Il primo libro di politica che ho letto, a 16 anni, me lo procurai alla Feltrinelli di via del Babbuino, a Roma. Costava 300 lire. Io però non avevo 300 lire e allora lo rubai. Era il "manifesto del partito comunista". Lo lessi, era bellissimo. E soprattutto era assolutamente convincente, ed io diventai comunista. Non credo che il mio piccolo furto sia stato un tremendo crimine. Negli anni seguenti rubai altri libri: Lenin, Marcuse, Che Guevara, forse anche Stendhal. Il vecchio direttore della libreria, del quale non ho mai scoperto il nome, era un uomo molto simpatico e faceva finta di non accorgesene. Bastava non esagerare. Un libro alla volta, sotto il cappotto, non di più. D'estate niente.
Sono sinceramente stupito di fronte al possente fiume di indignazione che da una settimana sta travolgendo le coscienze degli opinionisti italiani, terrorizzati dalla spesa a basso costo (loro dicono "esproprio proletario") dei disobbedienti che sabato scorso hanno portato via un po' di merce da un supermercato di Pietralata e poi dalla Feltrinelli di piazza Esedra. Pagandola pochissimo e successivamente distribuendola alla gente. I disobbedienti hanno spiegato che quella era una forma di lotta contro il carovita. Questo giornale ha già spiegato - in modo assai netto - perché giudica sbagliata quella forma di lotta. Però, santo cielo, una cosa è dire che è una lotta sbagliata e una cosa un po' diversa è stracciarsi le vesti e paragonarla alle azioni della malavita, della mafia, della camorra, del terrorismo internazionale e delle Brigate rosse. Il ministro Pisanu ha gridato ai quattro venti che era pronto alla repressione più severa: "tolleranza zero", ha giurato tra gli applausi dei giornali (c'è in giro un sacco di gente che si gloria di essere intollerante. Gli pare una virtù: povero Voltaire...). Giampaolo Pansa ieri su Repubblica ha scritto un lunghissimo articolo intitolato: "Quegli espropri proletari che portarono alla P38". (Per chi non lo sa, la P38 è una pistola). Poi c'è un sottotitolo: "Nei blitz dei disobbedienti lo spettro del '77". Nelle fotografie, d'epoca, che accompagnano l'articolo di Pansa (inizia in prima e poi riempie l'intera pagina 17) si vedono varie pistole in mano a giovani manifestanti e ad agenti di polizia.
L'articolo è composto da una ampia intervista postuma a Luciano Lama (mitico capo della Cgil negli anni settanta, morto otto anni fa), e poi da un dettagliato racconto di tutti gli episodi di violenza e di tutti gli omicidi politici del 1977, intervallato da alcuni riferimenti a Luca Casarini, Francesco Caruso, Guido Lutrario e Nunzio D'Erme, cioè i capi dei disobbedienti di oggi. Non c'è nessun sottinteso nell'articolo, nessun ammiccamento. E' un articolo assolutamente esplicito, che sostiene candidamente questa tesi: i disobbedienti sono quelli che avviano un ciclo vizioso, e questo ciclo finisce con la lotta armata e il terrorismo. In uno dei titoletti che corredano l'articolo di Pansa c'è scritto proprio così: "Inquietante parallelismo". Non starò a spiegare perché la tesi di Pansa è del tutto inconsistente e anche un po' buffa. Ogni lettore di Liberazione è in grado di capirlo di se. Anche Pansa è in grado.
Ho sempre stimato Gianpaolo Pansa, che per molti di noi - quelli che sono arrivati al giornalismo proprio durante i cosiddetti anni di piombo - è stato un po' un maestro. Facevamo a gara ad imitare la sua capacità di scrivere, di raccontare, di trovare il dettaglio più suggestivo, di coinvolgere il lettore nelle cose di cui lui parlava. Bravissimo. So che le sue recenti posizioni politiche - soprattutto dopo il breve periodo dell'anti-dalemismo - oggi sono di feroce ostilità verso la sinistra radicale, verso Rifondazione e specialmente verso Fausto Bertinotti: ma questo è un suo pieno diritto professionale e personale, e non c'è niente da ridire. Però di fronte ad una operazione giornalistica come quella di ieri non posso non farmi una domanda seria: cosa spinge una parte consistente del nostro giornalismo - e della intellettualità italiana - ad assumere posizioni sempre meno critiche verso il potere, sempre meno impegnate nella ricerca e nella analisi politica, e sempre più insofferenti, arroganti, aggressive, verso ogni forma di lotta che rompa gli schemi del conformismo e del pensiero uniforme? Perché i grandi giornalisti, e gli intellettuali pensanti, non si sono mai misurati, in questi anni, con problemi come - per esempio - le leggi europee sul lavoro che azzerano i diritti e dimezzano i salari, o come il protezionismo agricolo, o come le normative internazionali che privatizzano i servizi (l'acqua, la scuola, la sanità), o come i prezzi delle medicine che arricchiscono le case farmaceutiche e mietono milioni di vittime in Africa, o come la sciagurata riforma della scuola della Moratti, o la politica della Confindustria (e dei governi italiani) che in un decennio ha ridotto del 15 o del 20 per cento gli stipendi di quasi tutte le categorie più deboli? Perché la nostra intellettualità e i nostri giornalisti - come ha scritto giorni fa su queste pagine Marco Revelli - si sono arresi? Perché hanno abbandonato ogni aspirazione a mettere in discussione l'ordine costituito? Al massimo riescono a lamentarsi per un eccesso di potere di questo o quel pezzo di borghesia, riescono a prendersela col prevalere del potere politico su quello giudiziario o viceversa, riescono genericamente a protestare per il basso profilo culturale e umano del berlusconismo: niente di più. L'intellettuale-contro, il giornalista-contro sono figure praticamente scomparse. E se qualcuno ha ancora voglia di indignarsi trova come sfogo l'invettiva da scagliare sui disobbedienti. Fabrizio De Andrè diceva: "Signori benpensanti... ".
Il fronte degli intellettuali è uno dei punti più deboli della sinistra di oggi: la sinistra è scoperta su quel lato. Negli anni sessanta non era così. Dobbiamo capire che c'è questo problema e non possiamo sottovalutarlo, perché è difficile vincere le grandi battaglie, e imporre idee nuove, se la stragrande maggioranza della intellettualità non ne vuole sapere. Per fortuna c'è ancora qualcuno che ha voglia di pensare: leggete l'intervista a Marcello Cini che pubblichiamo a pagina due e vi rincuorerete un po'.