Una limpida sintesi del principale filo conduttore (secondo uno sguardo laico) dell'enciclica Laudato sì: il perverso dominio esercitato dalla "cultura dello scarto" sull'uomo, la società, il pianeta Terra e gli altri suoi abitanti
«Questo riguarda specialmente alcuni assi portanti che attraversano tutta l’Enciclica. Per esempio: l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita» (16). Perché?
Lo scarto e soprattutto la cultura dello scarto, cioè la sua accettazione e legittimazione, evidenziano innanzitutto il modo di funzionare del sistema economico in cui siamo immersi: un sistema produttivo lineare che aggredisce le risorse della Terra senza curarsi degli equilibri dell’ambiente da cui vengono prelevate, per trasformarle il più rapidamente possibile in rifiuti, cioè in cose di cui società e sistema produttivo non sanno più che fare, e che per questo vengono restituite all’ambiente con modalità che contribuiscono al suo degrado, cioè sotto forma di rifiuti o di inquinanti (e, tra questi, i gas serra, che stanno alterando in modo irreversibile gli equilibri climatici del pianeta).
All’economia lineare Francesco contrappone, sulle tracce di ciò che Vandana Shiva (mai citata in questa enciclica) e altri con lei chiamano legge del ritorno, l’urgenza di rendere circolari i processi produttivi, in modo da impiegare in nuovi modi e sotto nuove forme ciò che non può più essere utilizzato in quelli dismessi; oppure in modo da restituirlo all’ambiente in forme compatibili con il rinnovarsi dei suoi cicli biologici, idrici e metereologici.
Francesco indica esplicitamente come alternativa «un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento [delle risorse], riutilizzare e riciclare». Ma la cultura dello scarto non riguarda solo il nostro rapporto con l’ambiente: «La cultura dello scarto finisce per danneggiare il pianeta intero…e… colpisce tanto gli esseri umani quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura». Ciò finisce per trasformare la terra, che è la nostra casa comune, «in un immenso deposito di spazzatura» (22).
Da quello con le cose questo approccio lineare, caratterizzato da un prelievo irresponsabile di risorse e da un’altrettanta irresponsabile produzione di rifiuti, si trasferisce alla società e investe il anche nostro rapporto con gli esseri umani, con il nostro prossimo. «Perché – scrive Francesco – anche l’essere umano è una creatura di questo mondo» (43).
Un’affermazione come questa evidenzia il completo abbandono di una concezione antropocentrica. L’essere umano ha sì una sua peculiare dignità – ogni vivente ha la sua - ma ce l’ha in quanto parte del creato, in quanto legato alla terra a cui lo unisce una fitta e inestricabile rete di rapporti di reciproca dipendenza.
Proprio per questo l’essere umano ridotto a risorsa, che vale solo perché e fino a quando ci serve, è condannato a un destino di scarto non appena non serve più: di qui l’esclusione di una parte crescente dell’umanità, ma anche il suo sfruttamento fintanto che può servire, che può essere usato, cioè avere un ruolo nell’alimentare i cicli della produzione e del consumo.
Quel sistema iniquo – aveva detto Francesco il 28 ottobre dell’anno scorso a Roma, rivolgendosi ai rappresentanti dei movimenti popolari – «è il prodotto di una cultura dello scarto che considera l’essere umano come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare». Alle forme tradizionali di sfruttamento e di oppressione se ne è aggiunta infatti un’altra, quella di rendere gli esseri umani superflui: «quelli che non si possono integrare, gli esclusi, sono scarti, eccedenze…Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non la persona umana».
E’ evidente in questo approccio l’influenza di un altro autore molto presente in questa enciclica, anche se anch’esso mai citato: Zigmunt Bauman, che della trasformazione degli uomini e delle loro vite in scarti, a partire dall’analisi del rapporto tra modernità e olocausto, ha fatto uno dei temi portanti del suo lavoro di ricerca.
Il mondo contemporaneo, per Bauman, non presenta più spazi vuoti, dove allontanare dalla nostra presenza i materiali che non ci servono più, come accadeva in molte civiltà preindustriali. Ma non presenta più neanche spazi sociali vuoti, verso cui sospingere l’umanità che eccede il fabbisogno del sistema produttivo; quell’umanità che in passato era stata mandata a popolare le colonie (a partire dalle Americhe), considerate spazi socialmente vuoti, perché i popoli che le abitavano non venivano considerati membri dell’umanità.
Oggi quegli spazi sociali non ci sono più e le «vite di scarto”, le persone di cui non si sa più che fare, cioè non si ha un interesse diretto a mettere al lavoro (come oggi succede soprattutto con i profughi e i migranti di troppo) finiscono per costituire una delle principali contraddizioni con cui si confronta la società contemporanea. Come i residui inquinanti e i gas climalteranti prodotti o emessi come scarti dal sistema produttivo costituiscono la principale minaccia per la vivibilità futura del nostro pianeta, così gli esseri umani «di troppo”, che il sistema produttivo condanna a una vita di scarto, rappresentano una delle principali contraddizioni che minacciano l’equilibrio degli attuali, iniqui, assetti sociali.
C’è dunque un rapporto diretto tra degrado dell’ambiente ed esclusione sociale: «non ci sono due crisi, una ambientale e l’altra sociale» (139); sono due risvolti di un processo unico. E non si può contrastare e combattere l’enorme mole di ingiustizia che contraddistingue il mondo di oggi senza porre rimedio anche a un atteggiamento verso la terra e le sue risorse che non si ispira alle regole della cura della casa comune, e che non fa dell’essere umano il loro custode.
Le manifestazioni principali di questo squilibrio, di questo oblio della cura che dovrebbe improntare di sé tutti i nostri rapporti, sia con l’ambiente che con l’umanità, si possono vedere nel ruolo assunto dal denaro come unico metro di misura di ciò che vale e merita di essere perseguito e nel potere crescente della finanza, che, nella sua corsa all’accumulazione, non rispetta né l’essere umano né l’ambiente.
Alla cultura dello scarto, equiparata tout court al modello di sviluppo in auge - «non possiamo tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale, dell’attuale modello di sviluppo e della cultura dello scarto sulla vita delle persone» (43) - Francesco contrappone il progetto della conversione ecologica; un altro concetto, questo, ripreso da un autore molto presente in tutto lo sviluppo dell’enciclica, anche se mai citato: Alex Langer.
Se la cultura dello scarto descrive e denuncia le criticità del presente, dello stato di cose in essere, la conversione ecologica prospetta e delinea il futuro, la strada da seguire per riportare la terra, la convivenza umana, e la convivenza dell’essere umano con l’ambiente, entro i limiti della sostenibilità.
Come già Langer, anche Francesco evidenzia i due aspetti fondamentali della conversione ecologica: da un lato c’è quello «oggettivo”, costituito da un sistema economico, O modello di sviluppo, in cui la produzione sia al servizio degli esseri umani e non viceversa. In questa dimensione fondamentale risulta essere l’aspetto temporale, cioè l’abbandono del paradigma della velocità: «dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso e di sviluppo» (191).
Ma Francesco entra anche nel merito delle cose da fare: «in ambito nazionale e locale c’è sempre molto da fare, ad esempio promuovere forme di risparmio energetico. Ciò implica favorire modalità di produzione industriale con massima efficienza energetica e minor utilizzo di materie prime, togliendo dal mercato i prodotti poco efficaci dal punto di vista energetico o più inquinanti. Possiamo anche menzionare una buona gestione dei trasporti o tecniche di costruzione e di ristrutturazione di edifici che ne riducano il consumo energetico e il livello di inquinamento. D’altra parte, l’azione politica locale può orientarsi alla modifica dei consumi, allo sviluppo di un’economia dei rifiuti e del riciclaggio, alla protezione di determinate specie e alla programmazione di un’agricoltura diversificata con la rotazione delle colture. È possibile favorire il miglioramento agricolo delle regioni povere mediante investimenti nelle infrastrutture rurali, nell’organizzazione del mercato locale o nazionale, nei sistemi di irrigazione, nello sviluppo di tecniche agricole sostenibili. Si possono facilitare forme di cooperazione o di organizzazione comunitaria che difendano gli interessi dei piccoli produttori e preservino gli ecosistemi locali dalla depredazione. È molto quello che si può fare!» (139).
Niente a che fare con la negazione del ruolo dell’innovazione: «la diversificazione di una produzione più innovativa e con minore impatto ambientale può essere molto redditizia. Si tratta di aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo» (191).
Poi c’è l’aspetto «soggettivo» della conversione ecologica, che risiede in un diverso modello di consumo, improntato alla sobrietà e al consumo critico, a un altro stile di vita, a un impegno responsabile in direzione della sostenibilità.
In entrambi questi risvolti la conversione ecologica non può tuttavia essere una scelta solo individuale: è sempre, anche – ricorda Francesco – una «conversione comunitaria» (219): un’azione collettiva che richiede partecipazione e impegna al conflitto.
Questa parte dell’enciclica che promuove e legittima la lotta dei poveri e degli esclusi contro l’ingiustizia, le diseguaglianze e il degrado della vita rimanda direttamente alle parole, a quell’invito a lottare per i propri diritti, che Francesco aveva rivolto ai rappresentanti dei movimenti popolari nell’incontro citato del 28 ottobre dell’anno scorso.
Ma rispetto all’elaborazione di Langer, che risale a oltre vent’anni fa, nello sviluppare il tema della conversione ecologica Francesco aggiunge, o evidenzia maggiormente, due aspetti. Da un lato il nesso stretto tra un sistema produttivo compatibile con i limiti fisici del pianeta e la giustizia sociale, come sua componente intrinseca; perché le vittime principali del dissesto ambientale sono i poveri della terra. Sono i diritti della terra a dover essere salvaguardati, perché senza di loro l’ingiustizia è destinata a trionfare anche nei rapporti reciproci tra gli esseri umani.
Dall’altro, Francesco sottolinea LA dimensione spirituale della conversione ecologica, certo non assente in Langer, che era anche lui un cristiano. A questa dimensione spirituale Francesco attribuisce un connotato preciso: è la capacità di entrare in consonanza con tutto il vivente. In questa enciclica IL rapporto tra l’essere umano e dio non è mai affrontato in modo diretto, ma è sempre mediato dall’atteggiamento – e dal comportamento – del genere umano verso il creato, come nel Cantico di San Francesco a cui si ispira l’enciclica.
Se, come scriveva Alex, «la conversione ecologica potrà affermarsi solo se sarà socialmente accettabile”, ora Francesco cerca di esplicitare, dal punto di vista spirituale, che cos’è che può promuovere quell’accettabilità sociale che ne condiziona l’affermazione: è la capacità di entrare in sintonia con tutto il vivente; anche l’essere più infimo e apparentemente insignificante, a cui l’enciclica dedica un’attenzione non minore di quella accordata ai grandi problemi della terra.
E’ un tema che non si può più evitare di introdurre e far valere in tutti i nostri discorsi, le nostre elaborazioni e le nostre pratiche: sia quelle di lavoro o di ordinario svolgimento della nostra vita quotidiana, sia quelle di partecipazione alla lotta politica, al confronto culturale e al conflitto sociale.