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Concita De Gregorio
Nel voto di rabbia si salva il coraggio
30 Marzo 2010
Articoli del 2010
Un’analisi un po’ troppo ottimista: forse difficile andare oltre, nel giornale del PD. Ma la sottolineatura dell’unico segno positivo, in Puglia. L’Unità, 30 marzo 2010

È come una palla che rotola sul crinale di un monte, questo voto regionale, e tutti lì a guardare dove cadrà - giocatori, spettatori - tutti col fiato sospeso, tutti fermi immobili ad aspettare che sia la gravità, un soffio di vento, un capriccio impercettibile a decidere chi ha vinto e chi ha perso così poi da poter dire domani come mai, col pensoso infallibile senno del dopo. E invece è sul prima che conviene restare: su questo fiato sospeso lungo un giorno, interminabile, questo apparente rallentare del tempo in moviola, un film muto in cui tutti stanno ad occhi spalancati in silenzio, tutti tranne Bossi che già dal pomeriggio esulta dello tsunami leghista e dell’elezione di suo figlio Renzo la trota. La giornata del tempo sospeso dice, da principio, due cose chiarissime: che l’Italia è stanca, stanchissima. Rabbiosa.

La stanchezza e la rabbia sono i sentimenti che hanno animato i vincitori: i primi, quelli che non sono andati a votare. Uno su tre: una percentuale da malato grave, la democrazia italiana deve essere curata, ha la febbre alta. Gli italiani stanchi dei pasticci, delle buchi e delle toppe, delle troppe parole indecifrabili sono rimasti a casa. Quelli che hanno votato erano, in maggioranza, animati dalla rabbia. Hanno vinto i partiti con la voce roca e la schiuma alla bocca, la Lega a destra, un trionfo assoluto, il neonato partito di Beppe Grillo che con percentuali dal 3 al 7 per cento - altissime, per un debuttante - conferma quel che sappiamo: urlare «tutti ladri tutti in galera» è un abito ampio e comodo, una taglia unica che si adatta a tutte le taglie e che è persino sostenuto da ragioni valide, documentate, condivisibili: tuttavia nel meccanismo della politica - di questa politica - finisce per fare il gioco dell’avversario, sempre. È funzionale al rafforzamento della destra, sempre. Dalla destra nasce, in verbale opposizione, e della forza della destra vive, in sostanziale alleanza. Mentre scriviamo in Piemonte la partita si gioca su una manciata di voti: il partito di Grillo è al 4 per cento e certamente non sarebbero stati tutti voti per il centrosinistra, ovvio che no. C’era di mezzo il no-Tav, importante discrimine. Però la manciata utile, quella sì, quella il grillismo l’ha portata via. Anche a Di Pietro, che regge e in qualche regione cresce ma non abbastanza da far gridare al trionfo. Ed è un voto di rabbia - la «rabbia giusta», diceva il poeta che vi abbiamo proposto un paio di giorni fa, quella che si chiama indignazione - la bella vittoria di Nichi Vendola in Puglia. Netta, pulita. Contro i pronostici dei professionisti della politica, contro i calcoli e le convenienze. Un voto di gente giovane, anche giovanissima, che chiede coraggio, visione, rinnovamento. Che ha voglia di vedere la luna.

Viceversa si arenano i candidati indicati secondo la logica, appunto, del calcolo e del male minore. La Campania e la Calabria sono perse così: per difetto di coraggio, a sinistra, e per la consueta spregiudicatezza della destra. Che la destra vinca nelle due regioni a più alto tasso di criminalità organizzata, le regioni dove neppure una riunione di condominio si decide senza l’appoggio del capoclan, è un fatto oggettivo. La vicenda Di Girolamo è dell’altro ieri.

Nessuno è così ingenuo da pensare che i padroni del territorio al momento delle elezioni si distraggano. Proprio per questo bisogna provare a batterli su un altro terreno: con la promessa di una rifondazione, in assoluta discontinuità col passato. Con un gesto rivoluzionario e pazienza se per vincere davvero ci vorrà tempo. L’importante è seminare. Intendiamoci: Vincenzo De Luca ha avuto un risultato personale eccellente considerato che correva contro tutti, inCampania, anche contro una buona parte del suo schieramento. Nonè bastato, tuttavia, a tacitare chi nella terra dei casalesi indicava De Luca come un malfattore né a convincere chi ha pensato fosse assai più conveniente restare sul terreno dei poteri reali, i veri potenti di quella terra i cui nomi e cognomi sono noti a chi legga Saviano: risulta eletto in Campania Caldoro, un volto che neppure da ministro abbiamo imparato a riconoscere nelle foto. Non si potrà certo dire che sia stata l’affermazione di un carisma, di una leadership, di una personalità trascinante. No, ecco: questo no. Così pure Loiero paga il prezzo, salato probabilmente oltre le sue stesse previsioni, della stanchezza di un elettorato arrabbiato, confuso e desideroso di un rinnovamento che non è venuto. Detto questo non si può non ricordare che solo due mesi fa il centrodestra puntava all’11 a 2 e gridava ai quattro venti che avrebbe fatto cappotto. Viceversa sono nette e belle le vittorie del centrosinistra in Toscana, Umbria, Emilia, Liguria, Marche e Basilicata, della Puglia si è detto. È perso il Sud, sarà un lavoro non da poco in assenza di rinnovamento profondo. È perso il Nord, dove vince la Lega dalla Francia all’Istria: uno stato nello Stato. Una mina, questa, che può cambiare nell’arco di pochissimi mesi i connotati del Pdl. Bossi azionista di riferimento, Fini fuori dai giochi. Dov’è An, in queste elezioni? Scomparsa. E l’elettorato di Fini, scomparso davvero anche quello? Sono tutti diventati leghisti e forzisti gli eredi della destra storica italiana? È questa l’incognita dei prossimi mesi: per il destino del Pdl - “il pareggio di Pirro” - e dell’Italia. Da una diaspora tra Fini e Berlusconi, davvero probabile ancorché non risolutiva, si ridisegnerà la geografia politica del Paese. E poi c’è il Lazio, dove il testa a testa tra Bonino e Polverini racconta un’altra storia davvero interessante: una regione che all’indomani delle dimissioni di Marrazzo il centrosinistra dava per perduta. Dove il Pdl ha giocato una battaglia che, diciamo, non ha badato a spese in ogni senso. Dove Emma Bonino si è autocandidata, poi sostenuta in forza della sua obiettiva forza, non smentita dai fatti. Anche qui: è arrivato sul filo di lana il coraggio. Il cambiamento. La capacità di rinnovare. Dicevamo, si sentiva nell’aria: il vento sta cambiando. Sta cambiando, sì. Il vento poi deve essere aiutato, a volte. Dopo le europee c’era bonaccia, le previsioni pessime. Di una sconfitta su tutta la linea. Nelle ultime settimane - come spesso capita - il centrosinistra si è ritrovato alla vigilia del voto: una certa brezza, un soffio di maestrale. C’è ed è reale. Bisognerebbe sostenerlo, adesso. Provare a mantenere la rotta, come chi va per mare, e correggerla sulla base dei risultati al primo giro di boa. Con lo stesso spirito degli ultimi giorni, che duri quanto serve e quanto basta. Perché se no, se da domani ricominceranno le accuse reciproche, il destino che ci aspetta, con certezza, è la dinastia dei Bossi al potere. Il padre al comando, il figlio la Trota - quello tre volte bocciato agli esami - ministro. Dell’Istruzione, come una laurea ad honorem.

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