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«Pagare tanto le aree dell’Expo2015 è un reato»
5 Luglio 2011
Lettere e Interventi
arch. Stefano Lanza

Dopo aver molto letto sull'expo di Milano, sui costi della aree, sulla discussione su cosa fare successivamente allo svolgimento dell'evento, pochi giorni fa ho avuto un lampo: tutta la discussione e le polemiche ruotano e trovano la loro base essenzialmente intorno al valore delle aree: se le aree valgono settanta milioni di euro allora (a parte trovare ORA questi soldi) POI dovranno essere realizzate abbastanza cubature con adeguate destinazioni per ripagare l'investimento. Ma a nessuno è venuto in mente che il buco nero di tutta la discussione è il dare per scontato quel valore? Secondo quanto è noto le aree sono attualmente a destinazione agricola e, a seguito di una necessaria variante per permettere la realizzazione dell'expo, dovranno essere destinati a servizi di scala cittadina, destinazione preordinata all'esproprio.

Se espropriati questi terreni costerebbero non più di sette/otto euro al metro quadro, essendo più che generosi, in quanto da considerarsi non edificabili ai sensi del testo unico delle espropriazioni, della giurisprudenza dei tribunali, della corte di cassazione e della corte costituzionale, e quindi da pagare a partire dai VAM.

Capisco che, come a Roma, anche a Milano, auspice gli autori del PRG ancora oggi vigente, sono state introdotte nella prassi urbanistica insostenibili orrori quali le compensazioni e la perequazione, infaustamente teorizzate dall'INU già negli anni Ottanta, ma qui stiamo parlando di qualcosa che è pericolosamente vicino ad un reato. Come chiamare altrimenti la decuplicazione del valore riconosciuto al proprietario? Ed il fatto che lo stesso sia un ente parapubblico a mio parere peggiora la situazione. Oramai gli ultimi anni hanno dimostrato che non si possono dare devastanti speculazioni senza l'attivo, compiacente e compiaciuto concorso delle amministrazioni responsabili della gestione del territorio.

Sono completamente d’accordo con le sue valutazioni nella loro sostanza. In particolare, sull’iniquità dell’appropriazione privata dei rilevantissimi incrementi della rendita per effetto di decisioni e investimenti, storici e attuali, della collettività. Sono anche perfettamente d’accordo con lo stigmatizzare il comportamento degli amministratori che operano accettando supinamente – e anzi agevolando – l’incremento della rendita. In questo sennso parlare di £reato” mi sembra del tutto ragionevole, e anzi ovvio. Ho viceversa qualche perplessità sull’aspetto giuridico. La propaganda che urbanisti infedeli e amministratori stupidi (ma sono questi, in Italia, che “fanno opinione”) hanno fatto ai cosiddetti presunti “diritti edificatori”, il trend del sistema capitalistico nella sua fase attuale (ha letto il bel saggio di Walter Tocci?) e l’omogeneizzazione che, con la sentenza europea, si è fatto di regimi patrimoniali del tutto diversi, temo che tutto ciò abbia provocato qualche modifica nella giurisprudenza, o almeno nei comportamenti della magistratura. Non sono un giurista, il mio è solo un sospetto, e mi piacerebbe che qualcuno lo confermasse o, meglio, lo fugasse, con riferimenti precisi.

Sarebbe bello se qualche parlamento approvasse una legge che stabilisse, in modo chiaro e non più equivocabile, che “la facoltà di costruire appartiene alla collettività”, e ne facesse discendere tutte le logiche conseguenze. Ma i tempi non mi sembrano maturi. E non lo diventeranno mai se non ci fosse qualcuno che, con petulanza, ricordasse e cercasse di far comprendere ai più quello che i miei maestri avevano compreso a proposito delle rendite, e soprattutto di quelle urbane: come e perché sono perniciose alla società e agli uomini, oltre che alla buona economia e al territorio.

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