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3 gennaio 2017 (c.m.c.)
«La vittoria del fascismo», scrivono Pierre Dardot e Christian Laval nelle prime pagine del loro Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista (DeriveApprodi, trad. di Ilaria Bussoni, pp. 142, 15 euro), «è una possibilità con cui dobbiamo fare i conti. E nessuno potrà dire ‘noi non sapevamo’». È un’affermazione che personalmente condivido, pur non avendo qui lo spazio per qualificarla e precisarla, come sarebbe necessario.
Dà in ogni caso il senso dell’urgenza politica che pervade il testo dei due autori francesi, forse ancora più esplicita nel titolo originale: «per farla finita con questo incubo che non vuole finire». A differenza dei ponderosi volumi da loro scritti negli ultimi anni – La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista e Del Comune, o della Rivoluzione nel XXI secolo (entrambi editi da DeriveApprodi), a cui va aggiunto Marx, Prénom Karl (Gallimard, 2012) – questo nuovo libro è una sorta di manifesto, un lungo pamphlet pensato e scritto come un intervento direttamente politico. Vale la pena dunque di discuterlo in quanto tale, anche tenendo presente la notevole influenza che in particolare La nuova ragione del mondo ha esercitato nel dibattito italiano.
Lo sfondo di Guerra alla democrazia è definito dal processo di radicalizzazione e rafforzamento (aggiungerei, con più enfasi rispetto a Dardot e Laval: nonché di mutazione) del «neoliberalismo» negli anni successivi all’inizio della grande crisi economica e finanziaria nel 2007-2008. È un processo che andrebbe indagato sulla scala globale che il «neoliberalismo» ha assunto come riferimento fondamentale fin dalla sua origine. Qui tuttavia, coerentemente con i loro obiettivi, Dardot e Laval si soffermano in particolare sull’Europa.
Centrale è per loro, del tutto comprensibilmente, la «lezione greca», ovvero la sconfitta del tentativo di Syriza – nella prima metà del 2015 – di rompere politicamente con la continuità neoliberale dell’austerity. Il giudizio è molto netto: «vista da oggi, la partita sembrava truccata. La lezione greca dimostra che nessuna inflessione può venire davvero dall’interno del gioco istituzionale europeo, proprio per la forza del ricatto che viene esercitato sui recalcitranti nei confronti della linea dominante».
Questo «ricatto» ricapitola nella prospettiva di Dardot e Laval i capisaldi del neoliberalismo (in particolare nella sua variante «ordoliberale»), esasperandone le caratteristiche «anti-democratiche» e «oligarchiche». Sono qui ripresi i tratti fondamentali della ricostruzione «genealogica» del neoliberalismo proposta – innestando significative integrazioni e correzioni su una traccia foucaultiana – in La nuova ragione del mondo. È bene dire subito che si tratta di una ricostruzione importante e preziosa. Con quel libro Dardot e Laval hanno contribuito a «spiazzare» l’immagine dominante a «sinistra» del neoliberalismo, criticandone in particolare l’interpretazione puramente «negativa» (smantellamento delle regole, riduzione dei margini d’azione dello Stato, etc).
Il neoliberalismo è piuttosto a loro giudizio «una forma di potere positiva e originale», capace di plasmare le «forme di vita» e le «condotte» sincronizzandole alla «logica del capitale». Dardot e Laval non sono certo stati, per fortuna, gli unici a lavorare in questa direzione negli ultimi anni: basti ricordare, andando oltre i confini europei, i lavori di Wendy Brown sugli Stati Uniti, di Wang Hui sulla Cina, di Verónica Gago sull’Argentina e sull’America Latina e di Aihwa Ong sull’Asia orientale. Ma, indubbiamente, La nuova ragione del mondo si segnala con le sue cinquecento pagine per la serietà del lavoro di ricostruzione storica e, tra altre cose, per l’enfasi sull’originaria impronta «ordoliberale» del processo di integrazione europea.
Su quest’ultimo punto, di grande rilievo come già si è visto per le stesse conclusioni politiche di Guerra alla democrazia, alcune osservazioni mi sembrano necessarie. Certo, l’analisi proposta da Dardot e Laval del «condizionamento» ordoliberale della costruzione europea, fin dagli anni Cinquanta, è convincente.
La conclusione che solitamente se ne trae, e cioè che l’integrazione europea è puramente ed esclusivamente un «progetto neoliberale», senza ulteriori qualificazioni, mi pare tuttavia quantomeno affrettata. Per varie ragioni, tra cui mi limito a segnalare il fatto che – come dimostra un’ampia storiografia – la costruzione dello «Stato sociale democratico», nelle diverse varianti che conobbe in Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale, fu possibile soltanto nella cornice del processo di integrazione.
La stessa nascita dell’Unione Europea, con il Trattato di Maastricht, ebbe certamente una violenta determinazione neoliberale, in particolare per il modo in cui è stato definito lo statuto della Banca Centrale – e dunque della moneta unica. Ma agirono in quel processo anche altre logiche e altri attori, che sono stati semmai definitivamente marginalizzati proprio nel contesto del cosiddetto «management della crisi», in particolare a partire dal 2010 (il «Meccanismo europeo di stabilità» e il «Fiscal compact» sono evidentemente passaggi essenziali a questo riguardo).
E per concludere sul punto: trovo un po’ singolare l’enfasi di Dardot e Laval sul fatto che l’euro non sia «stato istituito come strumento monetario al servizio di obiettivi politici democraticamente determinati». Forse ho fatto le letture sbagliate sul tema, ma che questa sia la «normale» funzione della moneta in una società capitalistica, rispetto a cui l’euro rappresenterebbe una distorsione, mi risulta davvero sorprendente.
Il nuovo libro di Dardot e Laval, in ogni caso, è molto efficace nell’analizzare – e nel denunciare – il radicale svuotamento della democrazia rappresentativa che si è determinato negli ultimi anni in Europa, nel segno dell’affermarsi di quel «nuovo concetto di sovranità» di cui parlò nel dicembre 2011 (dopo la destituzione di Papandreu in Grecia) l’allora presidente della BCE Jean-Claude Trichet.
La stessa indicazione dei caratteri «oligarchici» del blocco neoliberale dominante – per quanto di tanto in tanto la descrizione di questo blocco, soprattutto in riferimento alla Francia, risulti un po’ troppo prossima a quell’«accezione corrente» del neoliberalismo che come si è detto i due autori criticano rigorosamente dal punto di vista teorico – è certo suggestiva nella sua «classicità». Una rilettura di Pluto, una commedia di Aristofane, fa infatti da cornice all’analisi svolta nel libro, riproponendo l’antico scontro tra oligarchia (del denaro, in particolare) e democrazia come tema di fondo e posta in palio nella crisi europea contemporanea.
Il fatto è, tuttavia, che la parte «propositiva» del manifesto di Dardot e Laval, interamente ritagliata attorno a un’intransigente «rivendicazione di democrazia», non mi pare davvero all’altezza delle stesse sfide indicate nella parte analitica – né dei toni apodittici, quando non liquidatori, adottati nei confronti di autori che dovrebbero essere considerati quantomeno «compagni di strada» in un tempo definito con molte ragioni «buio». Il problema, del resto, era già presente – sotto il profilo teorico – in La nuova ragione del mondo, dove gli stessi Dardot e Laval scrivevano che «che è più facile evadere da una prigione che uscire da una razionalità».
Ora, chiunque abbia visto ad esempio Papillon sa che per progettare un’evasione è fondamentale lo sguardo che si getta ai muri della propria prigione. E ho l’impressione che la particolare interpretazione della categoria foucualtiana di «governamentalità» proposta da Dardot e Laval finisca per fare velo alle crepe di quei muri ben più di quanto non contribuisca a individuarle e ad allargarle.
Tanto è vero che i riferimenti alla «promozione di forme di soggettivazione alternative» e alle «contro-condotte» come terreno di lotta e resistenza, nelle ultime pagine di quel libro, lasciava un po’ spiazzati. Né il successivo Del comune ha contribuito a risolvere il problema di comprendere – per dirla nel modo più semplice possibile – da dove e come possano emergere queste contro-condotte capaci di definire un’alternativa al neoliberalismo.
Abbiamo ora, in un testo più esplicitamente politico, una risposta a questo problema? «L’unica alternativa possibile al neoliberalismo», scrivono in Guerra alla democrazia Dardot e Laval, «parte dall’immaginario». Ok, suona bene «immaginario». Né mi sogno di contestare la potenza politica dell’immaginazione – al contrario. Ma questa potenza dovrà ben essere materialmente qualificata e impiantata in processi sociali e politici determinati – dovrà essere nutrita da e a sua volta nutrire lotte. Qui si parla di un «blocco democratico internazionale», di una «federazione europea e mondiale» di «coalizioni democratiche».
Se ne può dire qualcosa di più? I loro «contorni programmatici» non si possono definire, perché – ci informano i due autori in modo un po’ sorprendente – «averne la pretesa significherebbe contravvenire al principio stesso della democrazia». Si può dire allora qualcosa sulla loro composizione e organizzazione? Solo in negativo, sembrerebbe: occorre «rompere una volta per tutte con la logica del partito e degli spauracchi della rappresentanza» (tutto in corsivo, in un accorato appello alla «sinistra, soprattutto quando si tratta del rapporto con i suoi elettori»…). Alla fine, tuttavia, proprio nell’ultima pagina del libro un paio di regole «non negoziabili» vengono pur sempre formulate: la «rotazione delle cariche» e la «non rieleggibilità nelle funzioni pubbliche». Chissà che ne direbbe, in Italia, il movimento 5 stelle…
Vi sono molti passaggi interessanti e originali in Guerra alla democrazia. Ne ho già menzionati alcuni. Aggiungo qui la ripresa della definizione aristotelica di democrazia come potere dei poveri, e dunque di «una parte della polis». Ripeto tuttavia che lo svolgimento di una proposta politica che si vorrebbe radicalmente democratica, federativa e cooperativa è davvero molto debole, se non evanescente, in questo libro.
Completamente eluso, in particolare, rimane nella pars construens il problema del potere: come si affronta politicamente quello che è efficacemente definito dai due autori il «trasloco» del «luogo di produzione delle norme» e di formulazione delle logiche di governo? Come si costruisce un rapporto di forza che consenta di «immaginare» (e dunque di praticare) una riappropriazione di questa produzione di norme e di questa capacità di governo? Sui soggetti, sulle lotte, sui dispositivi istituzionali che possono materialmente fondare un tentativo di rispondere a queste domande dovrebbero concentrarsi, credo, la ricerca e la sperimentazione politica. Con uno spirito aperto al confronto e al dialogo, perfino con «modestia» aggiungerei, dato che evidentemente nessuno – tantomeno chi scrive – ha risposte definitive da offrire.
Dardot e Laval si ricollegano qui, ovviamente, a Del comune. Non mi sembra inutile ricordare che, nell’introduzione a quel libro, l’esemplificazione della relazione tra la «Comune» e «i commons» era proposta sulla base del movimento del giugno 2013 a Istanbul, attorno a Piazza Taksim e a Gezi Park. Leggendo quel volume, come al solito molto ricco nelle parti storiche di ricostruzione delle teorie federative e cooperative, delle «consuetudini della povertà» e del socialismo giuridico, si aveva anzi l’impressione che il movimento di Gezi Park fosse qualcosa di più che un esempio – che fosse una sorta di modello politico per Dardot e Laval. Ora, si è trattato di un movimento formidabile, su cui era certo legittimo fare un investimento di quel tipo: ma oggi, come si sa, la situazione in Turchia è un po’ cambiata. In Guerra alla democrazia il lettore cercherà invano un bilancio critico di quell’esperienza.
Dardot e Laval sono autori di libri importanti, sono schierati politicamente da quella che io considero essere la «parte giusta». La loro critica, sulla base di un’analisi realistica di quel che è diventato lo Stato nel tempo neoliberale, di ogni «statualismo» e «nazionalismo» di sinistra è oggi davvero preziosa in Europa – così come la loro insistenza sulla necessità di tenere aperta la «questione europea» pur criticando a fondo l’Unione europea «per come esiste oggi». E trovo condivisibile la loro insistenza sull’importanza, nella prospettiva di una reinvenzione dell’«internazionalismo», di un lavoro sulle norme e sulle istituzioni del «comune».
Se Dardot e Laval criticano tuttavia con qualche ragione gli approcci «economicistici» alla crisi contemporanea in Europa, a me pare che il loro approccio sconti un «riduzionismo» di segno opposto – finendo per nutrire una teoria della «pura politica», dove il riferimento alla democrazia appare svuotato di ogni determinazione materiale. È un problema che si potrebbe discutere a lungo anche in riferimento al libro (pur bello e importante) da loro dedicato a Marx. Non ve n’è qui lo spazio.
Basti dire, per concludere, che la teoria politica di cui abbiamo bisogno oggi – come esito di un lavoro collettivo in cui Dardot e Laval sono interlocutori fondamentali – deve a mio giudizio necessariamente essere articolata con una nuova critica dell’economia politica. Letta in una chiave politica, e rinnovata a fronte dell’attuale realtà del capitalismo, una categoria «antica» – quella di lotta di classe – potrebbe mettere al riparo da ogni rischio di «riduzionismo», tanto «economico» quanto «politico».