Je, docente di urbanistica alla Qinghua e buon conoscitore di Roma che ha visitato varie volte grazie agli accordi tra la sua facoltà e quella di architettura della Sapienza.
Dice di sapere benissimo che Pechino ha bisogno di spazio, ma ritiene che la soluzione del «satellite» sia una banale imitazione di esperienze occidentali, poco adatte alle esigenze cinesi, segnate da una popolazione di un miliardo e quasi trecento milioni e da una penalizzante scarsità di terra utile. Critica anche l'assenza di chiarezza sui collegamenti che, per evitare ancor più devastanti paralisi del traffico, dovranno pur esserci tra le varie città satelliti e tra loro e il resto della rete viaria della regione. Jiang Je propende per la nascita di città di medie dimensioni, che siano del tutto indipendenti e autonome in termini di servizi, attività produttive, istruzione e cultura, e tali dunque da non aggravare la già insostenibile congestione della capitale. Ma sa anche che l'accentramento urbanistico è funzionale alla centralizzazione del potere politico. Ed è questo, dice, che non si intende mettere in discussione. Difficile dire se l' ipotesi prospettata dal docente di Qinghua sia realistica o efficace.
Sta di fatto però che il tema della pianificazione urbanistica oggi in Cina occupa uno spazio importantissimo perché è legato, più ancora che in Occidente, a dinamiche sociali che possono anche diventare pericolose. Si è visto nel 2003 in occasione della epidemia Sars quanto fosse difficile gestire la massa dei pendolari e garantire la loro sicurezza e quella dei residenti. La deflagrazione urbanistica ha portato alla luce, creato, consolidato, una nuova mappa sociale di Pechino, una città ormai piena di disuguaglianze come qualsiasi altra grande città del mondo. Nell'area nord, oltre il grande tempio dei Lama, sono sorti i quartieri residenziali per ricchi, con parchi, ville recintate, guardie che impediscono l'ingresso agli estranei. Sempre a nord, spostandosi in direzione della Grande muraglia, sono sorti insediamenti di avanguardia, frutto della sperimentazione di giovani architetti venuti da Hong Kong. Nella zona sud invece sono nati in questi anni i palazzi popolari per operai o impiegati di basso reddito; e ancora più a sud, verso le aree interne, la città ha sconfinato nei villaggi di campagna, le case contadine sono state occupate e riattate dagli emigrati arrivati dalle lontane province meridionali, innanzitutto dallo Zhejiang, nuovi palazzi sono stati tirati su alla buona : sono luoghi di una bruttezza angosciante, degradati, privi di molti dei servizi essenziali. L'altra faccia del boom.
Da qui al 2020 Pechino ha un altro obiettivo ambizioso: trasformare radicalmente la sua economia lasciando che siano il terziario e i servizi a garantire il 70% del prodotto interno lordo e del reddito individuale ( 10 mila dollari all'anno a persona, non proprio la cifra che possa far gridare al miracolo consumistico, come stiamo facendo in occidente).
A guardare il plastico del nuovo piano urbanistico e a leggere le schede presentate dai vari distretti ( l'equivalente dei nostri consigli municipali, anche se molto più consistenti demograficamente) si vede che è già in atto la corsa ad accaparrarsi attività terziarie, centri di ricerca, istituti di alta specializzazione, laboratori farmaceutici, con una apertura molto più decisa ed estesa al capitale straniero. E dunque se la nuova Pechino dello stravolgimento urbanistico aveva sanzionato la fine del maoismo, la Pechino dei servizi sanzionerà la fine del denghismo, centrato sulla filosofia del produttivismo dell' industria manifatturiera.
Altre notizie sulle grandi trasformazioni urbane di Pechino, al sito (in inglese) della Commissione Municipale per l'Urbanistica