Niente di nuovo all’Ovest è il titolo di un famoso romanzo di Erich Maria Remarque. Quel titolo, non la vicenda di guerra narrata nel libro, sembra applicarsi alla condizione di questa nostra civiltà occidentale. Niente di nuovo, perché?
Quindici anni fa comparve un saggio altrettanto famoso, di Francis Fukuyama, La fine della storia. Il quale suscitò critiche e anche scherni. Con qualche ragione. La tesi centrale era che ormai il mondo dell’Occidente aveva raggiunto, nel segno della felice congiunzione della democrazia e del mercato, uno stato stabile, steady state: non statico, nel senso che nulla più si muovesse. Tutto avrebbe continuato a muoversi, ma ormai monotonicamente, in una stessa direzione: come un grande fiume tranquillo, senza quelle cascate, rapide, cateratte: insomma quelle discontinuità (rivoluzioni, guerre, massacri, avventi religiosi, rivolgimenti culturali) che fanno, propriamente, la storia. Chi si aspettava questo scenario irenico è rimasto deluso. In questi quindici anni è successo di tutto.
Eppure, in un certo senso, Fukuyama aveva ragione. È successo di tutto, in Occidente – che di questo si trattava nel libro – ma nello stesso tempo, non è successo niente. Niente che abbia mutato il senso generale, propriamente essenziale della sua marcia.
La quale è, avrebbe detto Elias Canetti, la «muta di accrescimento». Non guerre e rivoluzioni, svolte fatali che mutano la direzione della società, ma la pura e semplice crescita della ricchezza economica della società stessa. Questa è la legge, questo è il vangelo. Come legge dell’Occidente e come modello per il mondo intero.
Certo, tensioni sociali esplodono, periferie si incendiano. Ma poi si placano, in un ritorno rassicurante alla normalità. Non c’è risposta che corregga la direzione di marcia delle «democrazie di mercato».
O meglio, la risposta è la teologica imitazione di Cristo (il dio mercato) predicata dalla più intelligente, informata ironica e mercatistica rivista del mondo, l’Economist. Osservando il malumore crescente suscitato nel mondo dalla globalizzazione, essa affermava qualche settimana fa che ciò che è necessario è che, di globalizzazione, ce ne sia di più. Riferendo poi sui moti francesi con britannica esultanza (France’s failure) li ha attribuiti alla rigidità del mercato del lavoro francese, che provoca una massiccia disoccupazione dalla quale scaturisce la rivolta delle periferie; e alla resistenza opposta all’adozione del modello economico americano dove la disoccupazione è molto minore e le periferie stanno tranquille.
Insomma, l’Occidente si muove ormai a senso unico. O senza senso? Il grande fiume tornerà sempre a scorrere. O no? Franco Venturini ha scritto sul Corriere della sera un lucido articolo che si riassume nella constatazione di un «nuovo smarrimento mondiale», di un disarmo di quella Storia che si voleva morta e della necessità di riconoscere il compito vero, che è quello di «ripensare, davvero, l’Occidente».
Non sono, le periferie delle nostre città ricche e meravigliose, il luogo di una sorda inquietudine che chiede spiegazione, non solo a Parigi, ma in tutto l’Occidente? Di un "Western failure"? Non dovrebbe, l’Occidente, anziché "francesizzare" quell’inquietante fenomeno, comprendere che de te fabula narratur: che esso si inquadra in una malattia minacciosa almeno quanto quella dei polli e altrettanto priva di risposte tranquillizzanti? È davvero pensabile che la risposta al disagio sociale, tanto per fare un esempio, sia racchiusa in una scelta esaltante come quella proposta dal liberismo, di una precarietà sottopagata al posto di una disoccupazione assistita?
Il tema del tramonto dell’Occidente non è certo nuovo. Il libro di Spengler, a suo tempo, segnò un’epoca del pensiero pessimista del Novecento. Non si può dire che, concepito durante la prima guerra mondiale, non fosse seguito da catastrofi immani. Dalle quali, però, l’Occidente è rinato sotto un segno compiutamente diverso, per molti versi opposto: il segno della pace (tra i paesi occidentali non ci sono state più guerre dall’ultimo sterminio mondiale, per oltre mezzo secolo) e dello sviluppo economico (la produzione dei paesi dell’Occidente, in questo mezzo secolo, è triplicata). Dunque, la profezia di Spengler è stata falsificata.
Ma il nuovo corso non ha affatto prodotto quello stato di benessere, di felicità pubblica, che gli era sottinteso. Al contrario: il mondo delle società ricche è un mondo angosciato, frustrato, spaventato. La spiegazione più ovvia è che la ricchezza, oltre che soddisfare domande antiche, ha suscitato domande nuove, le quali generano nuove insoddisfazioni e nuove frustrazioni. La risposta dell’Occidente ricorda l’esortazione di un motto celebre: continuez continuez! E cioè, proseguite sulla strada di una crescita che corra dietro alle domande che la crescita stessa genera, in un inseguimento perenne che sembra ormai la costante di una società esposta (questo sì che è nuovo) alle minacce provenienti dal mondo esterno. Sinceramente, non sembra una risposta rassicurante.
Le tensioni generano nuovi «proletariati interni» che possono combinarsi con nuovi «proletariati esterni» creando condizioni non controllabili di disgregazione sociale. Nuovi tremendi problemi, come quello dell’immigrazione di massa, investono, dall’interno e dall’esterno, l’intera Europa. L’autocompiacenza alla quale si ispira il pensiero oggi dominante in Occidente non è una prova di pragmatica saggezza, ma di irresponsabile cecità.
Ci si deve dunque chiedere se la riflessione sull’Occidente debba limitarsi al problema evocato dai fatti di Francia – l’immigrazione e i diversi modelli di integrazione – o non debba estendersi, come è giustamente suggerito, a un ripensamento dell’Occidente sull’Occidente stesso. In questo caso, la questione dominante dovrebbe diventare l’inceppamento di quella forza propulsiva che ha proiettato l’Occidente verso il primato mondiale: e che è la coniugazione, come Fukuyama afferma, della democrazia e del mercato.
Questa formula felice sembra si sia avvitata, infatti, in un circolo vizioso. E la ragione mi sembra questa: che ambedue i fattori del successo dell’Occidente, il mercato e la democrazia, sono mezzi, non fini. I fini sono rappresentati da valori, ideologici o religiosi; oppure da un progetto laico e mondano, che tuttavia soddisfi il bisogno di senso. E l’Occidente, mentre ha smarrito i primi, non è stato capace di elaborare il secondo.
È, questa, una condizione fragile e pericolosa. Una civiltà che perde l’anima è una società già morta. Nè il mercato né la democrazia posssono sostituirla. Non è pensabile che essa si avviti in un eterno ritorno dell’eguale. In assenza di un fine mobilitante, di una tensione trascendente, infatti, essa finirà, prima o poi, per disintegrarsi sotto gli urti degli inevitabili conflitti, interni ed esterni. Di fronte a problemi come quello di integrare la nuova immigrazione di massa, è del tutto frivolo chiedersi come integrarsi, se nel modo multietnico o nel modo etnocentrico; quando il problema è diventato: in che cosa?