Costruire una new town all’Aquila, in tempi rapidi per dare una casa agli sfollati. Una città nuova, altrove, distante dalle strade dove sono crollati i palazzi, dove la gente ha vissuto, dove ha ricordi e radici. Lancia l’idea il premier Berlusconi, memore forse della «sua» Milano2, con un occhio alle new town inglesi, alle città satellite parigine. Ma l’idea non piace agli addetti ai lavori, dall’architetto Fuksas all’urbanista Gregotti. Dubbiosi anche psicologi e sociologi, capaci di leggere la trama delle esistenze urbane ricordando la storia recente che racconta di banlieu francesi diventate da sogno di città giardino a sobborghi in fiamme, come sottolinea il sociologo Duccio Scatolero che paventa proprio il rischio di nuovi ghetti. Lontani dalle città ideali immaginate nel Rinascimento e segnate oggi da edifici di scarso valore architettonico, un mondo a parte. Semplicemente un’altra periferia.
Perché qui non si crea dal nulla, come è stato per la capitale Brasilia. «Qui c’è una città con una lunga storia. Vedo difficile abbandonare, lasciare i ruderi come se fossero le rovine di Paestum e rifare tutto altrove. Anche perché le new town erano nate per altri motivi: decongestionare Londra o riorganizzare la periferia parigina», commenta Vittorio Gregotti. Un sogno comunque fallito secondo Massimiliano Fuksas. «Oggi nessuno le fa più perché non hanno dato risultati positivi, si è cercato di riprodurre l’effetto città senza successo: non sono campagna, non sono città».
Media Giuseppe Roma, architetto direttore del Censis che ricorda come ci provò De Gasperi a fare un nuovo quartiere per gli abitanti degli insalubri Sassi di Matera. «Ma la gente si ritrovò persa nel nuovo centro: troppo asettico, mancava la vita comune». Così propone di ristrutturare parte del centro all’Aquila - «perché in una città le radici sono tutto» - e costruire quartieri nuovi ma «con edifici di alto livello e qualità, non palazzoni popolari tutti uguali. E soprattutto sentendo la gente perché non sia un progetto calato dall’alto».
Parole confermate dall’esperienza di Fabio Oblach, architetto impegnato in Friuli dopo il sisma. «La gente venne coinvolta in assemblee durante le quali ragionò coi tecnici sulla riedificazione. E fondamentale fu la conservazione della memoria: se le case furono costruite un determinato posto c’è una ragione», dice contrario allo spostamento dei terremotati d’Abruzzo nella new town. Uno spostamento dai luoghi in cui la gente è cresciuta che può provocare una perdita di sicurezza, di identità ed equilibrio, secondo lo psichiatra Francesco Cro. Ma che può in alcuni casi lenire il dolore di chi non reggerebbe a continuare a vivere nei quartieri dove ha visto morire figli, amici, genitori.