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1. Premessa. Il potere delle parole
Come nelle precedenti edizioni, apriamo i lavori della scuola con una riflessione su parole che toccano da vicino la città nel tentativo di comprendere la loro ambiguità e il loro uso da parte dell’ideologia dominante, ma anche la loro potenzialità ai fini della rinascita di un pensiero critico e della loro utilizzazione come strumento di resistenza e di costruzione di pratiche contro-egemoniche.
L’interesse per le parole, la necessità di chiarirne significati, interpretazioni, slittamenti e la strumentalità che spesso ne caratterizza l’impiego, hanno caratterizzato la scuola di eddyburg fin dal suo inizio. La convinzione della centralità del loro ruolo e della necessità di rivelarne i significati e svelarne le ambiguità si è consolidata nel tempo. Man mano, ci siamo accorti come gran parte delle malefatte che avvenivano nel territorio e nella società derivavano da un pensiero comune finalizzato alla diffusione di un’ideologia perversa che orientava gli avvenimenti e foggiava gli strumenti necessari per la trasformazione della realtà.
Questa prima giornata ha un duplice obiettivo.
Primo. A partire dall’analisi delle parole e dei discorsi, vogliamo fornire alcuni strumenti critici per comprendere meglio gli avvenimenti e i fenomeni urbani e territoriali di questi ultimi decenni che saranno illustrati nella II e III giornata della scuola. Dopo parole come benessere, vivibilità, povertà, competizione , spazio pubblico , potere , che abbiamo affrontato nelle passate edizioni della scuola, eccoci ad affrontare la parola che forse più di ogni altra è stata capace di plasmare un’epoca. Per oltre sessant’anni il concetto di “sviluppo” come sinonimo di progresso, civilizzazione, e positività a priori (senza il bisogno di qualificare lo sviluppo con un attributo) non solo ha orientato le politiche di tutti i paesi del mondo, ma ha colonizzato le menti, impedendo ad altre concezioni di crescere, di essere approfondite e discusse. Attraverso l’analisi critica alla parola “sviluppo” sosterremo la tesi che questo concetto è inadeguato sia a comprendere i fenomeni che a dare risposta ai bisogni e alle questioni che il genere umano esprime in questa fase della sua storia.
Secondo obiettivo. Vogliamo alimentare la discussione intorno a paradigmi alternativi che esprimono un’idea di società diverso e profondamente in antitesi a quella implicita nell’ideologia dello ”sviluppo”. Proponiamo il concetto di “beni comuni” come alternativa, concettuale e politica, per trasformare la società e l’habitat dell’uomo in funzione del benessere degli abitanti di oggi e di quelli che devono venire, tendendo conto della limitatezza delle risorse naturali e della conoscenza umana, della diversità delle culture e della dignità che ognuna di queste possiede e della prevalenza dei valori di rispetto, uguaglianza e pace.
In entrambi i casi il fulcro di questa giornata è sulle parole, sui concetti e i discorsi ad esse legate, spiegati nel contesto socio-economico, politico e culturale in cui essi si formano. Perché, è importante sottolineare che il linguaggio è una pratica sociale. Ciò significa che esiste una relazione dialettica, reciproca, tra linguaggio e società. Quando parliamo, scriviamo, ascoltiamo, leggiamo lo facciamo in un modo che dipende dalla società, dall’insieme delle relazioni e delle contingenze socio-economiche, politiche e culturali in cui la nostra società si trova.
Nello stesso tempo le parole hanno degli effetti, delle ricadute sulla società, non ultimo il potere di modificare la realtà materiale. Con le parole produciamo concetti, categorie, teorie attraverso cui rappresentiamo, comprendiamo e progettiamo il mondo, diamo un significato al mondo che ci circonda e con il quale ci rapportiamo, dalle relazioni sociali agli oggetti fisici.
Il discorso comprende il testo (scritto, parlato, visivo) e tutti i processi che consentono di interpretarlo, produrlo e riprodurlo. Nell’affrontare questi processi noi attingiamo ad una serie di risorse nella nostra mente: quelle linguistiche, la grammatica, la sintassi ma anche quelle legate ai valori, alle credenze che si formano via via nel corso della vita, attraverso le relazioni con le altre persone, il lavoro, la scuola ecc. e dipendono da una serie di convenzioni che la società impianta attraverso le istituzioni, i comportamenti, le pratiche.
Questo insieme di convenzioni è determinato dalle relazioni di potere. I discorsi, scritti e parlati, sono un ottimo veicolo per il potere perché attraverso essi si può affermare una certa idea del mondo, e attraverso questa idea si possono quindi affermare certe pratiche, certi modi di fare piuttosto che altri. Il potere che si esercita attraverso il discorso, attraverso la parola non è un potere coercitivo, ma un potere che si acquisisce attraverso il consenso, sia attraverso la comunicazione con la quale si convince, sia attraverso l’inculcazione, cioè una sorta di persuasione che avviene in maniera recondita, non consapevole. Parliamo quindi del potere in termini di egemonia.
Due sono i concetti principali che analizzeremo oggi. Da una parte il concetto di “sviluppo” una parola che ha conquistato un potere immenso, è diventata egemonica; lo dimostra il fatto che essa ha acquisito uno stato di “senso comune”, ovvero di verità indiscussa. Come sosterrò più avanti, riprendendo la metafora di Gilbert Rist, lo sviluppo è una vera e propria credenza egemonica. Dall’altra parte abbiamo il concetto di “beni comuni” che si pone come paradigma alternativo e profondamente in contestazione a quello esistente e presuppone un cambiamento radicale del sistema socio-economico esistente; siamo quindi in presenza di un concetto contro-egemonico.
Il rapporto tra queste due parole e i diversi mondi che esse prefigurano è quello che Gramsci chiama “lotta per l’egemonia”, poichè essa è combattuta innanzitutto a livello dei discorsi e delle idee. E’ una lotta per ottenere il consenso, in cui le parole diventano armi potenti per affermare un’ideologia e un progetto di società in contrapposizione.
L’egemonia è appunto il potere essenzialmente (ma non esclusivamente) esercitato attraverso il discorso e basato sul consenso anziché per via coercitiva (in maniera esplicitamente violenta, o anche più subdola), cioè attraverso l’acquisizione di un’acquiescenza più o meno generalizzata. Analizzare criticamente le parole significa individuare le relazioni di potere nella loro connessione ai processi di formazione del sapere e di formulazione delle politiche, significa comprendere chi ha conferito autorità ed efficacia performativa alle parole, e quindi comprendere chi tira i fili e quali interessi vengono difesi e quali no.
Il potere del linguaggio può esercitarsi attraverso tre principali pratiche :
• l’adozione di pratiche e discorsi universalmente accettati e seguiti perché nessuna alternativa possibile sembra concepibile, immaginabile;
• l’imposizione di pratiche attraverso un esercizio del potere ‘nascosto’, non esplicito ( l’inculcare);
• l’adozione di pratiche che vengono adottate attraverso un processo di comunicazione razionale e di dibattito (il comunicare).
Questi tre meccanismi sono tutti presenti nella società contemporanea, ma l’inculcare e il comunicare sono i più diffusi.
Generalmente l’inculcare viene adottato per ricreare, artificiosamente, l’universalità del primo meccanismo, ed è usato da chi detiene il potere (e vuole mantenerlo) poiché dipende strettamente dall’autorità. Questo è il modo in cui l’ideologia dello “sviluppo” si è affermata ed è diventata egemonica. Nel caso dello “sviluppo”, come vedremo più avanti, il linguaggio è diventato strumento di potere e di legittimazione di politiche, decisioni, provvedimenti, leggi, decreti, conquiste e guerre per affermare, diffondere, rafforzare e difendere lo status quo, il sistema capitalistico.
La comunicazione razionale e il dibattito costituiscono invece soprattutto meccanismi di emancipazione, generalmente usati nella lotta contro il potere dominante. É insomma quello che faremo questa settimana qui alla scuola di eddyburg. Infatti il linguaggio può essere anche uno strumento di potere a favore del cambiamento, per trasformare la società verso un percorso diverso, che esca dal progetto di sviluppo e crescita illimitata. Per fare ciò occorre innanzitutto superare l’acquisizione acritica di supposizioni, “credenze”, che altri elaborano e inculcano come verità assolute (“senso comune”, secondo Gramsci) e connettere la vita concreta ad una profonda e critica comprensione di ciò che avviene intorno a noi, vicino e lontano, attivando invece il “buon senso”. Il buon senso non è altro che una consapevolezza critica, che ci consente di reagire ai discorsi attivamente e non passivamente, crearndo un legame con la vita reale e le difficoltà che viviamo ogni giorno. Senza questa consapevolezza non può esserci un’effettiva cittadinanza democratica, ed non è possibile promuovere un qualsiasi progetto di cambiamento sociale alternativo.
2. Le origini: il sermone di Truman (1949). Dallo sviluppo come concezione, all’affermarsi dello sviluppo come credenza
Il progresso è un ideologia, il divenire è una concezione filosofica. Il “progresso” dipende da una determinata mentalità, a costruire la quale entrano certi elementi culturali storicamente determinati; il “divenire” è un concetto filosofico, da cui può essere assente il “progresso”. Nell’idea di progresso è sottintesa la possibilità di una misurazione quantitativa e qualitativa: più è meglio. Si suppone quindi una misura fissa o fissabile, ma questa misura è data dal passato, da una certa fase del passato, o da certi aspetti misurabili…” [Antonio Gramsci, Quaderni del carcere]
Il termine sviluppare deriva da “viluppare” “togliere dal viluppo” o “sciogliere un viluppo” ovvero sciogliere un groviglio, dipanare una matassa, liberare da qualcosa che avvolge. Per analogia svolgere, distendere del tutto. In quest’ultima accezione è già presente l’altro significato essenziale del verbo, che diverrà predominate: svolgere nelle varie parti, rilasciare quelle potenzialità dell’oggetto o organismo in questione sino a che questo raggiunge la sua naturale forma finale.
Etimologicamente è importante fare riferimento al significato inglese della parola, perché è proprio in ambito anglosassone che avverrà il più importante slittamento del termine. Nel primo inglese moderno, la parola sviluppo, nell’accezione di svolgimento, derivava dal développer francese. Nel periodo delle rivoluzioni francese e inglese, la parola sviluppo entrò nella sfera dell'economia per indicare i cambiamenti economici e l'idea di progresso. Nel XVIII secolo è stato esteso metaforicamente alla facoltà della mente umana. La connotazione di evoluzione, che ha permesso l'uso metaforico del termine per spiegare il processo attraverso il quale l'organismo raggiunge la sua forma più appropriata e completa, si è compiuta alla metà del XVIII secolo con Darwin.
Il cambiamento più significativo è venuto dopo il 1945, quando è entrato in uso il concetto sottosviluppo, e lo sviluppo è stato associato all'idea che le economie e le società avrebbero dovuto passare attraverso prevedibili “fasi di sviluppo”. Espressioni come “retrogradi”, o “sottosviluppati”, divenne il modo per definire in modo permanente i paesi dell'Africa, dell'America Latina e Asia. Di conseguenza, lo sviluppo è diventato un progetto di dominazione in quanto mina la fiducia delle altre culture in esprimersi e portare avanti altri modi di pensare, di scegliere altri percorsi e progetti, riducendo i loro destini ad un modo essenzialmente occidentale di concepire, percepire e plasmare il mondo. Il discorso sullo sviluppo, che descrive lo sviluppo come un necessario, desiderabile, auspicabile, diventa quindi un potente strumento di potere dell'Occidente per plasmare l'immaginazione della gente, le loro speranze e progetti, nonché di gestire, controllare e persino inventare economicamente, politicamente, sociologicamente e culturalmente il “Terzo Mondo” .
Nel tempo vi è stata una riduzione del termine di sviluppo allo “sviluppo economico” compiendo una forte riduzione dei significati complessi e variegati che il termine sviluppo può esprimere. Sviluppo in se è un termine neutrale. Esso assume un significato compiuto se è qualificato, riferito ad un’altra parola, ed è a seconda della qualificazione che può avere un senso positivo o negativo. Così lo sviluppo di una malattia è certamente negativo; lo sviluppo della capacità di comprender o lo sviluppo di un’idea ha un significato positivo. La riduzione del termine di sviluppo al solo sviluppo economico è una prima mistificazione che è stata compiuta.
Ritorniamo alla storia. Vorrei soffermarmi su questo passaggio perché ci permette di comprendere l’arbitrario operato nell’assumere quella parola come sinonimo di progresso e di attribuirle così positività a priori, e vorrei mettere in evidenza come lo sviluppo sia stato un abile strumento di potere per orientare e plasmare la società in una determinata direzione. Il discorso di Truman del 1949 è un evento fondamentale che ha segnato la storia di questo concetto e ha dato inizio all’era dello sviluppo.
Vediamo di sintetizzare il contesto storico. Dalla fine della seconda guerra mondiale grandi eventi avevano cambiato la scena politica globale e trasformato profondamente i rapporti tra paesi ricchi e quelli poveri. I paesi asiatici e africani avevano contestato il sistema di sfruttamento e controllo del colonialismo mentre un forte nazionalismo stava crescendo nei paesi dell'America Latina. Gli Stati Uniti emersero come la prima potenza economica e militare nel sistema capitalistico mondiale, anche se la loro posizione era contestata dai regimi socialisti.
La guerra fredda veniva a modellare le relazioni internazionali e il “Terzo Mondo” diventava uno dei più importanti nuovi teatri di battaglia. La comunità internazionale guidata dagli Stati Uniti volgeva crescente attenzione ai paesi del “Terzo Mondo”. Demograficamente rappresentavano la più grande maggioranza del genere umano ed erano in crescita. Economicamente contenevano la maggior parte della crescente forza lavoro, erano fonti di grande quantità e varietà di materie prime e rappresentavano il più grande mercato del futuro per i prodotti industriali. Politicamente, con l’indipendenza stavano programmando il loro destino e quindi potevano diventare o nemici o alleati di sostegno nella lotta contro il comunismo.
In questo scenario di opportunità e minacce, con la dottrina Truman - introdotta nel 1949 dall'allora presidente degli Stati Uniti Harry Truman - si afferma il progetto di sviluppo e un efficace apparato, ha iniziato a prendere forma. Questo progetto di sviluppo era (ed è tuttora) destinato a replicare nel “Terzo Mondo” le caratteristiche della società occidentali capitalistiche avanzate: la democrazia, un alto livello di industrializzazione e urbanizzazione, la meccanizzazione dell'agricoltura, la rapida crescita della produzione materiale e dello standard di vita, così come l'adozione diffusa di valori tipici della cultura americana e anti-comunista.
Prima di tutto Truman ha inventato nel suo discorso un’identità nuova: i “sottosviluppati”, raggruppando in una sola categoria tutta la diversità inestimabile delle persone che vivono in Africa, Asia e l'America Latina. Quella stessa parola ha anche indicato la posizione dello “sviluppato” a cui tutte le persone e paesi del mondo dovevano aspirare. Una nuova era nella rappresentazione e controllo del “Terzo Mondo” cominciò e avrà conseguenze importanti anche sull’Occidente. Si afferma e diventa egemonico quello che Boaventura de Sousa Santos definisce come il pensiero abissale:
«una disposizione intellettuale, filosofica e politica, che si traduce nella capacità di tracciare linee attraverso le quali istituire divisioni radicali all'interno della realtà, rendendone una parte «riconoscibile», rispettata, rilevante, e condannando tutto il resto all'irrilevanza e all'inesistenza.» [B. de Sousa Santos, Beyond abyssal thinking. From global lines to ecologies of knowledges]
Prosperità e pace sono state le due giustificazioni principali addotte da Truman per diffondere lo sviluppo, e intraprendere crociate, mentre il cambiamento necessario doveva essere indotto dalla combinazione appropriata di tre ingredienti fondamentali: la produzione capitalistica - più cibo, più vestiti, più materiali per l'edilizia etc. - la scienza e la tecnologia. Tutto ciò che di importante nella vita sociale ed economica dei paesi poveri (la loro popolazione, le loro economie, risorse naturali, agricoltura e commercio, amministrazione, valori culturali, ecc) divenne così l'oggetto di calcolo da parte di esperti formati nella nuova scienza dello sviluppato.
Un altro elemento fondamentale di questa crociata è “l’aiuto allo sviluppo” o quello che oggi chiamiamo “cooperazione allo sviluppo” o “cooperazione internazionale”. In forma di assistenza scientifica e tecnica, conferiti per alleggerire il fardello dei poveri, l’aiuto è diventato la maschera dell'interesse e tornaconto degli Stati Uniti e dei paesi occidentali in generale .
Due procedure sono stati fondamentali per l’affermarsi di questo credenza e di tutte le pratiche necessaria alla sua implementazione: la professionalizzazione e l’ istituzionalizzazione dello sviluppo .
La “professionalizzazione” dello sviluppo consente ad alcune forme di conoscenza - generati e convalidati da un insieme di tecniche, strategie e pratiche disciplinari - e non altre di raggiungere e mantenere lo status di verità. Nel caso dello sviluppo questo è stato ottenuto con l'applicazione di discipline già esistenti, dalla demografia alla pianificazione, ai problemi di “Terzo Mondo” e con la creazione dell’economia dello sviluppo, che ha permesso l'inserimento progressivo di problemi, dalla povertà alla urbanizzazione, nel discorso dello sviluppo in modo congruente con il sistema eurocentrico e nord centrico di conoscenza e potere. L'intero processo di rappresentazione dei problemi e di costruzione delle sue soluzioni passa attraverso un sistema di misurazione, teorizzazione e normalizzazione basato e funzionale al progetto di sviluppo. In questo processo l’economista e il tecnico pianificatore/progettista svolgono un ruolo particolare nella nuova era dello sviluppo. L'economista è diventato l’esperto per eccellenza chiamato a decretare le verità più elementari. Il tecnico pianificatore/progettista è stato quello che ha applicato le conoscenze teoriche attraverso la pianificazione, lo strumento attraverso il quale l'economia è diventata utile ed è stata legata alla politica e allo Stato.
L’ istituzionalizzazione dello sviluppo si riferisce a quel complesso sistema di rapporti, programmi, conferenze, pratiche locali e così via attraverso le quale vengono prodotti e diffusi i discorsi, le tecniche e le procedure.
Il discorso dello sviluppo è cambiato molto nel corso dei decenni. L’evoluzione delle teorie sul capitale (umano, sociale, istituzionale, conoscitivo, ambientale) hanno arricchito di nuove dimensioni l’interpretazione dei processi di crescita e fornito nuove indicazioni strategiche. Queste si sono tradotte da una parte in nuove pratiche dall’altra in nuovi discorsi, che hanno visto emergere nuove parole, o vecchie parole con nuovi significati: come empowerment, capacity building e istitution building (cioè le competenze, i saperi e le capacità progettuali), accountability (capacità manageriale e l’efficienza) sustainability, governance e tutte le sue declinazioni, urban, local good, etc., che acquisiscono una notevole rilevanza anche nei confronti delle politiche urbane. Di conseguenza, nuove strategie, in nome dello sviluppo sono state invocate e nuove pratiche hanno avuto luogo.
Tuttavia, si è continuato a produrre lo stesso tipo di relazioni tra i donatori (l’occidente) e i beneficiari (“Terzo Mondo”), confermando lo stesso meccanismo di produzione di conoscenza e di esercizio del potere.
“… una linea abissale divide i «selvaggi», gli indigeni dal resto. Nelle colonie dunque non è mai valsa la tensione tra regolamentazione ed emancipazione sociale, che caratterizza invece il nord globale, ma soltanto quella tra appropriazione e violenza. E questa divisione continua ad operare ancora oggi: il colonialismo infatti non è cessato con la fine del colonialismo politico, ma prosegue, insieme al razzismo, che si definisce proprio per la capacità di disegnare linee abissali dichiarando irrilevante chi si trova «al di là» della linea. D'altra parte, la dicotomia appropriazione-violenza sta contaminando anche l'altro paradigma socio-politico. Negli ultimi anni l'emancipazione, che ha sempre rappresentato il polo opposto della regolamentazione, è diventata l'«altro» della regolamentazione, il suo doppio. La «democrazia sociale», come la intendiamo in Europa, lo testimonia: originariamente intesa come orizzonte di emancipazione, è divenuta una forma di regolamentazione sociale per il capitalismo, e dopo il 1989 ha perso anche il suo volto umanitario, dimenticando le politiche sociali.”
3. I pilastri della credenza
Nel dibattito sullo sviluppo la scienza e la tecnologia hanno avuto un ruolo fondamentale nei valori impliciti nello sviluppo di progresso e modernizzazione. Il riconoscere l'importanza del “Terzo Mondo” per l'economia e la politica internazionale ha incoraggiato la raccolta di sempre più accurate conoscenze scientifiche sui paesi in via di sviluppo, mentre la crescita economica - elemento chiave per il passaggio da una fase di sottosviluppo a uno di sviluppo - richiedeva capacità tecnologica per assicurare il progresso. Le idee degli scienziati divennero poi operative attraverso la ricerca applicata. Un rapporto dal titolo "La scienza, la frontiera senza fine" aveva affermato che le conoscenze essenziali non potevano essere ottenute se non attraverso la ricerca scientifica di base, assumendo questo come metodo infallibile di raccolta delle informazioni. L'apparente neutralità di queste informazioni sembrava una caratteristica positiva per quasi tutti gli studiosi di diverse religioni, cultura e nazionalità. Da qui proviene la potente influenza della scienza nella fantasia e il pensiero degli esseri umani nei secoli. Solo le opere di sociologia della conoscenza e della storia e filosofia della scienza hanno esposto il pregiudizio ideologico e culturale della scienza. Santos (2007) ci ricorda che l'epistemologia è essa stessa contestuale, legata alle condizioni storiche in cui prende corpo e a particolari agenti, e dietro una certa concezione epistemologica molto spesso ci sono idee promosse con la forza. Questa sovrastruttura è stata ereditata dallo sviluppo e, al tempo stesso lo sviluppo è diventato l'ultimo alleato delle scienze moderne nell'esercizio della sua egemonia politica.
Con lo sviluppo una nuova disciplina è entra nel regno della scienza. L’economia dello sviluppo è diventata lo strumento per analizzare lo sviluppo economico e sociale e studiare l’arretratezza' dei paesi del “Terzo Mondo”, e dei percorsi che questi paesi avrebbero dovuto prendere per raggiungere la crescita economica. Il progresso diventa un valore imprescindibil e la modernizzazione il nuovo paradigma, profondamente radicato nella concreta esperienza della storia economica occidentale, endogeno nel suo modo di concepire e caratterizzato da evoluzionismo. La teoria tradizionale della crescita economica in voga in quei primi anni dell’era sviluppista invocava: intensità di capitale e cambiamento tecnologico. W.A. Lewis scrisse nel 1946 che era "chiaro come il sole" che l'industrializzazione era stata la chiave dello sviluppo.
Per Escobar il discorso economico ha ricevuto grande attenzione ed è stato altamente performativo, a confronto con altre forme di conoscenza, perché oltre a fare affidamento su un corpus teorico (sviluppo economico) è stato sostenuto da una serie di pratiche e da organizzazioni internazionali e nazionali che hanno conferito autorità alla scienza economica e gli scienziati. A loro volta queste organizzazioni – siccome erano esse stesse parte dei cambiamenti economici, politici e istituzionali - formavano le coscienze e le percezione degli economisti. Per Milberg il potere persuasivo della metafora dello sviluppo poggia su tre aspetti: metodologico, ideologico e sociologico.
ll punto di forza da un punto di vista metodologico è l’individualismo dell’economia, la precisione assiomatica, il rigore deduttivo, e un approccio che si approssima ai metodi della fisica. La seconda fonte di energia è ideologica, in quanto fornisce il supporto scientifico al capitalismo del libero mercato nella sua forma più pura. La spiegazione sociologica è che gli economisti sono in posizioni di potere, con un ruolo consultivo presso l'ufficio esecutivo della maggior parte dei paesi e un ruolo dominante nella politica di sviluppo economico attraverso il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.
Inoltre il pensiero economico dell'immediato periodo secondo dopoguerra ha funzionato a livello psicologico, fornendo un senso di ordine sistemico e benevolenza in un mondo che appare spesso casuale, volatili e ingiusto. Il fatto che una certa visione e la pratica dell'economia è divenuta dominante nella storia europea è un passo fondamentale nella storia della modernità, in quanto è il fatto che gli ingredienti principali di questa economia - mercato, produzione, lavoro - sono stati raramente in discussione.
L'industrializzazione non solo poteva aprire la strada per la crescita e la modernizzazione delle economie arretrate, ma serviva anche per diffondere fra le popolazioni locali la razionalità appropriata, colmare la mancanza dei risparmi e portare le tecnologie necessarie. Alcuni economisti ritenevano che un grande sforzo iniziale era necessario per spezzare il circolo vizioso della povertà, bassa produttività, mancanza di capitale. Tuttavia, tutti erano d'accordo che il compito era gestibile. La maggior parte degli studiosi degli anni ‘50 e ‘60 credevano fermamente in uno scenario di sviluppo del “Terzo Mondo” paragonabile a quello del ‘Primo Mondo’ a patto di trasferire soluzioni ed esperienze dal mondo occidentale ai paesi arretrati. Le industrie erano associate con le città, quindi era prevista una redistribuzione fisica della popolazione dalle campagne ai centri urbani che ha legato indissolubilmente insieme urbanizzazione, l'industrializzazione e sviluppo. In questo modello, la città ha assunto un ruolo importante per l'integrazione e stimolo socio-economico delle trasformazioni necessarie per lo sviluppo.
La pianificazione, intesa come la formulazione di un piano o programma, specialmente di carattere economico, è stata fondamentale per lo sviluppo fin dalla sua nascita, perché era l'applicazione di conoscenze scientifiche e tecniche al pubblico dominio. Il concetto di pianificazione incarna la convinzione che il cambiamento sociale può essere progettato, prodotto e diretto secondo volontà. Tra il 1800 e il 1950, ci fu una regolazione progressiva della società, dello spazio urbano e dell'economia, che ha portato alla creazione dello stato sociale, la professionalizzazione delle opere sociali e della pianificazione. La pianificazione “scientifica” era iniziata in relazione con la prima guerra mondiale e divenne molto popolare in anni 1920 e 1930 in diversi contesti: dalla pianificazione economica nel sistema sovietico, alla pianificazione urbanistica comunale degli Stati Uniti. Il percorso di questa idea non è rettilineo. Ci sono diversi significati del termine che vanno da concezioni radicali a quelle conservatrici. Come verrà spiegato nell’ultima giornata, dedicata alla pianificazione urbanistica, è fondamentale qualificare la pianificazione. Perché la pianificazione può essere progressista così come conservatrice e reazionaria.
La rete delle organizzazioni per lo sviluppo responsabili della produzione e la circolazione dei discorsi dello sviluppo si estende dalle organizzazioni internazionali, bilaterali a quelle non governative, e ai diversi livelli nazionale, regionale ed enti locali. Il discorso circola attraverso programmi, progetti, conferenze, riunioni di esperti, consulenze, pubblicazioni, think tanks, e così via. Istituzioni internazionali come le Nazioni Unite sono riconosciute avere l'autorità di produrre politiche e strategie; agenzie di prestito, come la Banca Mondiale, portato il simbolo del capitale e del potere, gli esperti hanno conoscenza e competenze, mentre i governi hanno l'autorità legale di intervenire sul popolo delle loro nazioni. La creazione della Nazioni Unite Per il Soccorso e l'Amministrazione della Riabilitazione (che ha preceduto la costituzione delle Nazioni Unite) operante tra il 1943 e il 1946, ha segnato un passaggio chiave dalla vecchia concezione degli aiuti, intesa come occasionale all’aiuto come strumento dello sviluppo. Il Piano Marshall è il diretto precedente della cooperazione allo sviluppo in termini moderni, in quanto ha soddisfatto sia l'obiettivo di promuovere la ricostruzione economica che l'obiettivo politico di prevenire la diffusione del sistema comunista in Europa. Tuttavia, è stato Truman che ha completato il processo di ri-concettualizzazione dell’aiuto e dello sviluppo.
4. Le metamorfosi del concetto:
alla ricerca della sostenibilità delle credenza
Il discorso dello sviluppo è cambiato molto nei decenni. L’evoluzione delle teorie sul capitale (umano, sociale, istituzionale, conoscitivo, ambientale) ha arricchito di nuove dimensioni l’interpretazione dei processi di crescita e fornito nuove indicazioni strategiche. Queste si sono tradotte da una parte in nuovi discorsi e dall’altra in nuove pratiche che hanno visto emergere nuove parole, o vecchie parole con nuovi significati per legittimare il vecchio paradigma dello sviluppo, di decennio in decennio sempre più contestato, e per difendere lo status quo.
Parole come empowerment, capacity building e istitution building (cioè le competenze, i saperi e le capacità progettuali), accountability (capacità manageriale e l’efficienza) sustainability, governance in tutte le sue declinazioni, urban, local good, etc. Vediamo di ripercorrere brevemente alcuni passaggi che segnano l’emergere di questi nuovi alleati discorsivi. Una caratteristica comune è che ciascun concetto viene depoliticizzato e interpretato in maniera tale da eludere la sua valenza politica e le implicazioni riguardanti il dominio e il potere. Essi vengono invocati come elementi tecnici miranti per lo più a aumentare il senso di auto-stima, sfruttare le reti di solidarietà ed auto-aiuto al fine di aumentare il capitale sociale oppure come soluzioni tecniche e/o scientifiche.
All’indomani del discorso di Truman era convinzione condivisa che in un ragionevole lasso di tempo la crescita economica avrebbe sensibilmente migliorato le condizioni di vita delle popolazioni in generale. Come le goccioline d’acqua che zampillano dalla fontana, il benessere avrebbe bagnato un po´ tutti, dominati e dominatori. La formula “trickle-down”, che descrive le politiche economiche che vanno a beneficio dei ricchi, con l'obiettivo di incoraggiare gli individui più ricchi a investire nell'economia, fornendo in tal modo i vantaggi per le classi inferiori, era la teoria in cui si poggiava lo sviluppo come credenza nel primo decennio della sua storia. La crescita era considerata un mandatario affidabile per lo sviluppo.
Tuttavia, questo scenario non si è verificato nei fatti. Nei paesi del Sud del mondo l’industrializzazione non ha accompagnato l’urbanizzazione. Il previsto passaggio dall'agricoltura all'industria non sembra più fattibile, mentre la crescita della popolazione e la subordinazione dell'agricoltura alla monocultura per esigenze del mercato mondiale ha portato ad una massiccia migrazione dalle aree rurali, senza un’ adeguata espansione delle opportunità di lavoro nelle città. Il ruolo della città come un generatore di cambiamento e come fonte feconda di idee e di innovazione non si è concretizzato. Infatti, essi tendevano a un ruolo opposto: le principali città servite principalmente per drenare le risorse della campagna.
«Poco più di cinquant’anni fa, per i nuovi «dannati della terra», i popoli del Terzo mondo, è nata un’altra speranza paragonabile a ciò che era stato il socialismo per il proletariato dei paesi occidentali. Una speranza forse più sospetta nelle sue origini e nei suoi fondamenti, in quanto erano stati i bianchi a portarne i semi, che avevano piantato prima di lasciare i paesi che avevano duramente colonizzato. Questa speranza era lo sviluppo. Comunque sia, i responsabili, i dirigenti e le élite dei paesi di nuova indipendenza presentavano ai loro popoli lo sviluppo come la soluzione di tutti i problemi. I nuovi Stati indipendenti hanno tentato l’avventura dello sviluppo. Forse l’hanno fatto in modo maldestro, e spesso con una violenza e un’energia disperate, ma non si può dire che non l’abbiano tentata. Il progetto sviluppista costituiva anzi la sola legittimità delle élite al potere. Sicuramente si potrebbe discettare all’infinito per stabilire se esistevano o meno le condizioni oggettive per il successo dell’avventura modernista. […] I responsabili dei giovani Stati si trovavano di fronte a contraddizioni insolubili. Non potevano né rifiutare di introdurre né riuscire a radicare nelle loro realtà i diversi elementi che costituiscono la modernizzazione: l’educazione, la medicina, la giustizia, l’amministrazione, la tecnica occidentali. […] Lo sviluppo, per quanto teoricamente riproducibile, non è universalizzabile»
Di fronte al “mancato sviluppo” negli anni ’60 nuove definizioni emersero. Hans Singer nel 1965 dichiarò che “lo sviluppo è la crescita più cambiamento” e il cambiamento non è solo economico ma anche sociale e culturale. Il punto principale era che la crescita non aveva risolto il problema della povertà dei paesi in “via di sviluppo”. Ma ciò che veniva messo in dubbio non era la validità dello sviluppo in sé come paradigma, ma piuttosto le teorie che ne predicevano l’affermarsi e le ricette che stabilivano gli ingredienti per il suo raggiungimento. La fede nello sviluppo era ancora molto forte.
La politica degli aiuti allo sviluppo degli anni sessanta era influenzata sia dalla contrapposizione dei due blocchi Est-Ovest nella guerra fredda, che rendevano i paesi in via di sviluppo pedine strategiche nella scacchiera internazionale, sia da forti interessi commerciali dei paesi donatori, che spingevano verso i cosiddetti “aiuti legati”.
Voci fuori dal coro cominciarono a emergere e un importante cambiamento intellettuale ebbe luogo. La visione eurocentrica sullo sviluppo e il paradigma della modernizzazione venivano fortemente contestati da un gruppo di studiosi di scienze sociali dell'America Latina e la teoria della dipendenza si affermava in contrapposizione all'idea convenzionale che lo sviluppo è una mera ripetizione della storia economica dei paesi industrializzati.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1970, che apriva il decennio, auspicava un approccio che integrasse le componenti economiche e quelle sociali. Il paradigma neoclassico dello sviluppo veniva messo in discussione dalle ricerche sulla popolazione, l’occupazione, la distribuzione dei redditi, il settore informale e le migrazioni dalla campagna alla città della Banca Mondiale e dell’ILO (International Labour Organization), che mostrarono come ad una crescita economica dei PVS, che pure c’era stata non era corrisposta un effettiva diminuzione della povertà. L’anticipato “trickle down effect” non si era materializzato e il divario tra Nord e Sud stava crescendo ancora.. Nuove teorie hanno assunto rilievo.
Il dibattito sullo sviluppo a fine anni ’60 e inizi anni ‘70 è stato caratterizzato nei paesi occidentali da una forte enfasi sull’equità e la giustizia sociale. Sono gli anni delle prime lotte urbane in atto in quasi tutti i paesi europei e animate da movimenti sociali, sindacati, studenti, volte alla conquista del diritto alla casa (accesso ad un’abitazione dignitosa ad un prezzo commisurato alla capacità di spesa) e ad una serie di servizi pubblici indispensabili per la vita sia individuale che collettiva. In quegli anni i discorsi attorno a questi temi erano centrali sia nell’opinione pubblica che nel dibattito politico e scientifico, ed erano accompagnati dagli scioperi contro gli affitti troppo alti, le campagne per l’ottenimento di trasporti pubblici accessibili a tutti, marce per il riscatto di aree e strade delle città e occupazioni. Anche in Italia alla fine degli anni Sessanta espressioni come “diritto alla città” (Convegno PCI 1969), “casa come servizio sociale” (Ceccarelli 1972), “consumi collettivi” (Salzano, 1969), animavano il dibattito e hanno costitutio la base di tante rivendicazioni popolari, contrattazioni sindacali.
Queste lotte si sono tradotte negli anni successivi nell’affermarsi del welfare state (un importante compromesso tra capitale e lavoro) e nel raggiungimento di una serie di conquiste fondamentali da parte dei cittadini. Si assiste in quegli anni alla creazione di strutture fisiche e sociali in grado di sostenere la riproduzione sia del capitale che della forza lavoro, e di servire come contesti efficienti in cui organizzare la produzione, il consumo e lo scambio. L’antagonismo di classe si accentua, ma in qualche modo è gestito e assorbito nel governo delle città, attraverso l’assunzione di responsabilità sotto vari aspetti della riproduzione della forza lavoro (sanità, educazione…), nonché attraverso controlli sociali di vario genere: polizia, controllo ideologico tramite le chiese e gli organi di comunicazione di massa, manipolazione dello spazio come forma di potere sociale. Occorre qui ricordare che la città industriale è un’unità instabile: da una parte è un ordinamento razionale capace di coordinare la produzione del capitale e di costituire gli spazi sociali adatti alla riproduzione dei lavoratori, dall’altra è assillata dalla crisi dell’accumulazione, dal cambiamento tecnologico, dalla disoccupazione, dalla dequalificazione del lavoro, dall’immigrazione, dagli antagonismi tra classi.
Nei paesi in via di sviluppo l’influenza progressista si è meramente tradotta nella formulazione di strategie incentrate sull'occupazione, sull’approccio dei bisogni fondamentali - basato sul raggiungimento di un livello minimo di vita per gli strati più poveri della popolazione, che si ponevano come ‘stampelle’ al paradigma dello sviluppo. Negli anni Settanta l’obiettivo della lotta alla povertà divenne il nuovo discorso egemonico legittimante gli interventi di “aiuto allo sviluppo”. Sembrava, sotto l’influenza delle riforme progressiste e discorsi sulla giustizia sociale che avvenivano nel Primo mondo, che ci fosse un’inversione delle priorità: dalla formula “sviluppo e ridistribuzione” a “ridistribuzione con sviluppo”. Tuttavia, l'obiettivo principale rimaneva lo sviluppo e l’allargamento del sistema capitalistico ai paesi del Sud del mondo, con il miglioramento del reddito assoluto di questi paesi, piuttosto che ridurre le disuguaglianze nella distribuzione del benessere.
Negli anni Settanta si avvertono però già i germi del cambiamento del sistema socio-economico. Nei paesi occidentali l'età di prosperità stava per finire, l'industrializzazione si spostava verso nuove regioni, e il welfare keynesiano nazionale cominciava sul finire del decennio a dover affrontare problemi consistenti per il suo mantenimento.
Nei paesi in via di sviluppo al contrario, la crescita e l'industrializzazione hanno continuato a procedere, e il reddito ha continuato ad aumentare in termini assoluti, anche se il benessere della popolazione migliorava assai lentamente, quando migliorava. La guerra fredda continuava a influenzare le sfide poste dal processo di decolonizzazione e lo sviluppo economico dei paesi emergenti. Negli anni ’60 questi paesi erano riusciti ad ottenere un certo controllo sugli affari internazionali attraverso per esempio l'adozione del Nuovo Ordine Economico Internazionale (NIEO) dalla Sessione speciale dell'Assemblea delle Nazioni Unite. Ma le tensioni tra i paesi del Nord e del Sud si erano di conseguenza aggravate nel decennio successivo perché i paesi del Nord temevano che i paesi esportatori di materie prime avrebbero replicato l’embargo petrologico del 1973 e che si affermasse un cartello petrolifero attorno a un blocco unitario del Sud.
Negli anni Ottanta, furono la crisi economica dei paesi ad alto reddito, la crescita vertiginosa del petrolio e l’emergere della prassi neoliberista che influirono maggiormente sulle politiche di aiuto allo sviluppo. E la crisi del debito dei paesi del Sud del mondo si tramutò da possibile crisi finanziaria internazionale nell’occasione di imporre un’unica politica economica favorevole al Primo mondo e agli USA in particolare alla grande maggioranza dei paesi attraverso i programmi di aggiustamento strutturale. Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale erano i maggiori sostenitori e artefici. Avviarono programmi di aggiustamento, che si traducevano nell’attuazione di riforme istituzionali quali: tagli alle spese pubbliche, privatizzazioni, flessibilità del lavoro, in cambio di una re-negoziazione del debito . Questo finì con lo schiacciare la forza politica di visioni antagoniste e alternative dello sviluppo economico e delle politiche per promuoverlo.
In quegli anni l’evoluzione della teoria sul capitale umano, che considerava l’investimento nella qualità delle risorse umane una fonte importante per accelerare il cambiamento tecnologico, essenziale per accrescere la produttività totale dei fattori, aveva ripercussioni importanti nelle politiche di aiuto allo sviluppo. Nel 1987 il Comitato per la pianificazione dello sviluppo delle Nazioni Unite ha ritenuto che le risorse umane erano state trascurate in molti paesi ed era il momento di indagare sulla situazione. Amartya Sen (1990) ha fornito il quadro teorico per la nozione di 'capacità umane', che divenne il riferimento concettuale per l'approccio dello sviluppo umano.
Certo, l'approccio dello sviluppo umano avuto alcuni meriti e ha introdotto alcuni cambiamenti importanti. In generale, ha contribuito a riguadagnare l'attenzione sulle idee associate ai bisogni fondamentale e scappare dalla tirannia del PIL per costruire un indice del benessere molto più complesso che comprende non solo indicatori economici, ma anche sociali. Inoltre ha permesso di valutare l'allocazione delle risorse disponibili e verificare se queste hanno contribuito al raggiungimento degli obiettivi prioritari. Invece di definire i "bisogni" e quindi tentare di quantificare i mezzi per soddisfarli il nuovo approccio definiva alcune priorità sociali (come l'istruzione primaria, assistenza sanitaria di base, ecc) e il loro peso nella spesa nazionale. È stato fissato che il totale del "costo per lo sviluppo umano" dovrebbe essere tra il 5 e il 10% della spesa totale, nel caso in cui la cifra è inferiore una revisione della spesa totale è necessaria e tagli alle spese applicata ad esempio per spese militari, infrastrutture o di ordine pubblico.
Vorrei sottolineare che il paradigma comparve nel dibattito pubblico e nei rapporti delle agenzie internazioni in un momento di crisi dello sviluppo così come era stato definito nei decenni precedenti e in momento di crisi della crociata dello sviluppo. Ma lo sviluppo umano non è in contrapposizione al paradigma dello sviluppo o al progetto egemonico di sviluppo, ma introduce elementi di innovazione per attutire le ricadute negative dello sviluppo sulle popolazioni povere indotte soprattutto dai programmi di aggiustamento strutturale. E’ un termine assai accattivante e dà l'impressione che è un nuovo tipo di sviluppo, conferendo un aspetto ‘umano’ all'approccio neoliberale.
Alla fine degli anni Ottanta si andava affermando una nuova dottrina, con l’obiettivo di promuovere un modello di governo dello sviluppo, che legasse assieme la lotta alla povertà e l’efficacia della gestione urbana; ciò perché la riflessione sugli effetti sociali dei programmi di aggiustamento aveva messo in luce che era necessario includere alcune misure compensative per aiutare i poveri nell’attesa che questi raggiungessero lo sviluppo previsto. Veniva così inserita la gestione sociale urbana nei programmi di aggiustamento, sollevando gli Stati dall’ affrontare politiche di lotta alla povertà originali e adatte alle singole specificità .
La promozione dello sviluppo municipale e delle riforme istituzionali nella gestione urbana costituivano un’ingerenza nella sfera politica degli stati ma ciò non era ammissibile dagli statuti internazionali. Gli organismi internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario, e le stesse agenzie di sviluppo dei singoli stati del Primo mondo avevano bisogno di escogitare uno stratagemma per aggirare evitare l’accusa di ingerenza negli affari dei paesi beneficiari. Occorreva perciò un discorso strategico capace di de-politicizzare il campo “politicamente” sensibile della gestione urbana e di trasferire le questioni sociali e politiche verso il solo campo della tecnica, cioè trasformare quelle che erano scelte meramente politiche in scelte apparentemente tecniche da affidare agli esperti e specialisti.
L’introduzione della “governance” nel discorso sullo sviluppo serviva proprio a sbarazzarsi del rischio di venir accusati di ingerenza; dovevano influenzare gli assetti istituzionali dei paesi poveri e indirizzarli verso programmi di aggiustamento strutturale che implicavano riforme neoliberiste, ma senza nominare esplicitamente le riforme.
Le implicazione della “good governance” nel discorso per la costruzione, giustificazione e diffusione del concetto di sviluppo sono importantissime, perché è l’espressione usata per fare riferimento al funzionamento delle istituzioni. Ad essa corrisponde: la capacità ed efficienza della gestione pubblica; la responsabilità d’azione di chi opera nel settore pubblico; un quadro normativo chiaro e stabile; l’accesso alle informazioni. Nel lavoro di disseminazione che ha seguito il momento fondativo del lancio del “concetto”, ci sono due importanti passaggi: entrare innanzitutto nel campo della politica, e quindi del potere, utilizzando una parola come governance; e poi definendola good governance, associando a questa i requisiti diremmo ‘oggettivi’, articolati con il linguaggio della teoria economica, quindi legittimati dalla razionalità scientifica Il tutto avente come obiettivo la lotta alla povertà.
Negli anni Novanta lo sviluppo è teso a rafforzare le economie di mercato in tutti i paesi del mondo, promovendo l’espansione delle imprese private e la privatizzare delle imprese pubbliche. Nei paesi del Sud del mondo queste divennero un importante mezzo attraverso il quale i paesi poveri acquisivano capitale straniero attraverso la vendita diretta, fusioni e acquisizioni con aziende multinazionali straniere. Tant’è che agli inizi del decennio gli investimenti privati di capitali divennero la primaria fonte di trasferimento finanziario dai paesi ricchi a più poveri, superando quelli dell’assistenza ufficiale. Le politiche urbane erano tese a migliorare, ancor prima delle capacità produttive della città (infrastrutture, edilizia, servizi) le capacità gestionali delle autorità locali per una migliore mobilitazione delle risorse e controllo dei meccanismi che presiedevano alle complesse dinamiche economiche, come la fiscalità, la regolamentazione del lavoro, delle finanze e degli scambi commerciali.
Sul finire degli anni Novanta si sviluppa anche il tema relativo alla creazione di una piattaforma di politiche globali, che riflette l’interesse per le interconnessioni a livello mondiale, soprattutto in termini economici. I piani d’azione che ne escono da una parte allargano lo scopo dell’aiuto per comprendere settori come l’assistenza per lo sviluppo democratico, la partecipazione nelle operazioni di peace-keeping, e sempre più ampi aiuti umanitari; e dall’altra miravano a raggiungere un consenso globale sulle priorità da affrontare. Con i Millenium Development Goals sembra infatti emergere una convergenza delle varie agenzie sui “valori fondamentali” da perseguire definendo un quadro di riferimento condiviso sulle priorità da adottare. I Goals, ambiziosi da una parte, e riduttivi dall’altra, riflettono una tendenza alla semplificazione della complessità delle problematiche coinvolte e una preoccupazione eccessiva al raggiungimento di risultati misurabili quantitativamente.
L’introduzione del concetto di sviluppo sostenibile, utilizzato per ridare forza e credibilità a una fede che stava scemando, rappresenta una delle metamorfosi più emblematiche del concetto sviluppo e meno compresa.
5. Sviluppo sostenibile:
una parola d’ordine per aprire molte porte
'Sviluppo sostenibile' è l'espressione che forse più di ogni altra ha ri-conferito allo sviluppo un prestigio mondiale, e lo ha fatto dandogli una ‘tonalità ambientalista’. Il termine è stato portato all’attenzione mondiale con la relazione della commissione per l'ambiente e lo sviluppo del 1987(Commissione Bruntland) e reso popolare con la Conferenza di Rio delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo nel 1992.
Il Rapporto Brundtland affermava che lo sviluppo sostenibile è quello che "soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri". Questa espressione che ha acquistato un larghissimo consenso è in realtà uno strumento discorsivo efficace per affrontare, almeno retoricamente, i problemi ambientali, ma senza minacciare lo sviluppo economico e la crescita illimitata. Secondo W.M. Adams la concezione di sostenibile ha ereditato le tensioni tra tecnocentrismo ed ecocentrismo, e tra riformismo e radicalismo, contenute nel ambientalismo, proponendo un espressione che si pone come compromesso politico tra la lobby della non-crescita, che sosteneva che il pianeta era a corto di risorse e minacciato dal crescente inquinamento, e la lobby pro-crescita degli economisti.
Quando la parola si è affermata essa è stata più uno slogan che una nuova teoria dello sviluppo. La letteratura in merito non aveva compiuto grandi sforzi per analizzare criticamente i significati impliciti e confrontare il termine “sostenibile” con altre espressioni che richiamavano ad una coscienza ambientale, come “ecodevelopment” , o per esplorare le diverse tradizioni di pensiero che si erano già affermate da qualche anno. Infatti, una coscienza ambientale era già emersa negli anni 1970 insieme a una preoccupazione per la scarsità di risorse e lo sfruttamento sfrenato della natura. Questa preoccupazione ha introdotto l’importante concetto di “limite alla crescita” nel dibattito sullo sviluppo. Al contrario il discorso ambientalista associato alla nozione di sostenibilità ha matrici diverse; è avvolto da una “modernizzazione ecologica”, cioè l'innovazione tecnologica riveste un ruolo centrale. Si riconosce una crisi ecologica, ma a differenza del movimento radicale degli anni 1970, si crede fermamente che l'attuale politica, sociale e le istituzioni economiche possano interiorizzare la cura per l'ambiente.
Bisogna riconoscere che il termine è emerso al momento giusto, per dare allo sviluppo, che conosceva in quegli anni un calo di fiducia, uno scopo relativamente nuovo e soprattutto una rinnovata legittimazione.
Con i preparativi per il Vertice della Terra di Rio de Janeiro (UNCED)nel 1992, il concetto si è evoluto. La Conferenza di Rio, che forniva i principi fondamentali per il raggiungimento dello sviluppo sostenibile, ha promosso l'integrazione di altre questioni interdipendenti nel concetto di sostenibilità. Lo sradicamento della povertà, il cambiamento dei modelli insostenibili di produzione e consumo e protezione e gestione delle risorse naturali alla base dello sviluppo economico e sociale sono diventati gli obiettivi di portata globale e i requisiti essenziali per lo sviluppo sostenibile. L’ Agenda 21 dichiarava che la povertà dei paesi in via di sviluppo può essere ridotta dando alle persone l'accesso alle risorse di cui hanno bisogno per sostenersi, mentre i paesi sviluppati avrebbero dovuto ridurre l'inquinamento, le emissioni, l'uso di preziose risorse naturali e aiutare gli altri paesi a svilupparsi in modo tale da minimizzare l'impatto ambientale. L'agenda UNCED aveva sottolineato le questioni relative alle risorse naturali e l'ambiente naturale ponendo particolare attenzione alla cosiddetta seconda generazione di problemi ambientali, quali le piogge acide, i cambiamenti climatici, la deforestazione, la desertificazione e la distruzione della biodiversità.
Negli anni successivi i governi hanno iniziato a compiere sforzi per integrare gli obiettivi ambientali, economici e sociali, sia elaborando nuove politiche e strategie dirette allo sviluppo sostenibile, che adattando politiche esistenti. Tuttavia, l'approccio integrato auspicato dal vertice di Rio non ha trovato un grande riscontro nella realtà. Il conflitto tra la salvaguardia degli ecosistemi ai cambiamenti rapidi da una parte e la soddisfazione dei bisogni fondamentali e la lotta alla povertà dall’altra sono stati rafforzati con la diffusa tendenza ad affrontare queste due questioni in modo indipendente utilizzando gli strumenti della politica settoriale.
Il successo, in termine di consenso sullo sviluppo sostenibile è dovuto al fatto che è compatibile con il capitalismo tecnocratico manageriale e l'ideologia modernista. Dall'inizio degli anni 1990 sono state avanzate numerose interpretazioni dello sviluppo sostenibile - sono state identificate oltre 200 definizioni - ma la maggior parte di esse si basano su considerazioni del Rapporto Brundtland e di Agenda 21, che hanno in comune la preoccupazione per la qualità dei l'ambiente, il miglioramento delle condizioni di vita all'interno della 'capacità di carico' degli ecosistemi, e la necessità di ridurre l'impatto dei problemi ambientali, sia delle generazioni presenti che di quelle future. Un altro motivo del successo è che la parola sostenibile si presta a tante interpretazioni e questa duttilità è una caratteristica piuttosto conveniente perché permette ad ogni attore, agenzia, governo o gruppo di interessi di selezionare la propria, ma nello stesso tempo di lasciarla implicita e accodarsi alla grande massa dei sostenitori dello sviluppo sostenibile - la prima coalizione globale nella politica ambientale.
l rapporto Bruntland raggiunse un ampio consenso e riuscì a portare a bordo istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Tutti questi attori possono interpretare diversamente il senso dello sviluppo sostenibile dando priorità ai loro interessi specifici ed elaborando narrazioni tra loro anche contraddittore, una serie di questioni rimangono irrisolte o emarginate, mentre altre acquisiscono posizioni di privilegio. E’ per questa ragione che autori come Wolfgang Sachs e Serge Latouche hanno definito l’invenzione della sostenibilità un 'escamotage retorico', che nasconde una strategia per sostenere e rafforzare il discorso e le pratiche di sviluppo piuttosto che affrontare le cause della crisi ecologica .
L’ipotesi principale dello sviluppo sostenibile è che crescita economica e soluzione del problema ecologico possono, in linea di principio, essere conciliati, mentre il principale ostacolo è visto nella azione, incapace di metter in atto tutte le misure necessarie. Infatti, le Nazioni Unite esortano a riconoscere, valorizzare e sfruttare le conoscenze e le competenze e sostengono che occorrono azioni di cooperazione e complementarità tra le parti interessate. Ma il concetto stesso di sviluppo, sostenibile o no, non è minimamente messo in discussione. Lo sviluppo sostenibile incorpora il credere che il cambiamento sociale può essere progettato e diretto a volontà per "esorcizzare magicamente gli effetti negativi dello sviluppismo" . La narrazione della pianificazione e gestione insita nei discorsi sullo sviluppo sostenibile ha lo scopo di presentare come "razionale" e "oggettivi" l’introduzione di progetti ambientalisti, regolare i processi decisionali, introdurre nuove pratiche e, soprattutto, fornire un senso di sforzo collettivo e di partecipazione verso obiettivi comuni, al fine di acquisire la collaborazione di tutti.
L’adozione del concetto di sostenibilità nell’ambito delle politiche che ha portato ad una maggiore consapevolezza circa i limiti delle risorse e degli ecosistemi che li riproducono al riconoscimento, a riconoscere che i costi ambientali dell’ urbanizzazione non possono essere trasferiti alle generazioni future, e che esiste una limitata capacità di smaltire i rifiuti prodotti, vede la città come un “metabolismo urbano”, un ecosistema fatto di movimenti interattive di circolazione, scambio e trasformazione delle risorse in transito. In questo contesto sono stati definiti una serie di principi e strumenti che comprendono l'uso efficiente delle risorse, il supporto a progetti, tecnologie, materiali e mezzi che permettono il risparmio energetico, riduzione dei rifiuti e l'eliminazione delle uscite pericolosi, il riciclaggio dei rifiuti e così via. Da qui nasce la preoccupazione per l’eco-efficienza energetica e l’equilibrio metabolico della struttura materiale della città - che pone l'accento sulla gestione dei flussi di energia e materie connesse con la crescita urbana.
Ma la negazione di qualsiasi conflitto tra obiettivi economici, lo sviluppo e l'obiettivo di una migliore qualità ambientale e il riconoscimento dei limiti di risorse riduce la ricerca della sostenibilità urbana alla ricerca di innovazioni di matrice tecnica, all'introduzione di tecnologie per il risparmio delle risorse urbane, e alla redistribuzione spaziale della popolazione e delle attività.
L'articolazione del discorso sullo sviluppo sostenibile ha influenzato anche il dibattito sulla vivibilità e la qualità urbana, dove queste sono motivate anche da ragioni specificamente economiche. La qualità urbana viene definita come “una precondizione per lo sviluppo economico”, e una necessità. Di conseguenza emergono sistemi di valutazione della qualità urbana finalizzati a misurare e monitorare non solo la vivibilità in relazione al benessere del cittadino, ma soprattutto la capacità di una città a sostenere i processi di sviluppo, consentire l’inserimento nella rete mondiale degli interessi economici, salire nella graduatoria della rilevanza economica.
Una caratteristica sorprendente del discorso sullo sviluppo urbano sostenibile è l'assenza di un serio impegno con la problematica ambientale, che porta ad affrontare la questione ambientale come un problema tecnico-manageriale, che lo riduce a un elenco di qualità fisiche. Tra l'ambiente e l'urbanizzazione vi è un rapporto dialettico e le trasformazioni ecologiche sono prodotti di relazioni di potere. La città (nella sua dimensione sociale, fisica e politica) è il risultato di un processo storico-geografico di urbanizzazione della natura e delle relazioni sociali inscritte in queste trasformazioni; perciò città, cultura e natura sono indissolubilmente legati tra loro. Ma questa dialettica nei discorsi dello sviluppo urbano sostenibile è ignorata, innanzitutto per non mettere in discussione né lo sviluppo né l’urbanizzazione visti dal pensiero dominante come in dissolutamente uniti.
6. Concludendo
La problematica dello sviluppo è parte dell’immaginario occidentale. La caratteristica peculiare di questo immaginario è che la crescita e il progresso possano svilupparsi all’infinito. Questa anticipazione di un futuro migliore grazie all’aumento costante dei beni prodotti è diffusa ovunque. Ma come dice Rist l’egemonia dello sviluppo si è potuta affermare solo grazie ad un illusione semantica, attraverso la creazione del sottosviluppo, cioè creando uno “pseudo contrario” che ha trasformato una credenza in senso comune e verità assoluta facendo credere nella possibilità di trasformare l’intero mondo ad immagine e somiglianza dell’occidente. Questa illusione di prosperità materiale infinita si è rafforzata ulteriormente quando i paesi sottosviluppati sono diventati “in via di sviluppo” così che una anticipazione si è trasformata in promessa!
Ho parlato di credenza, seguendo il ragionamento e spiegazione di Rist proprio perché ci comportiamo nei confronti dello sviluppo come nei confronti di una qualsiasi altra credenza. Magari nel privato qualcuno di noi ha avuto qualche dubbio su questo mito, ma questo “non impedisce di pregare all’unisono” – dai capi di stato, ai tecnocrati dell’economia, ai cittadini, alle organizzazioni internazionali, e persino gli intellettuali, di destra e di sinistra, atei e religiosi, bianchi e neri. “da questa credenza condivisa nasce il vincolo sociale, che si esprime sotto forma di pratiche obbligatorie che rafforzano le adesioni”. Come tutte le credenze è il presupposto che fonda il credo iniziale e plasma la risposta al problema posto. E’ un circolo chiuso che non prevede una verifica esterna, o una prova della sua veridicità. Le credenze sono tali – proprio perché è sulla fede, sulla fede sola – sulla quale si basa l’adesione, condivisione di questa.
Non si spiegherebbe altrimenti quello che è accaduto e accade. I libri sono pieni di racconti, testimonianze, statistiche analisi qualitative e quantitative della sovrabbondanza di merci da una parte e della povertà, diseguaglianza, esclusione dall’altra. Il divario tra nord e sud, così come tra classi sociali, aumenta. Per una civiltà che si proclama avanzata, accettare che ancora ogni anno muoiano di fame almeno 26,000 mila bambini e continuare a perseguire lo sviluppo , non può che essere la conseguenza di una credenza almeno pari a quella delle grandi religioni del mondo.
Eppure, i teorici, gli studiosi, i pensatori, gli esperti non ammetterebbero che lo sviluppo è una credenza, anzi parte della grande credibilità di questo mito è proprio averlo spacciato per sapere scientifico, oggettivo.
Inseriremo i testi di Ricoveri, Bevilacqua, Dall'Olio, Mattei appena disponibili. Salzano, che è intervenuto al posto di Loris Campetti, ha esposto i contenuti dell'Eddytoriale n. 144, cui si rinvia.
Per i riferimenti bibliografici si rinvia al documento Letture introduttive.