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Gabriel Bertinetto
Nassiriya, Falluja: Il buio dell'informazione
18 Agosto 2005
Articoli del 2004
Italiani in Irak. Informazioni da l'Unità del 20 aprile 2004



Cos’è accaduto sui ponti di Nassiriya fra il 5 ed il 6 aprile scorsi?

Secondo la versione più o meno ufficiale fornita dai militari italiani, alcuni reparti che nella notte si erano mossi per riprendere il controllo dei tre ponti che attraversano il fiume Eufrate e dividono la città in due, sono stati accolti dal fuoco di miliziani iracheni appostati nei pressi. Per difendersi i soldati italiani (che hanno avuto dodici feriti nelle loro fila) hanno a loro volta sparato, uccidendo un numero imprecisato di armati e di civili che si trovavano nelle vicinanze. Si è parlato inizialmente di una quindicina di morti fra gli iracheni. Poi, più genericamente di alcune decine. Ma c’è perfino chi in una corrispondenza da Nassiriya, dopo avere interpellato sia le fonti italiane sia i capitribù locali, avanza l’ipotesi che le vittime siano state molte di più: sino a 200. Secondo un sito online specializzato in questioni militari la battaglia è stata preceduta da un crescente clima di tensione che ha portato al ridimensionamento della normale attività operativa dei reparti italiani ed è stata, infine, innescata dall'occupazione militare dei ponti dai ribelli sciiti e dal conseguente ordine del comando britannico di ripristinare la libera circolazione. Lo Stato maggiore della Difesa nazionale ha aderito alla richiesta britannica e il generale Chiarini, comandante del contingente italiano, ha avuto luce verde per l'attacco. Si calcola che in diciotto ore di battaglia siano stati sparati complessivamente centomila proiettili. Uno scenario tipicamente bellico che contraddice le incredibili dichiarazioni del ministro della Difesa Martino: tutto tranquillo, situazione sotto controllo, missione di pace. Le testimonianze degli italiani, militari e civili, rientrati da Nassiriya, concordano nel dire che da quel giorno il rapporto tra la popolazione locale ed il contingente italiano, che era già peggiorato negli ultimi tempi, è diventato ancora più teso, nonostante abbia sinora retto la tregua concordata dal comando italiano e dalla Cpa (Amministrazone provvisoria della coalizione) locale con la mediazione dei notabili locali.

Da dove venivano i miliziani sciiti che hanno combattuto contro gli italiani?

Si è parlato genericamente di «gente venuta da fuori». E sono fiorite illazioni su infiltrazioni dai paesi vicini, in particolare dall’Iran. Avvalorando queste tesi, poi rivelatesi probabilmente infondate, una parte dei media ha dato forza alla edulcorata immagine governativa dei presunti idilliaci rapporti fra truppe italiane e popolazione locale. Solo un disegno destabilizzatore esterno poteva intervenire a turbare la quiete amorosa di Nassiriya, secondo i sostenitori della ingerenza straniera. Ma le informazioni raccolte sul posto nelle settimane successive hanno chiarito che i gruppi legati al leader radicale sciita Moqtada Sadr venivano in gran parte da cittadine e villaggi limitrofi: Ash Shatra, Suq Ash, Shuyukh, Al Fukud, Al Rifai. Sono tutte località della privincia di Dhi Qar, di cui Nassiriya è il capoluogo.

Cos’è veramente accaduto nelle ultime settimane a Falluja?

Gli americani sono avari di notizie sulle operazioni compiute nella città del cosiddetto triangolo sunnita, area in cui il regime di Saddam aveva più consensi, e nella quale più accanita è stata la resistenza contro l’occupazione. Per molti giorni Falluja è rimasta isolata ed inaccessibile a chiunque, con l’eccezione delle forze statunitensi che la circondavano dopo esservi penetrate per vendicare il trattamento inflitto a quattro marines: dopo essere stati uccisi, i loro corpi erano stati fatti a pezzi e esposti al pubblico ludibrio dalla folla inferocita. I particolari della rappresaglia ancora sono quasi ignoti. Porzioni di verità emergono a poco a poco dal racconto di alcuni feriti trasportati in ospedali di Baghdad, e degli sfollati. Si calcola che fra guerriglieri e civili siano state uccise 1500 persone. Molti sono caduti sotto i colpi di cecchini americani appostati sui tetti, in una drammaticamente curiosa inversione di ruoli fra truppe regolari e formazioni ribelli. Le cifre ufficiali di fonte americana sugli iracheni uccisi in tutto il paese, a partire dal primo di aprile, giorno in cui è iniziata la battaglia di Falluja, si aggirano su mille. Gli Usa si rifiutano di dire quanti in quel numero siano civili. Ufficialmente per loro non esistono vittime civili.

Chi sono i terroristi che hanno rapito quattro italiani, ne hanno ucciso uno, e sino a ieri sera non avevano rilasciato gli altri tre?

Sono stati spregiativamente definiti «banditi di strada». L’espressione denota un ovvio giudizio di condanna nei confronti degli autori di un gesto vile, da qualunque punto di vista lo si consideri. Ma rischia di essere fuorviante, perché accredita l’ipotesi di un sequestro compiuto da criminali comuni, o da gente che agisce senza un disegno preciso. Caratteristiche che sembrano invece contraddette dal loro comportamento, sin dall’inizio di questa dolorosa e misteriosa vicenda. Il rapimento fu accompagnato dalla diffusione di un comunicato in cui si rivendicavano le motivazioni politiche dell’impresa e si indicavano gli obiettivi: via le truppe italiane dall’Iraq, scuse ufficiali da parte del primo ministro Berlusconi per l’appoggio dato all’occupazione statunitense. Non solo, un altro comunicato accompagnò la brutale esecuzione di Fabrizio Quattrocchi, nel quale, citando le dichiarazioni rilasciate da Berlusconi dopo il sequetro, le si giudicava il segno di una scelta a favore della permanenza a Nassiriya e di scarsa considerazione per la sorte dei concittadini prigionieri. La tempestività nella diffusione dei messaggi, il loro contenuto politico molto chiaro nella sua spietata schmaticità, la disponibilità di telecamere per filmare prima i rapiti poi l’uccisione, e di canali per far pervenire quei video alla tv Al Jazira, dimostra che di fronte a sé il governo e l’intelligence italiana non hanno affatto un gruppo di sprovveduti.

A che punto è la ricostruzione economica dell’Iraq?

Al di là dei piccoli progetti per la ristrutturazione di edifici scolastici, il ripristino della distribuzione di energia elettrica, la sistemazione di piccole reti fognarie, tutte opere utili, nelle quali si sono prodigati ad esempio i militari italiani a Nassiriya, non è ancora partito alcuno dei grandi interventi necessari a rimettere in sesto un’economia che era già in ginocchio ai tempi di Saddam, ed è crollata al suolo con la guerra. I beneficiari del businness sono in molti casi già stati designati, e sono per lo più grosse aziende americane. Altre gare d’appalto, tutte pilotate da Washington, sono state indette. In Italia il governo ha promosso convegni per spiegare ai nostri imprenditori quanto sia lucroso investire nella ricostruzione dell’Iraq. Ma le persistenti condizioni di caos e insicurezza non hanno sinora consentito il decollo di alcuna grande opera. Strade, ferrovie, ponti danneggiati o distrutti, sono rimasti tali. Le maggiori centrali elettriche restano nello stato di obsolescenza in cui si trovavano prima della guerra. Ma il segno principe dello sconquasso materiale iracheno è la situazione dei pozzi petroliferi e delle raffinerie, sottoposti ad attacchi e sabotaggi continui. Tanto che oggi l’Iraq deve importare persino la benzina per la circolazione delle auto, e i prezzi del carburante sono saliti alle stelle. Il colmo per il secondo produttore mondiale di greggio.

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