Nei primi anni’60, abitavo in un piccolo comune della Brianza lecchese, che come tutti gli altri a quel tempo aveva i suoi individuabilissimi angolini di edilizia moderna di varia iniziativa pubblica. La mia casa, come mi spiegò una volta vagamente la mamma, veniva da tale “piano Tupini” non meglio identificato. Poi, separate da qualche ettaro di orti, dalle case operaie di une delle ubique tessiture, dalla trafficatissima Statale 36, c’erano le mitiche “canfanfan”.
Mitiche perché avevano un nome conosciuto a tutti, al punto da essere storpiato da ragazzini e analfabetismo diffuso. Mitiche perché avevano un aspetto immediatamente riconoscibile, anche quando le vedevi per la prima volta e in un altro comune. Mitiche perché, come avrei scoperto molto, ma molto dopo, quel mito era stato costruito a tavolino, studiando per bene i polli a cui andava propinato: inaugurazioni col prete in alta uniforme, controllo “morale” prima durante e dopo sugli occupanti, una riconoscibilità che nonostante tutto non le faceva spazi estranei, come invece succedeva anche in quei posti microscopici con le altre case popolari. Quelle mica erano case popolari, erano le “canfanfan” e ci si poteva andare a giocare senza paura di finire all’inferno.
Mi sono tornate in mente, queste cosucce banali, durante le varie recenti puntate del dibattito sull’esternazione di Fuksas a proposito della nuova frontiera della casa economica. Ovviamente non è un caso che l’architetto romano ripeschi proprio “quel” piano, e credo lo faccia esattamente per i motivi di cui sopra: ha avuto un’ottima pubblicità, a suo tempo e più tardi, ha dei caratteri fortemente “populisti”, pur temperati da altri elementi di indubbia qualità, ed è stato seguito da altri, forse più ampi e positivi programmi, che volutamente o meno non ne hanno colto questi insegnamenti.
In altre parole, niente da obiettare se si osserva come fa Salzano, che Fuksas e altri tendono a sorvolare la "ben più compiuta strategia delineata, a partire dalla legge 167/1962 (quartieri integrati nell'ambito delle zone d'espansione del PRG), con le successive leggi per la programmazione dell'edilizia abitativa pubblica, per il recupero dei quartieri e delle case degradate e sottoutilizzate, infine per il controllo del mercato privato (equo canone)". Molto da obiettare invece quando si liquida tutto questo come “ignoranza”. Quello che certamente gli architetti interessati a proporre grandi programmi per la casa economica non ignorano, né possono ignorare, è l’assoluta necessità di recupero della comunicazione, ormai strumento indispensabile al punto che i grandi nomi dello star system (ormai anche delle stelle di media lucentezza) sono figure assai più vicine a esperti/e di pubbliche relazioni che non a un vero e proprio coordinatore di progetto. Né possono ignorare, come non lo ignora la totalità del grande pubblico, il ruolo di spauracchio che da quasi trent’anni sono andati assumendo i quartieri di edilizia sovvenzionata in tutto il mondo. C’è tutta una smisurata e ripida china da risalire, dal punto di vista dell’immagine, che nel terzo millennio è spesso più sostanziosa dei materiali da costruzione.
E non importa nulla, o quasi nulla, se i dati, i riscontri reali ecc. dimostrano quanto ci siano altre “strategie delineate e compiute …”: senza una adeguata e buona comunicazione, tutti continueranno a pensare: però, che belle le “canfanfan”, vorrei abitarci anch’io, invece che in questa Tupina qualunque!