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Carlo Olmo
Non chiamatele smart city
24 Luglio 2016
Per comprendere
«Dietro un’espressione ricorrente si cela molta retorica che stride con la realtà delle città oggi. L’India annuncia la fondazione di nuovi agglomerati urbani ad altissimo utilizzo di tecnologie digitali, ma i quartieri sono recintati da sbarre, frutto di un’ossessione da sicurezza»

«Dietro un’espressione ricorrente si cela molta retorica che stride con la realtà delle città oggi. L’India annuncia la fondazione di nuovi agglomerati urbani ad altissimo utilizzo di tecnologie digitali, ma i quartieri sono recintati da sbarre, frutto di un’ossessione da sicurezza». La Repubblica, 24 luglio 2016 (c.m.c.)

Il governo indiano ha di recente comunicato la lista delle prime venti città destinate a fornire un «modello replicabile che funzioni come una casa illuminata» per le altre città che aspirano a entrare in un ambizioso piano di 100 smart cities: in prevalenza città satelliti collocate in vicinanza di grandi aree metropolitane.

Una pianificazione affascinante soprattutto per una civiltà come quella occidentale, ancora ammaccata dall’aver troppo creduto alle virtù taumaturgiche della mano invisibile del mercato. Una pianificazione che aiuta anche a far emergere gli usi retorici del sintagma smart cities in Europa e negli Stati Uniti (le città intelligenti, le città che fanno grande uso di tecnologie della comunicazione, le tecnologie digitali, affidando a queste la possibile soluzione di molti dei problemi che le affliggono). Ma da quali considerazioni nasce la Smart Cities Mission indiana e cosa prevede?

Nasce dal riconoscimento della crisi di un’urbanizzazione senza piani, che ha portato all’edificazione di aree metropolitane invivibili. È cioè la parola city, nel sintagma, a dettare il punto di partenza e a definire le aspirazioni del progetto. Leggendo i programmi, scorrendo i venti progetti selezionati, colpisce come siano la qualità della vita e l’inclusione sociale i due obbiettivi fondamentali. «Dare un’identità alle città», renderle più friendly, anche attraverso scelte urbanistiche che poco appartengono alle culture indiane, come la cura nella progettazione degli spazi pubblici o l’identificazione di Urban Local Body, una contaminazione tutta da verificare tra centro storico europeo e civic center statunitense.

D’altronde le città satelliti hanno una lunga storia anch’essa tutta occidentale: dalle ottocentesche città giardino inglesi, alle Sunnyside Gardens e Redburn statunitensi negli anni venti, sino alle villes nouvelles francesi la cui edificazione inizia a metà degli anni sessanta del Novecento.

E la prima contraddizione che traspare in questa nuova accelerazione della modernizzazione indiana è la permanenza del modello culturale occidentale nelle forme di contrasto alla città diffusa, la città che si disperde nel territorio. La smart city come veicolo di una nuova forma di colonizzazione? Sarebbe un bel paradosso.

Su cosa sia smart le linee guida del governo e le scelte delle prime venti città, vanno in realtà con i piedi di piombo. Non esiste un’unica definizione di smart. Non solo: viene ricercata una via indiana alla smart city e una via federale dentro la via indiana! Mettendo così in crisi uno dei pilastri delle retoriche della smart city: la sua possibile e quasi ovvia interconnessione globale.

E il confronto ad esempio tra i progetti selezionati di Ahmedabad, Jaipur e Delhi almeno in parte conferma differenze tutt’altro che marginali. Così quando si osserva da vicino in cosa si materializzerebbero le città smart indiane, si scorgono la mobilità urbana, l’efficienza e il risparmio energetico, la gestione dell’acqua e dei rifiuti, e soprattutto la digitalizzazione dei servizi. Anche in questo caso il modello è europeo, le politiche infrastrutturali del Great London Council degli anni cinquanta.

Tre indizi ulteriori emergono da questo ambizioso e, per certi versi, straordinario progetto. In primis la banalità delle soluzioni architettoniche. I rendering ci restituiscono un universo architettonico omologo e banale: ennesime e ripetitive downtown. La difficoltà di passare dal piano al progetto architettonico è ancor più evidente, proprio per la scala dell’intervento: un’ennesima e davvero non auspicata conferma che oggi la cultura architettonica soffre di coazione a ripetere. Il secondo è la pericolosa vicinanza di queste città satellite alle gated communi-ties, gli insediamenti recintati e protetti da sbarre che dalla California oggi si sono diffuse in Brasile, Argentina, Cina e persino nella stessa India!

Uno degli obbiettivi dichiarati di queste smart city è la sicurezza e la ricomparsa delle mura cui stiamo assistendo in tutto il mondo, qui potrebbe trovare una declinazione smart: mura che si oltrepasserebbero, si varcherebbero con badges, naturalmente!

Certo appaiono lontani Georg Simmel e una delle più belle definizioni dell’intelligenza nelle città: la serendipity, l’incontro inatteso e creativo tra diversi. Una sfida che forse si ritroverebbe ben più frequentemente nelle vicine metropoli indiane che si vogliono risanare.

Il terzo indizio è quanto la sempre invocata partecipazione dei cittadini al progetto — modello anche questo anglo-americano — trovi proprio nella risposta tecnica — le reti — resistenza in una società, come quella indiana, segnata da diseguaglianze sociali ancora fortissime. Può essere difficile non solo per Pericle importare la democrazia a Thuri, colonia della Magna Grecia, durante le guerre elleniche, ma anche disseminarla all’interno di un paese ancora così diseguale come l’India.

Certo questo progetto fa quasi impallidire discussioni e sforzi europei e dà la dimensione, se si vuole anche solo brutalmente quantitativa, della distanza che esiste oggi tra parole e cose nel vecchio continente e, in parte almeno, anche negli Usa. E la fa ancor più impallidire se si misura la produzione di parole, che anche solo l’evocazione della dimensione smart oggi genera.

Se si accede attraverso Google Scholar alle pubblicazioni dedicate alle smart city, si può misurare la fortuna editoriale e mediatica di questo sintagma: articoli, saggi, libri con centinaia di citazioni e di testi correlati disegnano una ragnatela quasi inestricabile, spesso autoreferenziale, che parla quasi una sola lingua: l’inglese.

In realtà basta andare un minimo in profondità e si scorgono fenomeni inquietanti. Il primo è una semplificazione assai diffusa: dei rapporti tra territori e società che li abitano, delle relazioni tra accesso all’informazione e conoscenza, di concetti essenziali come innovazione o comunità. La metafora forse più emblematica di questa semplificazione è internet of things, l’internet delle cose, l’internet che mette in relazione non solo informazioni, anche oggetti.
Ma forse ancor più inquietante è il processo che tocca la scala territoriale dei fenomeni.

Smart city nasce come espressione fisica della società globale, sincronica e interconnessa: e la sua metafora, ancor più abusata, è la piazza informatica. Oggi invece le esperienze più sostenute dello smart legato a un territorio sono quelle che, giocando su un’altra grande retorica, la sostenibilità, e su una concezione di democrazia del vicinato, stanno lavorando per passare dalle smart cities agli smart villages, da una dimensione metropolitana a una molto più ridotta.

In realtà smart city rappresenta un esempio fra i più convincenti di un processo di naming without necessity (il nominare qualcosa senza che vi sia una necessità, dare un nome a cose che non esistono). Forse, come insegna la prudenza e la ricerca di declinazioni diverse nell’esperienza indiana, la parola smart evoca, non definisce, promuove (anche, ma non solo marketing, ma imprese, professioni, tecnologie), soprattutto sostituisce la necessità di raccontare fatti e persone. E la narrazione è, come hanno insegnato in modi tanto suggestivi Paul Ricouer e Jason Bruner, la forma che la mente umana ha per rielaborare e appropriarsi anche di cambiamenti traumatici, come indubbiamente è fronteggiare una credenza tanto forte e condivisa che la memoria possa quasi essere lasciata a una nuvola, a un cloud, che incrementerebbe quasi automaticamente un’intelligenza a questo punto ovviamente collettiva.

Forse uno smart che richiama troppo da vicino le battute finali del colloquio di Monos e Una nel celebre racconto di Edgar Allan Poe, in cui Monos solo una volta calato nella tomba si sente davvero rinato, vicino alla sua adorata Una. Speriamo il nostro destino informatico non necessiti di un amore necrofilo!

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