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Maria Pia Guermandi
Note a margine di un programma marginale
12 Aprile 2006
Maria Pia Guermandi
Pletorico, generico, troppo o troppo poco sbilanciato su certe posizioni...

Pletorico, generico, troppo o troppo poco sbilanciato su certe posizioni: comunque lo si consideri il programma dell’unione è divenuto nelle ultime settimane oggetto di commenti infiniti. Limitatamente allo specifico ambito (i beni culturali) cui è riservata questa nota, non mi annovero fra i detrattori ad oltranza, soprattutto perché preferisco piuttosto una sospensione di giudizio in considerazione del carattere del tutto prevalente di opportunismo elettoralistico che occorre riconoscere al documento e che nell’hinc et nunc della nostra situazione politica era inevitabile. Durante l’elaborazione, consigli e suggerimenti gli estensori del programma ne hanno ricevuti moltissimi, a partire dall’opuscoletto dell’onorevole Melandri (recensito più dell’ultima opera di Saramago).

Fin dalla prima lettura, poi, le critiche hanno preso di mira la genericità dei contenuti, per la verità non particolarmente eclatanti per novità di proposizione (ma non è tempo per coups de théatre e alcune linee guida ben argomentate e ispirate ad una visione complessiva chiaramente delineata, sarebbero state più che sufficienti). Si poteva pretendere di più? Sicuramente, ma è anche vero che c’è tempo per migliorare e proprio in questa direzione e con le cautele sopra richiamate, qualche spunto di lettura per favorire la discussione su eddyburg, proviamo a lanciarlo.

Esercizio di esegesi semiologica prima che semantica, ricollegato all’assunto che una parte del senso si nasconde nel non detto del testo, ovvero, come direbbe Derrida, nei vuoti tra le parole, nei significati sottintesi ai segni, nei silenzi. Ma prima del testo, il contesto. A partire dalla collocazione: in fondo (ma concediamogli il beneficio del “last, but not least” o, più verosimilmente, del ‘beati gli ultimi perchè saranno i primi’...), come a rispettare una gerarchia mentale della politica ormai trasversalmente radicata. A ‘La ricchezza della cultura’ nel suo complesso vengono riservate una decina di paginette, mentre al patrimonio culturale, nello specifico, 3: in tanta sintesi, inevitabili le critiche di lacune e omissioni (e invero per lo meno trascurati, per usare un eufemismo, appaiono interi settori e istituzioni culturali, biblioteche e archivi, tanto per non far nomi).

Rattrista poi la pigrizia intellettuale leggibile nella riproposizione dell’accorpamento beni culturali – spettacolo – sport introdotta da Veltroni e destinata a rimanere, in tutti questi anni, una giustapposizione incapace di apportare alcuna sinergia significativa. E stucchevole per non dire indigesta soprattutto a chi opera nel settore, la retorica del ‘riportare la cultura (genericamente intesa) al centro del quadrante del Paese’ (pag. 269). Che si operi verso un’inversione di tendenza rispetto all’attuale governo è evidentemente più che auspicabile, ma per agire in senso risolutamente alternativo occorrono un chiaro progetto complessivo d’insieme e una definizione altrettanto certa delle risorse da mettere in campo: probabilmente troppo da richiedere ad uno strumento come questo improntato, forse un po’ troppo scopertamente, sull’ottica pubblicitaria del tutto subito e ‘a gratis’. Però il rischio è che se da un lato si rinnega a gran voce la logica mercantilistica dell’equazione ‘beni culturali come petrolio’, dall’altro affermare che ‘la cultura è una fonte unica e irripetibile di sviluppo economico’ e ‘porta evidenti benefici all’industria del tempo libero e del turismo’ (pag. 269) appare tutt’al più un esercizio di eleganza verbale.

Per quanto riguarda la parte introduttiva in ambito culturale, d’altronde, il nesso chiave appare quel ‘distretto culturale’ di troppo evidente conio da ‘distretto produttivo’ per non indurre in cattivi pensieri. E del resto cosa significhi questo new deal della bellezza per citare il testo della Melandri, ce lo spiega molto bene lo stesso ex-ministro: ‘un grande progetto per rendere il tu rismo una carta vincente e unica’ (Panorama, 2 marzo 2006). Concediamo quindi che vi sia, nel nostro schieramento, un ondeggiamento ancora da chiarire fra visione economicista e visione costituzionalista, nel senso ineccepibilmente fornito in una sentenza della Corte Costituzionale (151/1986), laddove non solo si sancisce che il valore estetico culturale non può essere ‘subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici’, ma addirittura deve poter ‘influire profondamente sull’ordine economico-sociale’.

Intendiamoci, come ci esorta l’ex ministro Melandri, non è il momento di fare gli schizzinosi o i puristi, insomma quelli per cui l’arte è al di fuori di qualsiasi meccanismo economico. E del resto, che il nostro patrimonio sia comunque letto come funzionale allo sviluppo del settore turistico anche dai nostri auspicabilmente futuri governanti, ci pare affermazione di tale scontata evidenza da non poter essere rimessa in discussione: basterebbe però, allora, interrogarsi caso mai su quale modello di turismo si voglia puntare, avendo ben chiaro il lapalissiano assunto che se è il nostro patrimonio culturale e paesaggistico – irriproducibile ed irrisarcibile - il motore primo del nostro successo turistico, il meno che si possa fare è salvaguardarlo al meglio, affinchè frutti il più a lungo possibile.

Al di là di queste considerazioni di sapore amarognolo, però, qualche elemento positivo si può recuperare, a partire dalla chiara volontà di ampliamento delle risorse da mettere in campo, così, ad esempio, viene chiaramente espresso (pag.270) l’obiettivo di ricondurre l’impegno finanziario pubblico al livello previsto per il 2001 e quindi dallo 0,5 all’1% del PIL (un po’ poco per riportare la cultura al centro del quadrante del paese, ma indispensabile per restituire quel minimo di ossigeno a strutture ormai asfittiche). Personalmente trovo largamente positivo anche il reiterato accenno (pag. 272) alla necessità di un superamento della dicotomia tutela / valorizzazione che pare prefigurare una revisione della riforma (mai a sufficienza criticata) del titolo V; in questa direzione pare allinearsi anche l’affermazione che propugna ‘l’estensione delle funzioni di tutela a livello di governi territoriali’. Pur in una formulazione resa ambigua dalla forzata sintesi, viene qui ribadita la volontà di superamento di quella contrapposizione stato-regioni che ha caratterizzato in maniera crescente questi ultimi anni in un contenzioso in cui l’unico vero perdente è sicuramente il nostro patrimonio culturale nel suo complesso. Del tutto opportuno, quindi, il tentativo di impedire il replicarsi paranoico di questo corto-circuito perverso per cui, come ha ben sintetizzato Marco Cammelli (‘Diritto Pubblico’, 1, 2002): lo Stato produce regole senza fatti e le regioni producono fatti senza regole. La collaborazione Stato-Regioni non deve essere letta come un vezzo federalista , ma come una scommessa istituzionale obbligata che va guidata, ‘blindata’ attraverso regole e garanzie di alto livello, anche costringendo le regioni a riassumersi quel ruolo di programmazione e coordinamento che negli ultimi lustri hanno troppo spesso preferito delegare ad altri enti locali.

Altrettanto positivamente non può che essere accolto il ritorno al concetto di ‘conservazione preventiva e programmata’ (pag. 272) teorizzato da Giovanni Urbani in anni passati, ma di inalterata attualità.

Per concludere con lo spirito construens che caratterizza eddyburg, provo a mia volta a suggerire alcune indicazioni per il programma che verrà (quello vero), senza pretese di straordinaria invenzione; d’altronde alcuni imprescindibili passaggi sono ormai stati reiterati, da studiosi e operatori del settore, fino alla noia, nella discussione che, pur in maniera frastagliata e disomogenea, si è venuta a creare in tutti questi mesi e che, in questo ambito, ha trovato (complice l’elaborazione prima e gli emendamenti poi al nuovo Codice) nuovo vigore e ricchezza di voci e posizioni (v., per una prima rassegna, www.patrimoniosos.it).

In generale l’asse principale cui vorremmo ispirata la politica culturale del centro-sinistra dovrebbe essere l’erogazione di servizi culturali al cittadino senza fini di lucro perché di interesse pubblico, che incentivino la partecipazione sociale e in grado di ottenere fra le maggiori ricadute positive, oltre a quelle economiche connesse all’attività turistica, altre di non minore importanza sociale, quali il ‘controllo’ della disoccupazione giovanile e dell’esproprio della città ai cittadini.

In questa direzione, prima operazione fra tutte, sarà quella mirata al riequilibrio delle risorse del Ministero, snellendo un centro scarsamente giustificabile nelle sue articolazioni bizantine e potenziando il più possibile strutture e attività sul territorio, anche conferendo ad esse forme di autonomia organizzativa e contabile (a tali fini non trovo inutili, anche se da ripensare, le direzioni regionali, al contrario vivacemente criticate da molta parte della sinistra con motivazioni, a mio parere, non inoppugnabili).

Occorrerà poi imparare a fare delle gerarchie, dei programmi in cui le priorità, condivise fra più attori, siano però chiarissime su tutto il territorio e regione per regione. Uno dei problemi che hanno caratterizzato questi ultimi anni di gestione del patrimonio, dilatato a dismisura dall’ipertrofia che ha conosciuto il corpo centrale del Ministero e le sue direzioni consiste proprio nel rincorrersi, duplicarsi, sovrapporsi di progetti e ricerche del tutto simili per ambito tematico e per finalità, reiterati dalle varie direzioni, spesso in contrapposizione fra di loro e con sperpero di tempi e risorse non più accettabile. Così, sul piano di un allargamento delle risorse, come ha più volte ribadito in particolare, Salvatore Settis (da ultimo in Battaglie senza eroi. I beni culturali tra istituzioni e profitto, Electa, 2005, passim) si dovranno introdurre non più in maniera episodica, ma sistematica, provvedimenti di defiscalizzazione che incentivino le donazioni, mentre assai opportuna potrebbe risultare una revisione della normativa sulle fondazioni bancarie.

Grandi assenti del programma risultano i musei. Fra i più numerosi sul territorio in Europa e nel mondo, fra i meno visitati, fra i meno fruibili, i nostri musei, nella grande maggioranza, non esprimono una visione chiara e palese della propria missione culturale, né della politica culturale che intendono perseguire; mentre note a tutti risultano le scarse capacità progettuali della media delle nostre istituzioni museali. Ora di fronte alla tendenza sempre più dilagante di un loro utilizzo strumentale che, in contrasto con la risaputa scarsità di risorse, tende a sollecitare nuove aperture e faraonici progetti, bisognerà porsi seriamente il problema della funzione culturale e sociale dei nostri musei nel tempo: che senso ha ostinarsi nell’apertura di strutture destinate, in breve volgere d’anni, all’abbandono? Meglio concentrarsi su ciò che può essere recuperato per divenire un servizio (ai cittadini, oltre che ai turisti…), puntando a sistemi più efficaci proprio sul piano culturale prima che economico (nessuna istituzione museale, in nessuna parte del mondo, è in grado di sostenersi esclusivamente con i propri introiti).

Infine, perché davvero, come recita il programma dell’unione, ‘la rinascita culturale divenga strategia per la crescita’ rimane ancora non solo da vincere, ma da combattere la prima di tutte le battaglie: in uno degli ultimi rapporti Censis sull’industria culturale la situazione italiana era così descritta: “i bisogni culturali stentano a trovare una cittadinanza anche a livello istituzionale (…) la soddisfazione dei bisogni culturali primari è demandata alle agenzie educative e scolastiche ma, al di fuori di tale ambito di diritto e di dovere (…), la cultura resta un bisogno privato, soggettivo, quasi voluttuario, senza alcun valore collettivo, un valore esterno all’area della responsabilità sociale”. In più occasioni il nostro Presidente della Repubblica ad esemplare commento dell’articolo 9 della Costituzione, oltre a sottolinearne il carattere assolutamente innovativo rispetto ad altre Costituzioni, ne ha ribadito il ruolo di principio fondamentale della nostra comunità, segnalando, con grande incisività, che ‘la tutela, dunque, dev’essere concepita non in senso di passiva protezione, ma in senso attivo e cioè in funzione della cultura dei cittadini, deve rendere questo patrimonio fruibile a tutti’ (discorso ai benemeriti della Repubblica, 5 maggio 2003).

In questa direzione il lavoro da fare è immenso e appare come una sfida per affrontare la quale serviranno strumenti non comuni. Così, se da un lato occorre acquisire, a partire dal livello politico, una logica della manutenzione continua, imprescindibile base sulla quale fondare tutto il resto occorrerà, però, anche il coraggio di affrontare grandi operazioni culturali. In questo senso non mi ritrovo fra i detrattori (assolutamente prevalenti a sinistra) della società ARCUS: come del resto il programma dell’Unione segnala (pagg. 270 e 273), questo organismo va del tutto riorganizzato, ma un’agenzia che sia in grande di sovrintendere ad opere e progetti di particolare interesse e complessità sul territorio nazionale può avere un’utilità non marginale.

Un esempio a caso? Il progetto fori, buco nero dell’urbanistica capitolina (v. per tutti, su eddyburg, De Lucia) come operazione di rilancio dell’area archeologica forse più famosa al mondo e come volano straordinario di ripensamento della forma non solo urbis ma civitatis.

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