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Anna Minton
Olimpiadi: la privatizzazione di ogni spazio
25 Gennaio 2012
Spazio pubblico
Governi di destra, ma non solo loro, confermano anche con l’Evento per eccellenza la propria furia ideologica liberista. The Guardian, 24 gennaio 2012 (f.b.)

Titolo originale: The London Olympics: a festival of private Britain - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

I responsabili dell’organizzazione di Londra 2012 ribadiscono spesso quanto i giochi olimpici di quest’estate siano in grado di lasciare un’eredità del nostro tempo tale da rivaleggiare con quella della Grande Esposizione nel 1851 o del Festival della Gran Bretagna cento anni più tardi. La Grande Esposizione ci ha lasciato musei come il Victoria and Albert, quello di Storia Naturale o della Scienza. Il Festival del 1951 ci ha lasciato il Royal Festival Hall, uno dei più begli edifici pubblici del paese. Eventi straordinari del genere sono un’occasione per verificare lo spirito del tempo, valutare la condizione della società e della democrazia. Come mostrano le recenti crisi, gli scandali, c’è qualcosa che non va nel nostro sistema politico, e nulla lo conferma con più evidenza dei giochi olimpici. Nel 2009 nel mio Ground Control ho descritto le conseguenze della crescente privatizzazione delle città, modello degli anni di crescita economica a base immobiliare e debitoria (si vedano i vari contributi della Minton anche su queste pagine n.d.t.). Un meccanismo iniziato col progetto dei Docklands negli anni ’80, e che col progetto delle Olimpiadi ha raggiunto l’apogeo.

La logica economica sottesa, è che tutte le risorse necessarie sarebbero state raccolte dal privato. Ma con la crisi finanziaria non si è più stati in grado di ottenere prestiti, e così ci ha dovuto pensare il governo ai Giochi, aumentando il contributo pubblico di oltre sette miliardi di euro: il triplo dell’originale. Secondo i calcoli della commissione della Camera dei Comuni, il contributo dei privati alla fine è stato inferiore al 2%. Ma nonostante questo intervento pubblico, Londra 2012 non lascerà in eredità nessun segno di spirito pubblico paragonabile a quelli del 1851 e 1951. Al contrario le trasformazioni saranno totalmente private, e rivendute pezzo a pezzo al miglior offerente. Il Queen Elizabeth Olympic Park – si tratta del primo nuovo parco in Gran Bretagna da oltre 150 anni – non sarà gestito dalla pubblica Royal Parks Agency, ma dai privati; e tutti gli spazi al suo interno, dal villaggio olimpico ai vari impianti, saranno pure privati. Almeno questa sarebbe l’intenzione, anche se la disfatta nella cessione dello stadio pare dimostri la fragilità di questo tipo di accordi.

Poi, l’offerta da un miliardo e duecento milioni di euro del Wellcome Trust, per acquisire Parco e villaggio olimpico, e realizzare una “Silicon Valley Europea” – più due università, museo, case economiche, 7.000 posti di lavoro – è stata respinta dall’Olympic Park Legacy Company. Perché non dava garanzie al contribuente. Adesso il villaggio è stato ceduto a un consorzio guidato dalla famiglia reale del Qatar. Poi c’è l’aspetto, spesso tirato in causa, delle case. Nel progetto di massima del parco olimpico si promettono 11.000 nuovi alloggi. Alla fine non si sa quanti esattamente ne verranno realizzati, l’unica cosa certa è che col villaggio olimpico nel 2013 ne sono garantiti 3.000, metà dei quali di tipo economico. E la definizione di cosa sia una casa economica è tutt’altro che chiara e univoca. Praticamente impossibile da fissare una volta per tutte da quando lo stato non costruisce più le case popolari, e social housing sta solo a significare con sostegno pubblico. Con gli interventi del governo di coalizione gli enti per le case economiche possono arrivare sino all’80% dei prezzi di mercato anche per il social housing, ovvero lo mettono fuori portata per gran parte degli abitanti dell’area olimpica, dove ci sono alcuni dei quartieri più poveri del paese.

Poi c’è la questione del sostegno locale al progetto, che è sempre stata essenziale in tutte le Olimpiadi. Nel 2004, Lord Coe, presidente del Comitato, l’allora sindaco di Londra Ken Livingstone, e John Biggs, vicepresidente della London Development Agency, firmarono un “Impegno Etico Olimpico” con le amministrazioni locali, dove si davano garanzie in termini di posti di lavoro, formazione, casa, e la promessa che almeno il 30% dell’occupazione creata coi cantieri sarebbe stato destinato agli abitanti. Dopo l’assegnazione a Londra nel 2005, l’Olympic Delivery Authority ha rifiutato di onorare l’impegno, con la scusa di essere stata istituita solo dopo la firma del patto. E così la vera eredità olimpica finisce per essere un lungo rosario di accordi saltati e promesse non mantenute da parte di un intrico di enti e imprese. La forte componente di spirito pubblico si sarebbe potuta mantenere solo se l’idea di “bene collettivo” avesse ancora qualche senso nel dibattito politico odierno. Invece tutto è silenziosamente scomparso dagli accordi nel 2004, specchio dell’invasione da parte del mercato del concetto di bene pubblico, del tutto escluso dalla politica. Se gli eventi simbolo rispecchiano le condizioni della società e della democrazia, queste Olimpiadi non sono né sono mai state, in grado di replicare lo spirito pubblico del 1851 o del 1951.

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