La Lega si sente vincente, il centro sinistra perdente. Non contano i numeri, i confronti, conta il clima. Baldanza da una parte, mestizia e timidi distinguo dall’altra. Ma quando si entra nel merito delle ragioni e si affronta il caso più bruciante, quello emiliano, c’è un’analogia che nella sua condivisone da destra e da sinistra stupisce un po’. La Lega vince, si legge in questi giorni, perché si comporta come i vecchi comunisti (temo profondamente offesi dal paragone) va nelle case, nelle piazze, sta nel territorio. C’è della verità, è indubbio, ma a patto di fermarsi alle strutture organizzative, alle forme di consenso. Importanti si sa, ma oggi questione di apparati, di marketing. Così si corre il rischio di confondere gli espedienti comunicativi con i contenuti della comunicazione.
I comportamenti elettorali hanno indicato cosa chiede la società, anche i grillini e gli astenuti oltre ai leghisti. Non trascuriamo trascinati dalla tracotanza della Lega le altre componenti. Perché se è vero che nell’attimo contingente è la Lega lo spauracchio con richieste che arrivano fino a Bologna, per uscire dalla torbidità bisogna capire quali messaggi queste elezioni hanno inviato. Che pur con linguaggi diversi e progetti contrapposti, scaturiscono dalla matrice territorialista.
Figli del malessere a cui la politica non ha dato risposta, cercano soluzioni a partire dal vissuto: lavoro, casa, famiglia, sobrietà, sicurezza, socialità. Chiedono luoghi meno inquinati e congestionati, amano il verde, l’ecologia, i prodotti naturali, l’agricoltura di prossimità, le energie alternative. Chiedono autodeterminazione, potestà di controllo e decisione, autogestione delle risorse collettive. Credono nell’idea di comunità, chi in chiave premoderna, tribale, chi nella sfera delle reti cibernetiche. Concordi nella critica alla globalizzazione puntano alla valorizzazione del locale. Rifiutano il modello della crescita quantitativa.
Questo il ‘comune sentire’ dei movimenti che hanno votato Lega e Cinque Stelle. Divaricato nelle proposte, ma affondato nelle emergenze che la società da tempo soffre e segnala. Che non hanno trovato attenzione se non in blande retoriche cui non sono seguite prassi coerenti. E che, se non vuole confondere popolo e populismo, la politica deve soppesare. Chi si è astenuto ha urlato di essere stanco di cambiamenti solo di lobby, di alternanze di bandiere che non modificano gli indirizzi di fondo. Non qualunquismo dunque ma rabbia, dichiarazione politica. Risposta al tradimento del mancato ascolto.
Tornando ai vecchi comunisti evocati a modello, erano vincenti quando forti della speranza in un mondo di uguaglianza e fratellanza. La diversità poggiata sui contenuti, sul programma. Da cui traevano la passione della militanza. Un proselitismo sulle idee non sulla mole di propaganda. Su quell’esempio per porsi come alternativa bisogna riempire la scatola vuota del programma, ritrovare l’orgoglio della diversità, farsi interpreti dei bisogni e desideri che la società manifesta.
Chiarire dunque innanzitutto cosa si intende per sviluppo e con quali strumenti e compagni di viaggio perseguirlo. L’Emilia-Romagna è stata esperimento di un progetto economico alternativo di successo. Non rivoluzionario ma ben radicato nel territorio, a coglierne aspettative e potenzialità. Schema non riproducibile, il mondo è cambiato non si può non tenerne conto. Ma bisogna capovolgere il cannocchiale e anziché dalla sudditanza al globale e dagli imperativi della crescita senza preoccupazioni sociali, partire dalla ricchezza che la territorialità può esprimere. Guardare oltre insomma, dove il sentir comune indica, sapendo cogliere le proposte con l’umiltà che la sconfitta suggerisce.