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Ida Domijanni
Non stiamo fermi
10 Agosto 2010
Articoli del 2010
Prosegue il dibattito sulla questione del giorno: come uscire dal regime berlusconiano senza cadere nel pantano? Il campo è pieno di mine, disseminate da tutti. Il manifesto, 10 agosto 2010

Non ho nessuna difficoltà a retrodatare di trent'anni, come chiede Alberto Asor Rosa sul manifesto di domenica, la crisi di sistema che attanaglia l'Italia, se per «crisi di sistema» intendiamo la lunga transizione dalla (cosiddetta) Prima Repubblica a non si sa ancora che cosa, transizione che si è aperta a mio avviso non con Tangentopoli ma con la morte di Moro e tutto quello che di sociale, politico e statuale ne fu coinvolto e travolto. Non è però in questo senso largo che ho parlato, nell'articolo del 31/7 che Asor gentilmente cita, di crisi di sistema. Mi riferivo, in modo più circoscritto, alla crisi di sistema politico che si è aperta con la rottura del Pdl, e che a mio avviso chiude non il trentennio ma il quasi-ventennio che abbiamo alle spalle. Chiude, più precisamente, la risposta che alla crisi del trentennio ha dato l'assetto politico della (cosiddetta) Seconda Repubblica, un assetto caratterizzato dal bipolarismo forzoso di impronta berlusconiana: dal bipolarismo, cioè, nato dall'iniziativa politica con cui Silvio Berlusconi aggregò, nell'ormai lontano '94, la destra tricipite fatta da Fi, An e Lega, costringendo il fronte di centrosinistra a pensarsi e aggregarsi a sua volta come polo più o meno unitario (meno, a causa della sua differenziazione e/o rissosità interna). La successiva torsione bipartitica e bileaderistica Pdl-Pd è stata una variante esasperata di questo schema, tant'è vero che è il bipolarismo, e non solo il bipartitismo, a essere messo in causa oggi dalla rottura del Pdl e relativa nascita, per l'appunto, non di un terzo partito ma di un «terzo polo».

Ora è ben vero che la posta in gioco principale del bipolarismo messo al mondo da Berlusconi è stata la questione costituzionale: da una parte la destra tricipite (tutta, Fini compreso come alfiere del presidenzialismo) all'assalto della Carta del '48, dall'altra, a difenderla, gli eredi dell'arco costituzionale della Prima Repubblica. I quali, va detto e sottolineato, quell'eredità l'hanno gestita in modo a dir poco debole e altalenante: non per vocazione «inciucista», come gli rimprovera dalla Bicamerale in poi il qualunquismo di sinistra, ma per una imperdonabile sottovalutazione dell'attacco berlusconiano ai fondamentali della democrazia, per una scarsa cultura dello Stato di diritto (garantisti non ci si improvvisa), per le continue oscillazioni strumentali sul rapporto fra legalità e politica, per la totale rimozione del nesso che lega, nella nostra Costituzione, questione sociale e assetti istituzionali, per la mai acquisita concezione della laicità dello Stato, e non ultimo per la disinvolta accettazione del rovesciamento operato dalla Lega fra questione meridionale (intesa come questione di eguaglianza nazionale) e questione settentrionale (impugnata come questione di egoismo glocale). E' la storia di questo quasi-ventennio e, in larga parte, della debolezza politica del centrosinistra, della sua difficoltà a riconoscere e a contrastare il «regime» di Berlusconi, dei suoi annodamenti su questioni di lana caprina come quelle sul tasso di antiberlusconismo consentito.

Domanda, la prima delle quattro che vorrei, in amicizia, rivolgere ad Asor Rosa: è a questo stesso arco di forze, a questa stessa generazione politica, a questi stessi eredi alquanto scapestrati del patto del '48 che dovremmo affidarne il rilancio in un «governo di ricostruzione democratica»? Non militano a favore di una risposta positiva le varianti minori - per così chiamarle e senza offesa per nessuno - della sua proposta già in circolazione: novelli Cnl, governi «di liberazione da Berlusconi» e simili, che più che alle intenzioni alte e giuste di Asor Rosa sembrano ispirarsi al principio romanesco dello 'ndo' cojo cojo, da Bossi a Tremonti a Fini purché faccia maggioranza. E a proposito, seconda domanda: dal governo di ricostruzione democratica Asor Rosa esclude, per ragioni del tutto condivisibili, la Lega e Tremonti. Fini invece ne farebbe parte? Posta in altri termini: l'iscrizione di Fini all'arco costituzionale del '48 può considerarsi avvenuta con il suo strappo da Berlusconi? la sua attuale difesa della legalità in funzione anticorruzione cancella il suo silente assenso all'uso dell'illegalità in funzione d'ordine pubblico a Genova 2001? e fra le leggi nefaste da cancellare d'urgenza non ci sarebbe magari, per il governo di ricostruzione democratica, anche la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi? Può darsi che Fini sia davvero diventato, come larga parte della stampa di sinistra sostiene, il baluardo della Costituzione; personalmente sentirei il bisogno di sospendere il giudizo, non foss'altro che per gli evidenti risvolti simbolici che la questione assume per la storia e l'autocoscienza nazionale.

Le mie domande però non si fermano qui. Perché la questione costituzionale, o che è lo stesso la questione democratica, pur essendone gran parte non esaurisce la materia che la «crisi di sistema» di oggi ci mette davanti. In primo luogo: se è vero, come dicevo poco fa, che nella cosiddetta Seconda Repubblica l'attacco alla Costituzione si è avvalso del bipolarismo d'impronta berlusconiana, siamo sicuri che sia possibile, adesso, buttare la cesta e tenersi il bambino, ovvero fare oggi piazza pulita del regime berlusconiano salvaguardando per domani il bipolarismo e il maggioritario? Il ragionamento di Asor Rosa, lo dice lui stesso, sembra puntare a questo, infatti sarebbe il governo di ricostruzione democratica a dover esprimere per le elezioni di fine legislatura una coalizione e un candidato da contrapporre alla prevedibile pulsione revanchista di Berlusconi. Senonché fra questo disegno e la sua realizzabilità c'è di mezzo non solo l'eterno conflitto sulla legge elettorale (da cui, concordo con Asor, la non credibilità di governi di transizione in grado di riscriverla in quattro e quattr'otto); c'è di mezzo il terremoto, già in atto, del sistema politico e delle sigle che lo abitano. E non solo in quell'area perennemente mobile del centro attualmente occupata dal terzo polo. Realismo per realismo, su questo punto ha ragione Massimo Cacciari, quando sostiene che la frana sistemica innescata dalla rottura del Pdl allarga immediatamente le crepe del Pd, obbliga a prendere atto del fallimento della sua costruzione, delinea un ritorno alla distinzione fra due tradizioni, una cattolico-liberale una socialdemocratica. Che nessuno ci obbliga a pensare come un ritorno all'indietro, malgrado la forza d'inerzia della politica italiana spinga in questa direzione: potrebbe ben essere una costruzione in avanti, e perfino la ricostruzione di una sinistra, se solo la si nutrisse di idee e di immaginazione, la si dotasse di gambe, e soprattutto la si pensasse in rapporto al mutamento vorticoso, e da sinistra né visto né pensato, che è intervenuto nella società italiana all'ombra del berlusconismo. E mi stupisce assai che in questo quadro la candidatura di Vendola venga interpretata, da occhi pure molto avvertiti, solo come una cattiva replica tattica del berlusconismo e non anche come una mossa strategica di ridefinizione del campo della sinistra e del centrosinistra.

Per farla breve: la crisi di sistema apre una situazione di movimento, e in una situazione di movimento la prima cosa da non fare è stare fermi (come fin qui, tanto per intenderci, ha fatto il Pd). La seconda, su cui insiste giustamente Alfredo Reichlin sull'Unità di domenica, è ricostruire una ragion d'essere sociale e culturale delle sigle politiche, senza la quale qualunque gioco di riordino del campo è a somma zero. La terza - vengo all'ultimo dei punti posti da Asor Rosa - è, per usare la formula di Ilvo Diamanti su Repubblica di ieri, non avere paura delle elezioni. Non averne paura non significa chiederle, né tantomeno farne una parola d'ordine: significa non farsi paralizzare dall'ansia di evitarle, e attrezzarsi ad affrontarle. Non solo perché a mio avviso è sbagliato dare per scontata un'altra vittoria di Berlusconi: il quale lo sa, e perciò oscilla fra minacce di sfracelli e tentativi di ricucitura, appelli al popolo e manovra parlamentare. Ma soprattutto perché è nel vivo della battaglia politica che le forze in campo sono obbligate a ridefinirsi e a reinventarsi. Certo sarebbe meglio, molto meglio, se la battaglia politica fosse pratica quotidiana soggettiva e non scadenza quinquennale o biennale imposta dal Cavaliere; ma non è colpa di nessuno, o meglio è colpa di tutti, se la democrazia italiana è stata ridotta a democrazia elettorale. Non mettiamoci a invocare le elezioni come fossero il lavacro delle nostre inadeguatezze. Ma non mettiamoci nemmeno a scongiurarle come fossero il giudizio di Dio che ci condanna all'inferno.

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