È destinato a cambiare il corso della politica italiana l’allarme lanciato da Romano Prodi sul rischio di una «moderna e pericolosissima dittatura della maggioranza e del suo premier». Diretta conseguenza, ha detto il leader dell’Unione, della riforma della Costituzione imposta dalla Casa delle libertà, «che crea un rischio grave e imminente per la nostra convivenza democratica e contro cui il centrosinistra si batterà in ogni modo». Cambia la politica che abbiamo conosciuto fino a ieri, perché fino a ieri nessun capo dell’opposizione si era espresso in termini tanto drammatici nei confronti di questo «assalto alle istituzioni più preziose del paese, a partire da quella più amata, la Presidenza della Repubblica». Unanime sul documento Prodi cambia anche la qualità dell’opposizione. Accresce la propria forza d’urto contro lo stravolgimento della carta fondamentale dei diritti e dei doveri avendo essa compreso che dalla dissoluzione dell’unità nazionale, dalla limitazione delle istituzioni di garanzia, dalla fine del pluralismo dell’informazione radiotelevisiva è il ruolo dell’opposizione stessa ad essere mortificato e compresso.
Ma è dalla reazione rabbiosa e insultante della maggioranza che meglio si capisce quanto Prodi abbia colto nel segno. Lo stanno accusando di tutto, perfino di essere un «tupamaro» (Vito), di alimentare la «violenza» (Volontè) mentre l’equilibrato Follini gli mette addosso il «passamontagna» alludendo forse alle Br. Che simili farneticazioni giungano proprio dai cosiddetti moderati del Polo la dice lunga sulla vera natura degli Harry Potter del centro, tutti casa (delle libertà) e chiesa
Pettinati e infiocchettati quando si tratta di indossare la maschera dei berluscones saggi e per bene. Sempre disposti, su ordine del capo, a votare tutte le leggi Previti di questo mondo, a digerire, per opportunismo, qualsiasi negazione delle regole democratiche venga loro propinata.
La denuncia di Prodi serve poi a demistificare, una volta per tutte, la leggenda metropolitana dell’intesa obbligatoria tra i poli. Accordo che in un qualunque sistema bipolare, quindi di fisiologica contrapposizione, diventa possibile, e auspicabile, davanti a questioni vitali per la difesa dello Stato, come per esempio la lotta al terrorismo o le grandi scelte di politica internazionale. Su tutto il resto, fermo restando che la dialettica anche aspra tra maggioranza e opposizione rimane la via maestra di una democrazia sana, il compromesso può starci. Purché sia veramente compromesso, e cioé accordo raggiunto con reciproche concessioni, e non cedimento di una parte alla tracotanza dell’altra parte.
Prendiamo il ruolo dell’Italia nella vicenda irachena. Prendiamo l’ultimo drammatico segmento di questa storia che coincide con l’uccisione di Nicola Calipari e la liberazione di Giuliana Sgrena. Poche ore dopo la sparatoria sulla strada per l’aeroporto di Baghdad, l’«Unità» ha riconosciuto l’impegno profuso dal governo italiano per arrivare al rilascio della giornalista del «manifesto». L’atteggiamento tenuto dal presidente del Consiglio subito dopo quei tragici accadimenti, con l’immediata convocazione a palazzo Chigi dell’ambasciatore americano, ci ha fatto scrivere che, almeno per una volta, Berlusconi si era comportato da statista. Il clima di condivisione ha fatto sì che il successivo dibattito parlamentare fosse improntato al riconoscimento reciproco: avere agito tutti con senso di responsabilità. Subito, il coordinatore di Forza Italia Sandro Bondi propone «una strategia concordata sul futuro dell’Iraq, a prescindere dal giudizio iniziale sulla guerra». Aggiunge che la prima occasione può essere il voto sul rifinanziamento della missione italiana, lunedì prossimo alla Camera. Davvero una bella «strategia concordata» quella proposta da Bondi: il centrosinistra vota a favore (o si astiene) sulla missione italiana in Iraq e, in cambio, rinuncia a porre la questione della guerra sbagliata (magari affermando che si è trattato di una guerra giusta visto che ha portato il paese alle elezioni anche se era stata dichiarata per trovare le armi di distruzione di massa). Già che ci si trova l’opposizione potrebbe fare qualcosa di più. Ammettere finalmente che quella dei nostri soldati è una missione di pace in un paese in guerra (è una bugia, un controsenso ma è servito ad aggirare la Costituzione vigente che ripudia la guerra come mezzo di offesa o di risoluzione della controversie internazionali). Oppure, un’opposizione, realmente costruttiva e concorde, potrebbe smettere di domandarsi cosa ci stanno a fare i soldati italiani in Iraq, trincerati da mesi nel deserto di Nassiryia. E se, infine, volesse dare un segno veramente tangibile del nuovo spirito bipartisan l’opposizione potrebbe partecipare al massacro di Giuliana Sgrena, sostenere (come fanno gli esponenti e i giornali della maggioranza) che è lei (e non la guerra sbagliata) la vera causa dell’uccisione di Nicola Calipari.
Certo che il governo Berlusconi si sgancerà dalla guerra sbagliata. Ma lo farà a tempo debito, magari alla vigilia delle prossime elezioni politiche quando vorrà andare all’incasso completo dell’operazione per poter dire agli italiani: vedete come siamo stati bravi, fedeli all’alleanza con gli Usa e, nello stesso tempo, premurosi con i nostri ragazzi? Mentre l’opposizione, se non si sarà piegata, se non avrà chiesto scusa, sarà indicata come antiamericana, antipatriottica, comunista. Proprio come sta accadendo a Romano Prodi, paragonato a un terrorista soltanto perché pretende