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Filippomaria Pontani
Naufraghi da Biennale: i migranti sfidano l’arte
3 Agosto 2017
2015-EsodoXXI
«Il filo che lega le opere è quello dell’esodo, ma non è facile riuscire a raccontarlo, soprattutto per i Paesi più grandi».
«Il filo che lega le opere è quello dell’esodo, ma non è facile riuscire a raccontarlo, soprattutto per i Paesi più grandi».

il Fatto Quotidiano, 3 agosto 2017 (p.d.)

Da un po’ il governo del mio Paese, dopo aver già liquidato per ragioni essenzialmente economiche l’operazione “Mare nostrum”, vanto della nostra Marina Militare, in pro di una assai meno efficace, ha iniziato a prendersela con le Ong che raccolgono in mare i naufraghi: li salvano o non li salvano davvero? Sono colluse con gli scafisti o animate da principi nobili ma per i quali non c’è spazio? Il Testo unico sull’immigrazione all’articolo 12 recita “non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato”; e la convenzione Sar obbliga a soccorrere chiunque si trovi in mare anche oltre le acque territoriali. Il “favoreggiamento all’immigrazione clandestina”, per molti odioso (riposa tra l’altro sulla malfamata legge Bossi-Fini), è per fortuna difficile da provare, quando la gente è in mare; e pare che il film Terraferma di Emanuele Crialese (2011) sia passato invano.
Da quando è iniziata questa svolta, ho ripreso in mano il mio Freesa, “documento di viaggio universale” rilasciato dal Padiglione tunisino della 57ma Biennale di Venezia: nelle sue pagine, anziché visti o normative, s’incontrano numeri (i 65,3 milioni di rifugiati del 2015; i 3,2 milioni di richiedenti asilo in attesa di conoscere il loro destino; i 165mila "abitanti" del campo di Kakuma in Kenya) e ideali (anzitutto quello della libertà di movimento, come elaborato sul sito theabsenceofpaths.com, un progetto che coinvolge anche l’ong maltese Moas). Il Freesa può sembrare l’ennesima, gratuita trovata di un’arte che sbandiera nobili principi, senza additare i veri conflitti o i responsabili; ma s'inserisce in un quadro più ampio.
Se una mostra come la Biennale di Venezia ha un senso, è infatti quello di registrare il clima del mondo in cui viviamo, un orizzonte di attesa che esca dal recinto strettamente estetico e rifletta anche la dinamica sociale e culturale. Tanto più in un’edizione come quella di quest'anno, alquanto insipida fin dal titolo (“Viva Arte Viva”, fino al 26 novembre), e incongruamente suddivisa in isole che richiamano piuttosto un Brek o un parco-giochi (“Padiglione della Terra”, “Padiglione dei colori”, “Padiglione del Tempo e dell’Infinito” e via dicendo). Optando per una selezione di basso profilo, la curatrice Christine Macel ha raccolto poche star (Eliasson, Parreno, Sala, Orozco), un po’di amarcord degli anni che furono (i defunti John Latham, Marwan, Maria Lai, Bas Jan Ader) e molti epigoni. Non mancano cose poetiche, però, come i totem dell'indiana Rina Banerjee, l’arazzo del maliano Abdoulaye Konaté, le precarie figurine della neozelandese Francis Upritchard, il video del giapponese Koki Tanaka, che percorre e conquista lo spazio da casa sua alla centrale nucleare più vicina, e quelli della russa Taus Makhacheva con il funambolo che trasporta quadri sui monti del Caucaso, e con i naufraghi che scompaiono in mare su un barcone capovolto; e naufraghi annegano anche nei dipinti della canadese Hajra Waheed.
I naufraghi, appunto. Come sempre alla Biennale, le partecipazioni dei singoli Paesi sono più vivaci della selezione ufficiale, e spesso la redimono. Quest’anno, sebbene le grandi nazioni preferiscano gingillarsi in cervellotiche astrazioni (taceremo del padiglione italiano, che oscilla fra il mistico e il compiaciuto), un filo rosso che emerge è proprio quello relativo al fenomeno migratorio, ai percorsi dello “straniero”. Storie concrete, documentate con uno slancio che sfugge alla retorica, ed elabora in segno il nocciolo dei problemi: la ferrovia della rotta balcanica nel padiglione sloveno, la tragedia delle famiglie strappate in quello messicano, le maschere dei Mapuche perseguitati in Cile, i cerchi di appartenenza nello Zimbabwe, e soprattutto, nel padiglione sudafricano e in quello australiano (in modi assai diversi), il confronto fra i volti e le parole degli attori di Hollywood e le icone vive e vere dei migranti dei nostri giorni. L’arte che prova, coi suoi mezzi, a riflettere sul mondo.
In questo discorso, ormai globale, l'Italia, al pari della Grecia, non riveste un ruolo marginale: molte storie hanno il loro fulcro nel Mediterraneo, molte immagini sono delle nostre coste. E sono passati già dieci anni dal mirabile trittico Western Union Small Boats di Isaac Julien, tutto ambientato in Sicilia, sulle spiagge che allineano cadaveri e vacanzieri (come in Crialese, appunto), tra i balli nei palazzi del Gattopardo e l'annaspare in acqua delle membra di giovani donne che non sanno nuotare. Ecco allora che il modo in cui l’Italia, messa alla prova dalla colpevole inazione dell'Europa, affronta l'esodo dei disperati, non ha solo una dimensione legislativa e politica, ma anche un valore simbolico e culturale: è da noi che si gioca la partita, da un nostro gesto (quelli dei Paesi balcanici li abbiamo visti: muri e filo spinato) dipende moltissimo. Di quali immagini, di quali parole (d'ordine?), di quali minacce, noi Paese di Fuocoammare, dovremo gloriarci (o vergognarci) un giorno? Dei poliziotti che accolgono schierati i ragazzi di Jugendrettet, o dei porti che respingono le navi di MSF?
La Grecia, nostra compagna in questa difficile vicenda (molti ancora i profughi imbottigliati nel Paese, che pure beneficia dei nefandi accordi dell'Unione con Erdogan), non perde tempo, e crea nel suo padiglione un capolavoro che vale da solo il biglietto di tutta Biennale: in Laboratorio di dilemmi, Yorgos Drivas presenta un'allegoria che parla di cellule epatiche ma in realtà soprattutto nel video finale, in cui recita una magnifica Charlotte Rampling - delinea il problema di come una società può reagire dinanzi al diverso. Tutta la storia è una sorta di riscrittura delle Supplici di Eschilo, una tragedia che, nel mettere in scena l’arrivo e la problematica accoglienza ad Argo delle cinquanta figlie dell’egiziano Danao, ha già detto tutto sul tema delle migrazioni (ne fanno fede i recenti adattamenti di Moni Oadia a Siracusa e di David Greig a Edimburgo): un’opera antica dalla quale una cultura europea meno immemore di sé dovrebbe forse ripartire.
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