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Edoardo Salzano
Come concludere, come proseguire
20 Settembre 2011
Le lezioni
La relazione che ha introdotto al dibattito della quarta giornata, conclusiva, dell'edizione della scuola di eddyburg sul tema: «Oltre la crescita, dopo lo "sviluppo"». In calce il file scaricabile

Premessa. La crisi

Non è più solo dalla sponda più radicale che si parla della situazione attuale come di una crisi DEL sistema, e non di una crisi NEL sistema. Sebbene il sistema capitalistico abbia conosciuto altre crisi e ne sia sempre uscito (è stato paragonato a Proteo, il dio marino che continuamente sfugge agli importuni trasformandosi), ci sembra che la crisi attuale abbia alcuni connotati particolari:

- il sistema sopravvive solo bruciando risorse ormai vicine all’esaurimento, da quelle ambientali a quelle umane;

- le sue contraddizioni non sono esportabili all’esterno del suo core (la società nord-atlantica), ma colpiscono il suo stesso bacino sociale;

- le misure adottate dai governanti attuali sono tali da aggravare la crisi anziché mitigarne gli effetti.

A noi questa crisi non c’interesse solo in quanto cittadini (dell’Italia, dell’Europa e del mondo), ma anche per le fortissime connessioni che ha con il territorio: con l’habitat dell’uomo, che è il nostro riferimento culturale e pratico. Così come è in riferimento al territorio e alle sue trasformazioni che ci hanno interessato gli altri temi che abbiamo discusso nelle sette edizioni della scuola, che Mauro Baioni ha riepilogato nel suo di apertura di questa edizione.

Il nostro riferimento è il territorio: l’habitat dell’uomo

Credo che sia utile precisare che cosa intendiamo per città e per territorio. Noi consideriamo la città – una delle più significative invenzioni della storia dell’uomo – l’habitat che l’uomo si è costruito nel corso di millenni di storia. L’habitat dell’uomo, anzi – e la precisazione è importante – della società. La “città è la casa della società”, ho insegnato per un paio di decenni ai miei studenti.

É un habitat del quale individuiamo un triplice aspetto, cui alludono le tre parole connesse alla sua definizione: urbs, civitas, polis. La città come insieme di spazi fisici organizzati. La citta come società che ha costruito la sua “casa”. La città come governo sociale delle sue trasformazioni fisiche e funzionali.

Nei secoli a noi più vicini questo habitat ha cambiato configurazione. Città e campagna erano stati fino ad allora due realtà separate, quasi contrapposte. Con la rivoluzione borghese e l’affermazione del sistema capitalistico la configurazione è cambiata. Le esigenze he la città soddisfaceva, le sue funzioni, hanno interessato parti via via più consistenti della superficie del pianeta. Per varie ragioni e con vari strumenti le caratteristiche della vita urbana si sono estese via via all’intero territorio. E oggi possiamo dire che è l’intero territorio che è divenuto “la casa della società”.

Naturalmente questo non è l’unico modo in cui si può vedere il territorio, non è l’unico punto di vista necessario. Ma direi che è quello proprio a chi si occupa di urbanistica.

Sette edizioni della scuola di eddyburg

Nella sua introduzione alla VII edizione della scuola Mauro Baioni ne ha ricordato le intenzioni, i temi e lo svolgimento. É stata una ricapitolazione utilissima, anche perché per noi la storia (anche quella minima delle nostre vicende) è sempre il punto di partenza per vivere consapevolmente il presente e guardare il futuro. E per il nostro lavoro questo è vero soprattutto oggi, dato che questa è l’ultima edizione della Scuola di eddyburg così come l’avete conosciuta: è troppo impegnative e costosa per quei pochi che ci lavorano perché si possa continuare così. Dovremo cambiare formato – ma di questo parleremo più avanti.

Non posso però mancare di ringraziare, a nome di voi tutti, i due cirenei di questa vicenda: Mauro Baioni e Ilaria Boniburini, che con il loro lavoro, sacrificando molto della loro vita privata e di quella professionale, hanno consentito di condurre questa esperienza sforzandosi continuamente di migliorare la qualità del servizio che la scuola rende ai suoi utenti e di contenerne i prezzi.

Insieme a loro, devo ringraziare i numerosi docenti che ci hanno aiutato nell’ambito delle loro competenze, rinunciando a ogni compenso e donandoci il tempo prezioso dei loro saperi.

Infine, a nome di tutti quelli che hanno lavorato per produrre le 7 edizioni della scuola di eddyburg, vorrei ringraziare gli studenti che con il loro interesse, i loro interventi, i loro multiformi apporti hanno arricchito ciascuno di noi.

Dall’analisi alla proposta

Tutto il percorso settennale della scuola ci ha fatto lavorare nel campo della condizione attuale della città, svelando le caratteristiche di fondo di quella che abbiamo definito “la città del neoliberismo”. É questa città che costituisce oggi il problema, il nostro problema. E oggi vogliamo guardarla secondo un approccio polarizzato non tanto sul comprendere che cosa essa è per denunciarlo, ma sul ragionare come, su quali basi, è possibile costruire un’alternativa alla “città della rendita”: costruire una “città dei cittadini”, un habitat per gli abitanti del mondo di oggi e di domani.

Come urbanisti ci siamo posti una domanda che mi sembra cruciale. Sono trent’anni almeno che il neoliberismo è diventato l’ideologia dominante e ispira le politiche economiche, sociali e urbane in tutto il mondo. Sono vent’anni almeno che in Italia, dopo aver dileggiato l’”urbanistica autoritativa”, la si è sostituita con le pratiche dell’”urbanistica contrattata”.

Sono trascorsi insomma alcuni decenni da quando si è abbandonata la pianificazione pubblica, esercitata in funzione dell’interesse generale, sostituendola con modalità inventate in nome della liberalizzazione, della privatizzazione, dell’aziendalizzazione dei processi di decisione e attuazione delle trasformazioni del territorio.

Sono trascorsi alcuni decenni, eppure il disagio delle cittadine e dei cittadini è aumentato, i problemi nodali (la casa, i trasporti, l’ambiente e la salute, l’equità) sono diventati via via più gravi. E accanto a questo, mentre si intravede un fiume di ricchezza scorrere nei canali degli interessi privati leciti e illeciti, si scoprono deficit impensabili nelle risorse da destinare alle esigenze collettive.

Un nuovo paradigma

Il nostro campo di lavoro (il territorio) ci è sembrato rappresentare con rara efficacia i danni provocati dal neoliberismo all’insieme delle condizioni di vita e alle prospettive della società planetaria. Occorreva analizzarlo ancora meglio, poiché solo da un’analisi corretta (che non si fermi alla denuncia, ma sappia individuare ed esplorare le cause profonde) può nascere un insieme efficace di proposte.

Il lavoro che abbiamo compiuto in questi mesi è stato quello di comprendere meglio qual è il paradigma, qual è l’insieme di valori, principi, regole, interessi, condizioni che determina la configurazione attuale della città. Era ed è – lo abbiamo compreso ancora meglio in questa giornate – il paradigma della crescita indefinita della produzione di merci indipendentemente da ogni valutazione delle loro qualità intrinseche in funzione del miglioramento dell’uomo e della società, il paradigma che ha assunto come parametro di valutazione dominante lo “sviluppo”, in quel suo significato schiacciato sulla dimensione economica, propria a questa particolare economia nella quale viviamo.

Mi riferisco spesso alla “economia data”, per alludere al fatto che questa non è né l’unica economia storicamente esistita né l’unica possibile. A mio parere è un’economia che va radicalmente trasformata, come molte altre cose ad essa legata. Ma è quella nel cui ambito viviamo, e che dobbiamo conoscere nelle sue caratteristiche, conseguenze, mutazioni. Se almeno vogliamo comprendere ciò che accade e in che modo possiamo agire per comprendere il mondo e contribuire a trasformarlo.

Questa economia (l’economia del capitale) ha avuto una profonda mutazione negli ultimi decenni. Noi abbiamo cominciato a registrarne gli effetti nella seconda edizione della scuola, quando Giovanni Caudo ci parlò delle trasformazioni sottese alla questione della casa. Se ascoltiamo le analisi più acute del capitalismo di oggi (mi riferisco ad esempio a quella di Luciano Gallino, riassunta nel suo Finanzcapitalismo) scopriamo siamo passati a una finalizzazione dell’economia ancora più devastante per l’uomo di quanto quel sistema non fosse già nelle sue precedenti mutazioni. Dopo la fase che possiamo sintetizzare nella riduzione dei “beni” a “merci”, siamo passati dall’assunzione delle ricchezza monetaria come unica finalità dello “sviluppo”. Il ciclo dell’economia non è più Merce1>Danaro>Merce2, (dove Merce2 è maggiore di Merce1 e Danaro è l’intermediario), ma Danaro1>Danaro2, dove la ricchezza e il potere dei più ricchi e potenti è l’unica finalità dell’economia, dunque della politica, dunque della società.

In altri termini, il meccanismo economico che governa le nostre vite non ha più, come centro del suo ciclo, la produzione industriale di oggetti e servizi utili, o resi utili mediante i meccanismi dell’induzione del consumo. Il danaro non è più l’intermediario per la trasformazione delle merci in un nuovo insieme di merci vendibili a un prezzo più alto di quello delle merci acquistate, ma è la finalità dell’esercizio del potere economico. Poiché attraverso la finanza si è scoperto, e largamente praticato il sistema di trasformare il denaro in più-danaro semplicemente attraverso due strumenti: il saccheggio delle risorse disponibili (dai beni comuni a tutto ciò che è trasformabile in merce), e l’incremento forzoso dell’indebitamento delle famiglie e degli stati.

L’urbanistica finanziarizzata

Nell’ambito in questa mutazione del sistema capitalistico anche il modo di sfruttare il territorio è modificato.

Una volta il territorio era adoperato per le utilizzazioni agro-silvo-pastorali e per quelle urbane. Poi è stato adoperato per queste, cui si è aggiunta la produzione di incrementi della rendita fondiaria (poi immobiliare). Poi è diventata centrale la produzione di incrementi della rendita immobiliare derivante dalla urbanizzazione e costruzione di edifici: è la fase nella quale i poteri dominanti hanno avuto come loro strumento l’ urbanistica contrattata.

Oggi siamo passati a una fase ulteriore. Il suolo è diventato portatore di qualcosa – chiamiamoli “crediti edificatori” – che è qualcosa di simile a un titolo di credito: un certificato corrispondente a un valore commerciabile. Non importa se su quel terreno verrà realmente edificato quell’edificio cui il titolo allude: intanto ha un valore di scambio corrispondente alle rendita percepibile dall’utilizzazione edilizia di quel suolo. Ti dicono che crescerà di valore. Tu aspetti che aumenti e lo rivendi. Il nuovo acquirente aspetterà un po’ anche lui, e lo rivende a sua volta. Finchè il valore della rendita sale.

Se si guarda agli incrementi di valore delle aree negli ultimi si scopre l’entità degli affari che sono stati fatti. Il mercato dei “crediti edificatori” è più attivo che mai. Richiama Investimenti da canali spesso oscuri. L’utilizzazione edilizia non è negli obiettivi concreti degli utilizzatori odierni dei “crediti edilizi”, ma lo diventerà quando si sarà giunti all’utilizzatore finale, quando la bolla sarà esplosa.

La settima edizione della scuola

Sulla base del lavoro svolto, l’obiettivo che ci siamo proposti nella VII edizione della scuola (nella sua preparazione e nel suo svolgimento) è stato in primo luogo quello di individuare un paradigma alternativo, capace di costituire l’insieme di riferimenti sulla cui base definire il progetto di una nuova città. Lo abbiamo individuato nel paradigma dei beni comuni, come alternativa concettuale e politica a quello, oggi dominante, della crescita indefinita e dello “sviluppo”, e come parola d’ordine potenzialmente egemonica «per trasformare la società e l’habitat dell’uomo in funzione del benessere materiale e immateriale degli abitanti di oggi e di quelli che devono venire, tendendo conto della limitatezza delle risorse naturali e della conoscenza umana, della diversità delle culture e della dignità che ognuna di queste possiede e della prevalenza dei valori di rispetto, uguaglianza e pace».

A questo tema questo è stata dedicata la prima giornata, in cui Ilaria Boniburini ha introdotto e coordinato gli apporti di studiosi di varie discipline, che hanno gettato sul campo del territorio fasci di luce provenienti da altre sorgenti.

Nella seconda e nella terza giornata Mauro Baioni ha esaaminato, con la collaborazioni di altri amici vecchi e nuovi della scuola di eddyburg, alcune esperienze concrete per verificare quali problemi, esigenze, soluzioni possibili nascano nella realtà e possano fornire indicazioni per il futuro.

Punti fermi

Sulla base del lavoro svolto nelle prime tre giornate della scuola credo che possiamo convenire su alcuni punti fermi, che riassumo molto sinteticamente:

- la crisi che attraversiamo è davvero profonda, non se ne esce con i pannicelli caldi, essa investe pienamente la città quale la intendiamo (l’habitat dell’uomo, la sintesi tra spazi, società e politica) in tutte le sue dimensioni: dall’organizzazione complessiva della società e della città, ai modi di pensare e di vivere;

- la crisi è il prodotto del dominio di un paradigma (quello della crescita indefinita e di uno “sviluppo” ridotto all’accumulazione di danaro e di potere), ormai divenuto mortifero;

- uscire durevolmente dalla crisi comporta la laboriosa costruzione dell’egemonia di un nuovo paradigma, che possiamo riconoscere in quello del “bene comune” e – per quanto riguarda il nostro specifico campo – del “diritto alla città” e della “città come bene comune”.

Possiamo anche affermare che la crisi ha accentuato un disagio umano e sociale che già esisteva, che è generato dalle pratiche trentennali del neoliberismo, e che ha provocato migliaia di episodi di resistenza e di contrasto ancora frammentati e dispersi, ma estesi in moltissime parti del mondo, anche in quelle che sono state storicamente privilegiate dal paradigma della crescita. E che dalla presa di coscienza di tale disagio si può partire per un futuro migliore.

Di quale “pianificazione” parliamo

Affermare, come fatto poc’anzi, che l’abbandono della pianificazione territoriale e urbanistica come l’abbiamo conosciuta ha generato mostri non significa necessariamente affermate che quella pianificazione sia oggi sufficiente, né tanto meno che ogni pianificazione sia idonea a realizzare la “città dei cittadini”.

In termini abbastanza neutrali possiamo dire che la pianificazione territoriale ed urbanistica è quel metodo, e quell’insieme di strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.

In funzione di determinati obiettivi: qui è il nodo della questione. Poiché gli obiettivi sociali della pianificazione sono mutevoli nel tempo, e lo sono stati nella storia che è alle nostre spalle.

La pianificazione urbanistica moderna è nata per mettere ordine nelle città e per regolare, secondo un disegno unitario, la loro espansione e trasformazione. è nata, agli albori del XIX secolo, per affrontare problemi che la somma delle decisioni individuali non poteva risolvere. è nata per costituire un contrappeso all’invadenza dell’individualismo e correggerne taluni effetti. Fin dall’inizio del suo percorso, essa è stata finalizzata al raggiungimento di obiettivi d’interesse generale: naturalmente, d’interesse generale dei gruppi sociali, delle “classi”, che governavano la città o ne influenzavano il governo.

All’inizio della vicenda della pianificazione la società ha chiesto ai suoi tecnici di risolvere tre problemi: rendere più efficiente il funzionamento cinematica della macchina urbana, migliorare le condizioni igieniche, e regolare i valori immobiliari in modo da dare certezza di lucro agli investimenti patrimoniali. Questi obiettivi erano perseguiti in modi differenziati nelle diverse parti della città, con una vera “zonizzazione sociale”: qui i ricchi e i potenti, là i benestanti, altrove gli operai e l’”esercito di riserva”.

I risultati delle lotte sociali e i margini di ricchezza consentiti dallo sfruttamento (in patria e nelle colonie) condussero al manifestarsi di altri obiettivi. Diventarono obiettivi della pianificazione i diversi elementi del welfare state: l’edilizia civile a basso costo, le attrezzature sociali e sportive, quelle assistenziali e scolastiche, i collegamenti efficienti casa-lavoro.

In questo quadro in Italia, riprendendo nel secondo dopoguerra alcuni dei germi gettati nel primi decenni del secolo XX e sviluppandone altri, si giunse a porre al centro della pianificazione urbana le grandi questioni del diritto alla casa come servizio sociale e delle adeguate dotazioni di aree da destinare a spazi e attrezzature pubbliche, gli standard urbanistici.

Negli anni a noi più vicini si è manifestato, come nuovo obiettivo sociale, quello della tutela del territorio nelle sue caratteristiche fisiche e culturali e nei suoi equilibri ecologici. Ciò ha dato luogo a un accentuato interesse sia al funzionamento della città sia, e soprattutto, alle condizioni dei territori extraurbani.

Io credo che è da qui che occorre ripartire: dagli obiettivi del welfare state e dell’ambientalismo. Per interrogarsi poi su quali siano gli ulteriori obiettivi che, integrando o modificando quelli della nostra tradizione, possano qualificare oggi e domani una pianificazione adeguata al compito di costruire la città del bene comune.

Alla nostra ulteriore riflessione devo allora porre allora alcune domande, sulle quali avanzerò risposte che sono del tutto personali ed esplorative, e che vogliono stimolare a un dibattito che proseguirà oggi e in futuro, in ulteriori iniziative di eddyburg e della sua scuola.

1a domanda.

Possiamo affermare che sta emergendo

una nuova domanda di pianificazione?

Mi domando e vi domando (la mia risposta è abbastanza ottimistica) se possiamo affermare che in strati sempre più vasti della “società critica” si sta comprendendo che non ci si oppone ai mille episodi di sfruttamento, deterioramento, degradazione, distruzione delle diverse componenti del “bene comune città”, se non si riesce

- a definire un progetto alternativo,

- a individuare attori, metodi e strumenti che siano capaci di realizzarlo tenendo conto del carattere olistico del territorio.

Mi domando ancora se si sta comprendendo anche che il dispositivo necessario per progettare e realizzare la “città dei cittadini” deve essere necessariamente manovrato da un potere che sia democratico nel senso di esprimere la priorità dell’interesse generale su quello dei singoli interessi coinvolti, di esprimere la volontà e le esigenze della stragrande maggioranza della popolazione attuale e futura del pianeta e non quelle dei portatori d’interessi specifici e parziali.

Mi domando infine se la cultura urbanistica (cui indubbiamente va il merito di aver “inventato” la pianificazione come strumento olistico dell’interesse generale) abbia fatto tutto il lavoro necessario per far comprendere:

- a che cosa la pianificazione possa e debba servire,

- in che modo si riconosca quali siano i gruppi sociali premiati e quelli penalizzati dalle scelte

- quali siano i reali avversari di una pianificazione nell’interesse comune e come vadano combattuti.

2a domanda.

Possiamo affermare che sta nascendo

un nuovo progetto di città

alternativo rispetto alla “città della rendita”?

A me sembra che, sebbene non siano ancora chiari i lineamenti della “città dei cittadini”, comincino forse a precisarsi i principi che dovrebbero alimentarne la costruzione, le esigenze che l’habitat dell’uomo deve assicurare.

Sforzi significativi (naturalmente suscettibili di valutazioni critiche ma condivisibili nelle linee di tendenza che indicano) sono rinvenibili in altri territori culturali (come quello del movimento di “Decrescita”) o in esperienze disciplinarmente più vicine a noi (come la scuola territorialista). Esigenze ed esperienze interessanti sono anche quelle emerse nelle due ultime giornate di questa scuola.

Per contribuire a una loro definizione esporrò una mia ipotesi, riassumendoli in 5 questioni: il rapporto città-campagna, gli spazi per la collettività, l’abitazione, l’equità, la partecipazione.

Il rapporto città-campagna.

Le rivendicazioni che nascono dalla società civile costituiscono una critica al modo in cui si è trasformato il rapporto tra città e campagna, tra territorio urbano e territorio rurale, e una pressante richiesta di ricostituire un equilibrio (meglio, di costituire un nuovo equilibrio) tra i due termini.

Il modello di città la cui domanda nasce da quella critica deve consentire la vicinanza, alle varie scale (di paese e quartiere, di città, di area vasta, di regione…), tra l’urbanizzato (=prevalentemente artificializzato) e il rurale (=prevalentemente naturale).

Deve consentire un’alimentazione sana e una filiera corta tra la produzione e il consumo, aria pulita, luce e sole, libera fruizione di spazi di ricreazione e distensione, di bellezza, di storia, d’identità.

Ma è la stessa quantificazione e localizzazione delle eventuali nuove aree da urbanizzare che deve tener conto di un corretto rapporto con la natura.

Se la terra non è solo l’habitat dell’uomo di oggi ma anche di quello di domani e di dopodomani; se la terra ha, come sua funzione essenziale, quella di garantire un’alimentazione sana degli abitanti del pianeta, allora la terra libera, integrata nel ciclo biologico del pianeta, è di per sé un valore.

Sacrificarne una porzione è una perdita per la qualità complessiva della vita dell’umanità. Quindi ciò va evitato per quanto possibile (ove non lo sia in vista di altri e superiori valori) e va compensato con equivalenti restituzioni di naturalità.

Ridurre il consumo di suolo non significa quindi soltanto organizzare meglio le nuove espansioni sul territorio. Significa innanzitutto misurare rigorosamente quali siano le eventuale nuovi espansioni del suolo già sottratto al ciclo biologico che sono necessarie per fini non soddisfacibili altrimenti.

E’ certamente un portato dell’urbanistica del neoliberismo, dell’urbanistica contrattata e poi dell’urbanistica finanziarizzata, il fatto che dai corsi di progettazione urbanistica sia scomparso l’argomento del “calcolo del fabbisogno”, magari sostituito da corsi di perequazione

La città pubblica.

Gli spazi, i servizi e le funzioni comuni attorno ai quali è nata e si è organizzata la città nella storia hanno ricevuto, nei decenni dell’affermazione del welfare state, un consistente accrescimento qualitativo e quantitativo. Ai luoghi classici della città premoderna si sono aggiunti quelli destinati alle esigenze della salute, dello sport e della ricreazione, della cultura, realizzati per una cittadinanza sempre più vasta e sempre più cosciente dei propri diritti.

É cresciuta insomma la consapevolezza della necessità di una vasto e articolato insieme di spazi, servizi, attrezzature, indispensabili integrazioni della vita che si svolge nell’ambito dell’alloggio (e del luogo di lavoro).

Nella “città della rendita” stiamo vivendo la riduzione degli spazi pubblici, la loro privatizzazione, la risposta con servizi privati (a pagamento) di esigenze che nella città del welfare erano soddisfatte con servizi pubblici: dalla salute alla scuola, dallo sport all’assistenza.

É anche dal disagio provocato dalla perdita di una dotazione urbana sentita come un bene essenziale, che nasce la domanda di una più ricca presenza di attrezzature e servizi, spazi e reti, agevolmente raggiungibili mediante modalità amichevoli. E alle esigenze del passato nuove esigenze si aggiungono, completandole e integrandole: che le dotazioni comuni e pubbliche non solo siano funzionali alle esigenze che devono soddisfare, ma posseggano almeno tre ulteriori requisiti: che siano risparmiatrici d’energia e di altre risorse naturali e non peggiorino la qualità di quelle impiegate; che siano dotate di una riconoscibile bellezza, ottenuta come risultato dell’insieme e non dal singolo oggetto; che siano utilizzabili da tutti, senza discriminazioni tra ricchi e poveri, giovani e anziani e bambini, uomini e donne, cittadini e forestieri. Che siano, insomma, ecologiche, belle, eque.

L’abitazione.

Nell’ambito della “citta pubblica” un ruolo particolare ha svolto l’abitazione: perché la forma, e lo stesso funzionamento, degli spazi pubblici sono definiti dal modo in cui gli edifici destinati alla residenza sono organizzati sul territorio; perché, da quando la polis ha applicato una dose di giustizia sociale nell’amministrazione urbana, il “pubblico” si è fatto carico di fornire un alloggio a chi non aveva i mezzi per ricorrere al mercato .

Nei tempi più vicini, soprattutto in Italia, l’abnorme lievitazione della rendita urbana ha reso i prezzi delle abitazioni incompatibili con i redditi di un numero crescente di famiglie. Ecco allora che è rinata in questi anni una vertenza che aveva divampato negli anni 60: quella della “casa come servizio sociale”. Con questo slogan non si chiedeva allora, e non si chiede oggi, che l’uso degli alloggi sia garantito a tutti come lo è un servizio pubblico, come ad esempio il servizio sanitario o quello scolastico, ma che il prezzo per l’uso delle abitazioni sia regolato da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.

Oggi la questione della residenza si pone sotto un quadruplice aspetto: quelli del costo, della localizzazione, della tipologia d’uso, dell’espulsione. É vasta la consapevolezza (almeno nella “società critica” della necessità: di ridurre fortemente l’incidenza della rendita urbana sul costo complessivo dell’alloggio; di realizzare alloggi solo là dove esiste una domanda reale non soddisfacibile utilizzando il patrimonio edilizio esistente; di localizzarli solo là dove un efficiente sistema di servizi pubblici può collegare la residenza alle altre funzioni della vita quotidiana; di offrire un ampio stock di alloggi in affitto; di ostacolare gli interventi di “riqualificazione” che comportino modifiche nelle condizioni economiche d’accesso.

Una città equa.

Nella città l’eguaglianza è sempre stata l’obiettivo di una dialettica mai placata. Sempre vi sono state differenze, più o meno profonde, tra i soggetti che l’abitavano. Differenze tra le diverse categorie di soggetti in relazione alla produzione della città (basta pensare a quelle tra i proprietari di fondi e di edifici e i non proprietari), e differenze in relazione all’uso della città (nell’accesso alle sue diverse parti e componenti, nella scelta tra usi alternativi delle risorse destinate al suo governo). Perciò la città è stata sempre anche il luogo dei conflitti, nei quali le categorie più svantaggiate hanno tentato di raggiungere un livello accettabile di soddisfacimento delle loro esigenze.

Possiamo dire che una città giusta è quella nella quale vi è un ragionevole equilibrio delle condizioni offerte ai diversi gruppi sociali, e nelle quali tendenzialmente a ciascuno è dato di partecipare in modo equo all’uso del bene città e delle sue componenti, e a concorrere in condizioni d’eguaglianza al suo governo.

Questo obiettivo non è mai stato raggiunto in modo compiuto. Sembrava che vi si fosse vicini nell’età del welfare, almeno in quella parte del mondo nella quale le virtù del sistema capitalistico borghese avevano condotto a un ragionevole equilibrio tra le forze antagoniste presenti al suo interno, esportando nel mondo dello sfruttamento coloniale le contraddizioni.

Oggi sembra che il mondo se ne stia allontanando sempre più. Forse è per questo che i conflitti che nascono nella società per la realizzazione di un assetto migliore, più vivibile e amichevole del territorio, sembrano intrecciarsi strettamente quelli che si pongono in modo esplicito l’obiettivo di una migliore equità

La partecipazione.

Il “diritto alla città”è uno slogan e un’esigenza storicamente legato alla stagione del 1968, oggi è riemerso nei movimenti urbani, in Italia come negli altri paesi. In un contesto per molti aspetti diverso.

Ma già nell’impostazione di Lucien Lefebvre è un diritto che si concreta in due aspetti: 1) il diritto a fruire di tutto ciò che la città può dare (a partire dalla possibilità di incontro e di scambio, di utilizzare le dotazioni comuni, di abitare e muoversi destinando a queste funzioni risorse commisurate ai redditi), ed è di questo aspetto ci siamo finora riferiti; e 2) il diritto a partecipare al governo della città, ad esprimere, orientare, verificare, correggere, momento per momento, le azioni di chi è preposto all’amministrazione ed i loro risultati.

Non contesto della città di oggi questo secondo aspetto del diritto alla città esso assume una valenza diversa. Si accompagna – nella percezione della “società critica – alla consapevolezza del fallimento della politica dei partiti e delle istituzioni nel loro ruolo di interpreti della società nel suo insieme, e del suo appiattimento a mero strumento del potere del finanzcapitalismo.

Come ormai chi frequenta la scuola da qualche tempo sa bene, e come Ilaria ha ricordato all’inizio di queste giornate, le parole della contestazione vengono catturate da chi della contestazione è oggetto: vengono interpretate in un significato capovolto o travisato, e così restituite al popolo perché tutto sembri cambiato mentre tutto è rimasto come prima. Anche “partecipazione” è una parola da adoperare con attenzione: una parola da qualificare, come del resto moltissime altre.

Ciò che voglio sottolineare è che la possibilità di costruire una “città dei cittadini” è fondata sulla possibilità di coinvolgere la cittadinanza attiva (ma tendenzialmente tutti gli abitanti) a partecipare al governo della città fin dai primo momenti della sua progettazione, ad esprimere le esigenze ed esprimersi sulle scelte, per orientare, verificare, correggere, momento per momento, le azioni di chi è preposto all’amministrazione ed i loro risultati.

Questa esigenza pone problemi complessi. Due mi sembrano particolarmente rilevanti: la capacità delle persone di scegliere tra alternative diverse, la capacità di pensare e agire (quindi partecipare) alle diverse scale alle quali i problemi del territorio si pongono.

La prima. Il “cittadino governante” (per richiamare il nome di una bella esperienza dei cittadini del comune di Giulianova) deve comprendere che c’è un conflitto tra l’avere l’automobile sotto casa e vivere in un quartiere sano e bello; deve comprendere che, nella distribuzione delle risorse comunali, le sue esigenze come maschio adulto e dotato di un reddito adeguato sono diverse da quelle della donna o del bambino o dell’anziano o del povero, ma che fra tutte bisogna stabilire delle priorità. E deve saper scegliere.

La seconda. Mille ragioni militano a favore del “locale” come punto di partenza di un’azione di rinnovamento profondo della città e della società. Ma sarebbe assolutamente da perdenti chiudersi nel localismo. I fenomeni che accadono nell’habitat dell’uomo rispondono ad azioni e a poteri che si sviluppano a scale diverse, e la democrazia – la nuova democrazia – deve saper pensare agire, partecipare, a tutte le scale

3a domanda.

Quali attori e quali risorse

per costruire la “città dei cittadini”?

Se vogliamo contribuire a modificare la realtà che non ci piace, è certamente necessario tracciare immaginari, scenari, visioni, definire principi e indirizzi, disegnare o raccontare progetti. É necessario, ma non è sufficiente. Costruire un habitat dell’uomo adeguato alle necessità e alle esigenze di oggi richiede attori e risorse. Su che cosa possiamo contare, oggi che gli attori tradizionali (i partiti, le istituzioni, la stessa società) sembrano ingoiati dal ventre possente dell’ideologia e dalla prassi del neoliberismo?

Discorso arduo, reso ancora più arduo per noi dal fatto che è radicalmente mutato il rapporto, essenziale per la pianificazione anche su questo terreno, tra pubblico e privato. Il “pubblico”, una volta sperata espressione dell’interesse generale, è stato colonizzato dal “privato”, di cui è divenuto strumento. Testimonianze sempre più ricche ne troviamo guardando alla realtà (come abbiamo fatto nell’analizzare le vicende dell’area milanese e di quella fiorentina).

Sempre più vasto appare il ruolo di quello che una volta si chiamava “parastato”, una volta costituito dalle appendici ed emanazioni del potere pubblico, Oggi il “parastato” è rappresentato da una miriade di strutture pagate dal “pubblico”, che decidono per conto del “pubblico”, e che esprimono interessi non solo criticabili perché settoriali, ma perché sono ormai divenuti espliciti strumenti degli interessi privati. I loro principali campi d’azione sono le infrastrutture, gli appalti pubblici, le operazioni immobiliari. Uno degli strumenti più efficacemente perversi è quello del “commissario straordinario”, che eddyburg ha puntualmente denunciato in tutte le occasioni in cui questa fattispecie si è manifestata: dal dopoterremoto all’Aquila allo scandalo del Lido di Venezia.

Quali attori

Anche a proposito di questa domanda espongo qualche idea da discutere. Ma soprattutto qualche problema sul quale è necessario riflettere e discutere.

Primo problema relativo agli attori. Rilevante è certo il ruolo del “terzo settore”, quello che da qualche decennio si colloca tra le due dimensioni (e poteri) dello Stato e del Mercato. É lo spazio sociale nel quale si colloca quell’insieme di forze disperse che ho definito “società critica”. Ma nel Terzo settore non ci sono solo i comitati e le reti: ci sono anche i cavalli di Troia del Mercato, e i raccomandati dello Stato.

Secondo problema. Restando nell’ambito della “società critica”. É noto il dibattito sulla necessità e sulla difficoltà di superare la dispersione e frammentazione dei gruppi e delle iniziative, e di far emergere una realtà pienamente politica, capace di strutturarsi e agire con continuità a tutti i livelli necessari. Problema aperto, quanti altri mai.

Terzo problema. In che modo è possibile riconquistare il terreno delle istituzioni – a partire da quelle del potere locale, ma aspirando ad una dimensione più vasta. Secondo me è un passaggio necessario per riacquistare la capacità di avere una visione (e uno strumentario) multiscalare, entrambi indispensabili per contrastare efficacemente quelli del neoliberalismo.

La debolezza delle reazioni critiche suscitate dalla decisione di abolire sic et simpliciter le province senza aver prima costruito una sufficiente proposta per la dimensione territoriale dell’area vasta è indicativo dei ritardi, delle incomprensioni (e dell’ignoranza diffusa) sulle questioni concrete del governo del territorio.

Le risorse

Anche per riconquistare le istituzioni una questione decisiva è: quali risorse? La città pubblica, componente essenziale della “città dei cittadini”, costa. É necessario molto lavoro per costruirla, e forse ancora di più – nel nostro disgraziato paese – per partire dalla trasformazione della città esistente. E il lavoro va retribuito. Dove prendere le risorse necessarie, in primo luogo per liberare i comuni tendenzialmente virtuosi dal ricatto “o ci aiuti a fare affari o crepi”.

Su questo terreno ci sono molte risposte, la maggior parte delle quali ragionevoli e percorribili da una volontà poliitica finalizzata al bene comune. Mi limito a elencare i temi, le voci delle entrate di un possibile bilancio virtuoso.

In primo luogo, le spese per la guerra. Le proposte del governo italiano (e degli altri paesi nordatlantici) alla crisi avrebbero richiesto un forte rilancio della tensione del pacifismo. La partecipazione anticostituzionali dell’Italia alle guerre in corso nel mondo non genera benefici e determina spese colossali. Abbiamo registrato subito, su eddyburg, la proposta di Alex Zanotelli e chiesto l’intervento di Carla Ravaioli, storica sostenitrice della necessità del disarmo proprio per ragioni di riduzione del danno ambientale e di recupero di risorse impiegabili per una società migliore.

Seconda voce, il risparmio delle risorse impiegate male per iniziative pubbliche (a tutti i livelli) non prioritarie, oppure inutili e dannose, oppure affaristiche, oppure addirittura ruffaldine. Paolo Berdini ne ha fatto un sommario elenco sul manifesto di domenica scorsa (lo trovate anche su eddyburg). Quante spese inutili genera l’ideologia della “competizione tre città”, e quante la pratica degli appalti all’italiana, ivi compresa la “finanza di progetto”?

Terza voce, l’acquisizione degli incrementi delle rendite immobiliari derivanti da scelte e investimenti pubblici. La rendita immobiliare non si può eliminare dal calcolo economico, ma si può certamente sia ridurne l’incidenza (Vezio De Lucia lo ricorda spesso) sia spostarne i benefici dal privato al pubblico. Nella discussione sulla crisi è stata avanzata da più parti la proposta di una tassa patrimoniale, destinata a colpire le rendite finanziarie e quelle immobiliari, ma mi sembra che l’esito sia stato modestissimo: nella quantità del prelievo e nell’eccezionalità dell’imposizione.

La città, e anche…

Spero che il dibattito di oggi, e quello che proseguirà dopo la scuola, permetterà di dare risposte più convincenti e ricche alle tre domande che ponevo. Per concludere vorrei innanzitutto porre a noi tutti (e in particolare a noi urbanisti) un’avvertenza.

Incorreremmo nell’errore tipico delle discipline separate dagli altri saperi e rinchiuse nella propria tecnicità se trascurassimo il fatto che la nuova domanda di pianificazione dell’habitat dell’uomo non nasce sola. Essa è componente di una più ricca domanda di cambiamento, che concerne tutti gli aspetti della vita sociale: dalla politica all’etica, dall’economia all’antropologia.

In effetti, affrontare in modo risolutivo quei temi che ho indicato presuppone o postula la costruzione di una società interamente diversa da quella attuale, a partire dalla sua dimensione strutturale, dalla sua economia. Non possono essere risolti nell’ambito di un’economia (e di una società) che riesce a sopravvivere, da una crisi all’altra, solo erodendo ancora di più gli scarsi margini delle risorse naturali del pianeta, accrescendo le diseguaglianze, cancellando via via le conquiste raggiunte nell’evoluzione di una civiltà. Non possono essere risolti nell’ambito di un’economia (e di una società) nella quale il lavoro – lo strumento che l’uomo ha per conoscere e governare il mondo – sia ridotto a componente marginale della vita economica e sociale. Non possono essere risolte nell’ambito di una società nella quale la formazione sia diretta all’apprendimento delle tecniche necessarie per far andare avanti un sistema economico obsoleto, divenuto disumano, anziché nell’esplorare le vie dell’ancora sconosciuto e del possibile.

É in relazione a questi temi che dobbiamo secondo me domandarci che cosa possiamo fare per contribuire alla formazione di una società e una città costruite sulla base del paradigma dei beni comuni. Sono convinto che abbia affermato una grande verità Giovanna Ricoveri quando ha detto che occorre essere utopici nel progettare il futuro e realisti nell’agire. Sono convinto che la trasformazione deve essere profonda, e cambiare nella sua radice la struttura della società attuale. Occorre una rivoluzione, cioè un cambiamento profondo e radicale del sistema dato.

Ma rivoluzione non significa necessariamente sommovimento violento, né conquista di bastiglie o palazzi d’inverno. Significa anche conquistare progressivamente e gradualmente trasformazioni parziali collocate in una strategia unitaria, ciascuna delle quali contribuisca a modificare non solo le condizioni della società, ma anche i rapporti di potere. Le modifiche che la realtà ci consente di compiere oggi sono modifiche parziali. Ma un conto è considerarle una tappa in un percorso verso un’utopia, un altro conto considerarle come traguardi sufficienti in se stesse.

Che fare?

Una domanda circola – mi sembra – tra i diligenti e appassionati frequentatori della scuola, dopo i tre giorni in cui si è ragionato su grandi cose e grandi problemi: molto più grandi di noi. Che cosa possiamo fare noi, in che direzione dobbiamo spingere il nostro impegno di cittadini e di operatori o studiosi della città? In che modo possiamo contribuire a far sì che anche le nostre azioni concrete spingano nella direzione giusta – concorrano alla costruzione della “città dei cittadini” e all’inveramento del paradigma dei beni comuni?

Io parto da una considerazione. Il compito di assumere le decisioni sul destino del territorio, di formare e trasformare l’habitat dell’uomo, è responsabilità della politica.

Abbiamo visto che i due elementi su cui sembra reggersi la politica oggi siano in crisi profonda. Non hanno giustamente più credito i partiti politici (quale più e quale meno, ma tutti), quasi senza eccezione asserviti all’ideologia della crescita e dello “sviluppo”, schiacciati sugli interessi del sistema economico dato. Vivono vita per molti aspetti precaria la maggior parte delle istituzioni, e in particolare quelle cui spetta la responsabilità di decidere sul territorio: colonizzate dagli stessi virus che hanno inquinato la politica dei partiti, travolte dalla “città della rendita” (spesso realizzata con la loro diretta complicità) o strangolate dalla crisi della finanza locale.

Continuo a sostenere che gli unici elementi di speranza li vedo in quella parte della società civile che ho definito la “società critica”: il mondo dei comitati, delle associazioni e dei gruppi di cittadinanza attiva che contrastano il saccheggio del territorio e degli altri beni comuni, il popolo delle “onde” che si sollevano per protestare contro le condizioni cui è ridotta la scuola, per il ruolo cui sono sempre più condannate le donne, per l’annientamento cui si sta procedendo nei confronti dei diritti del lavoro, il bacino ancora più vasto costituito da quelle decine di milioni di persone che hanno votato per combattere la privatizzazione dell’acqua e la minaccia nucleare alla salute del genere umano.

«Restituire lo scettro al principe»

Credo che per conquistare la politica si debba operare un rovesciamento: partire dal basso anziché dall’alto, dal cittadino anziché dal Palazzo. Nelle costituzioni dei paesi democratici la sovranità è del popolo. Un libro del politologo Gianfranco Pasquini si chiama «Restituire lo scettro al principe». Il “principe” non ha più fiducia su chi ha delegato ad utilizzare in suo nome lo scettro, il potere. Occorre ripartire dal principe, dal cittadino. Del resto, cito spesso il pensiero di Lorenzo Milani secondo il quale affrontare insieme un problema comune è la politica.

Partiamo dal cittadino. Ma il cittadino non conosce tutto. I problemi di oggi – e in particolare i problemi del territorio, le soluzioni possibili, i vantaggi e gli svantaggi di ciascuna delle soluzioni (e i danni provocati dalle soluzioni proposte nell’ambito del mainstream) – non solo sono complessi in sé, e richiedono spesso apporti specialistici per essere compresi, ma sono anche nascosti, dissimulati, travisati dalle parole adoperate da chi li espone e ne propone le soluzioni.

Ecco allora un grande campo di lavoro per chiunque sia un intellettuale e abbia le conoscenze specialistiche uili a comprendere, criticare, proporre. Noi che sappiamo, dobbiamo spiegare. Imparare a usare un linguaggio semplice, abbandonare il gergo delle nostre “discipline” per spiegare, argomentare, convincere. É quello che tentiamo di fare con la scuole di eddyburg. E giustamente Ilaria diceva: è necessario che nascano 1000 scuole di eddyburg.

Dobbiamo aiutare – con il sapere e il saper fare che deriva dal nostro mestiere, dei nostri mestieri – chi vuole cambiare.

Naturalmente non solo con l’esercitare una sorta di “assistenza tecnica” alle componenti della “società critica” e aiutandoli a comprendere che cosa c’è dietro alle scelte sbagliate e ad opporvisi, ma anche tentando operazioni mirate a formulare progetti capaci di camminare nella concretezza delle trasformazioni del territorio, e costruendoli insieme agli attori sociali interessati. Per esempio, quale campo di lavoro si aprirebbe se volessimo affrontare i problemi della mobilità, o quelli dell’organizzazione territoriale dei servizi e degli spazi pubblici, o quelli della riduzione del consumo di suolo e della difesa dell’agricoltura, trovando alleanze nel mondo del lavoro, o in quello della scuola e delle donne, o in quello degli agricoltori, e magari trovando il sostegno di gruppi di cittadinanza attiva aiutandoli a trovare risposte “in positivo” sugli argomenti delle loro proteste.

Ho accennato ad alcune di queste possibilità in un eddytoriale (il n. 144) che è tra le carte che vi abbiamo distribuito. Continuiamo a ragionarci insieme, e orientiamo anche in questa direzione le prossime iniziative che proporremo come Scuola di eddyburg. Proporremo un nuovo formato, più flessibile, più snello, e più continuo. Forse, dalla scuola estiva alla scuola permanente.

NotaGli altri materiali del corso sono inseriti nelle due cartelle qui. I testi delle lezioni saranno aggiunte via via che saranno pronte

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