La presa di congedo dal regno del lavoro
Marco Bascetta
«Bisogna imparare a discernere le possibilità non realizzate che sonnecchiano nelle pieghe del presente. Bisogna voler affermare queste possibilità, afferrare ciò che cambia. Bisogna osare rompere con questa società che muore e che non rinascerà più. Bisogna osare l'Esodo». Questo, con le sue stesse sintetiche parole, il programma politico di André Gorz, l'oggetto del suo instancabile impegno di ricercatore, dagli anni Sessanta ad oggi. Da quando la rivoluzione tecnologica, le nuove pervasive forme dello sfruttamento e la globalizzazione ci hanno costretto a dire «addio al proletariato» industriale, almeno nelle società opulente dell' occidente, non possiamo firmare alcun armistizio con la realtà e accettare quel ricatto del lavoro salariato, divenuto tanto più feroce e costrittivo, quanto più il lavoro stesso è stato reso un bene scarso, quasi un premio o una concessione. Ma neanche nutrire nostalgia per condizioni ormai irrimediabilmente tramontate, per il lavoro industriale dell'epoca fordista, e quella commistione di vita impoverita e di potenza collettiva che ne scaturivano, per una «piena occupazione» secondo i modi e le regole dettate dall'accumulazione del capitale. Questa la scommessa.
Noi viviamo in un mondo, ci diceva Gorz al termine della sua ricerca, in cui le regole vigenti non sono più vere, in cui tutto resta misurato dalle leggi di una forma del lavoro sempre meno disponibile, sempre più aleatoria quando non superflua. Disoccupazione cui fa da beffardo contraltare l'incremento degli straordinari, allungamento della vita lavorativa e giovani senza occupazione, la vita intera messa al lavoro, ma senza alcun riconoscimento, senza reddito certo, senza garanzie. È a questa finzione che bisogna volgere le spalle, è dalla natura sempre più arbitraria e parassitaria del capitalismo contemporaneo che dobbiamo intraprendere la via dell'esodo. Tuttavia, imboccare questa via implica l'abbandono di schemi e figure usurate, sperimentare nuove forme di cooperazione, diversi strumenti di conflitto, rovesciare di segno l'economia della conoscenza. «Occorre che il lavoro - scrive Gorz - perda la sua centralità nella coscienza, nel pensiero, nell'immaginazione di tutti». E che una diversa idea, antropologica, filosofica, dell'attività umana prenda il suo posto. Occorre che il nostro fare si contrapponga a un fare che ci viene imposto ed elargito (con crescente parsimonia) al tempo stesso.
Certo, in questa sua visione dell'attività umana liberata, lo studioso francese, si fa a volte prescrittivo, predicatore di un modello astratto di «buona vita», purificato dalle contraddizioni e dai paradossi che attraversano i soggetti reali. Molti glielo hanno rimproverato e non a torto. Ma Gorz non è un ingenuo, sa bene che la «destandardizzazione e demassificazione» del lavoro nell'economia postfordista, non hanno prodotto il mondo nuovo, riesumato semmai forme di lavoro servile e feroci dispositivi di autosfruttamento, piegato tutto alle «leggi del mercato» e ai rapporti di forza che in esse prosperano. Non è tuttavia tornando tra le braccia dello «Stato-provvidenza» o all'antica stabilità della classe che lo sfruttamento potrà essere sconfitto. L'esperienza del socialismo reale e il fallimento di tanti riformismi stanno lì a ricordarcelo. Il movimento non può più essere semplicemente «operaio». Così egli volge il suo sguardo verso una dimensione pubblica diversa da quella statale, verso nuove dimensioni dell'agire in comune, del legame sociale e della realizzazione dei singoli. Resta, questa, una interrogazione aperta oltre che impervia. Ma a partire da una chiara premessa. Non possiamo più accettare la finzione che continua a «fare del lavoro la base dell'appartenenza e dei diritti sociali, la strada obbligata per la stima di sé e degli altri».
Oltre la miseria del presente in nome della ricchezza del possibile
Benedetto Vecchi
La laurea in ingegneria chimica ha fornito quella competenze tecnico e scientifiche che sono tornate utili a André Gorz quando scriveva di automazione del lavoro, crisi ecologica, tecnologie digitali, i temi cioè che hanno caratterizzato la sua produzione intellettuale di questi ultimi trent'anni. Nei libri facevano capolino tra una pagina e l'altra e fornivano sempre una solida base argomentativa alle sue analisi quando sosteneva, ad esempio, che la riduzione del lavoro a 35 ore era solo il primo passo, perché la produttività individuale e collettiva era così cresciuta che occorrevano ormai solo 20 ore a settimana per produrre gli stessi beni. A patto, però, che il lavoro fosse ridistribuito.
«Les temps modernes»
La sua battaglia a favore della riduzione dell'orario di lavoro lo aveva condotto, sul crinale tra gli anni Ottanta e Novanta, a un vivace e fecondo rapporto con il sindacato francese della Cfdt e con quelli metalmeccanici tedeschi e italiani. Vivace, perché invitava le organizzazioni sindacali a prendere atto che la fabbrica stava cambiando con la sostituzione degli uomini e delle donne con le macchine. Fecondo, perché André Gorz si poneva sempre in ascolto delle argomentazioni di chi la fabbrica la subiva. Un intellettuale militante, questo è stato André Gorz.
Nato nel 1923 a Vienna conseguirà, nel 1945, la laurea in ingegneria chimica a Losanna, in Svizzera, dove la sua famiglia si era rifugiata dopo l'Anschluss dell'Austria alla Germania. Con l'Austria e la Germania André Gorz ha avuto sempre un rapporto travagliato, al punto di cambiare nome (il nome di battesimo era Gerard Horst) e decidere di non recarsi in Germania a causa della politica di sterminio del regime nazista, fino a quando, alla fine degli anni Ottanta, sarà invitato dal sindacato metalmeccanico tedesco per un ciclo di conferenze su come stava cambiando il lavoro e la proposta di una sua riduzione. Scrisse, anche, che cambiare il nome era un atto pubblico di denuncia politica di quella denazificazione della Germania e dell'Austria che non avevamo fatto i conti con il recente passato E in Francia, il paese dove si era trasferito dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, prese dunque il nome di Michel Bousquet, che poi abbandonerà per quel André Gorz che sarà la firma dei suoi primi scritti, fino a diventare una firma nota della rivista «Les temps modernes», dove lavorerà con Jean-Paul Sartre.
Sono gli anni in cui, assieme a tanti altri, pone le basi di un rinnovamento del marxismo, imboccando la via dell'analisi, piena di insidie, del neocapitalismo che lo conduce, assieme a altri, a fondare «Le Nouvel Observateur». Per chi scrive, l'incontro con André Gorz avviene al crepuscolo degli anni Ottanta con la pubblicazione di Addio al proletariato (Edizioni lavoro). Gorz è convinto che l'automazione del lavoro industriale (manufatturiero per Marx) porterà a una diminuzione radicale dell'occupazione industriale, ma tale esito è una chance che va colta dalla sinistra marxista eterodossa: l'automazione non va contrastata, bensì accelerata, accompagnandola con una riduzione radicale dell'orario di lavoro: «Lavorare meno, lavorare tutti» è l'orizzonte politico che Gorz in cui si pone e al quale rimarrà sempre fedele.
Il rovello dell'ecologia
C'è poi l'ecologia, tema che viene affrontato alla luce dell'auspicabile incontro tra il movimento operaio e l'ambientalismo - Ecologia e politica, La strada del Paradiso (Edizioni Lavoro) Capitalismo, socialismo, ecologia (manifestolibri) -. Il suo tentativo di coniugare marxismo e ambientalismo sarà infatti l'altro rovello su cui si concentrerà la sua produzione per tutti gli anni Novanta. Gorz guarda con interesse a quel filone di ricerca antiutilitarista che ha il suo centro in Francia. Da qui il testo La strada del paradiso (edizioni lavoro). I lavori più fecondi di questo decennio sono tuttavia La miseria del presente, la ricchezza del possibile (manifestolibri) e Metamorfosi del lavoro (Bollati Boringhieri), una critica alle culture politiche della sinistra a partire da quella controrivoluzione che talvolta è stata chiamata postfordismo.
Quasi in sordina, alcuni anni fa Andrè Gorz mandò alle stampe un altro libro - L'immateriale, Bollati Boringhieri - in cui il mostro da guardare in faccia e combattere era la vulgata neoliberista della tecnologie digitale. Anche lì pagine che meriterebbero di essere lette e discusse a fondo. Gorz è per il reddito di cittadinanza, ma invita a guardarsi le spalle da un nemico insidioso, cioò che sia un proposta che più che ricomporre il lavoro eterodiretto (nozione che preferiva a quella di lavoro dipendente o lavoro salariato) poteva ulteriormente frammentarlo. Poi il silenzio, anche se le voci di un suo nuovo lavoro rimbalzavano da un sito Internet e l'altro. Il duro mestiere di vivere deve essere però diventato insopportabile. Mancherà quel suo argomentare dove la ricchezza del possibile deve comunque fare i conti con le miserie del presente.