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Napoleone in marcia
22 Maggio 2009
Articoli del 2009
i commenti dell’ultima aggressione di B. alla democrazia di Bianca De Giovanni (l’Unità), di Gabriele Polo e di Gaetano Azzariti (il manifesto) e di Massimo Giannini (la Repubblica), tutti del 22 maggio 2009

l’Unità

Attacco al Parlamento:

«È inutile, persino dannoso»

di Bianca Di Giovanni

Berlusconi arringa all’Assemblea di Confindustria, contro Parlamento e magistratura. I deputati paragonati ai capponi, i giudici «estremisti di sinistra». Il premier: dobbiamo fare la rivoluzione. La platea applaude.

Quando sale sul palco sembra un felino pronto al balzo. Quella è la «sua» casa, la Confindustria, davanti a lui i «suoi» ministri, poi le «sue» telecamere schierate, persino la sua famiglia (Marina è seduta in seconda fila, tra De Benedetti e Confalonieri). L’occasione è imperdibile. Così all’Assemblea annuale degli imprenditori tenuta ieri all’Auditorium di Roma Silvio Berlusconi offre il meglio del suo repertorio. Parte dalle veline (irritando Emma Marcegaglia) per finire con l’attacco al Parlamento («pletorico e inutile») e poi ai giudici (tutti «estremisti di sinistra»). L’affondo è senza freni, ma il premier si autogiustifica: «sono esacerbato e voglio dichiarare pubblicamente la mia indignazione». Lo stile è quello della prima discesa in campo: Berlusconi è l’Uomo Nuovo che travolge istituzioni e organismi democratici, come farebbe una rivoluzione di popolo. D’altronde lo confessa lui stesso, davanti a una platea rapita: «Ci siamo resi conto che è più facile fare le rivoluzioni che le riforme». Troppi i vincoli, troppi i veti (come quelli sull’ambiente, le costruzioni, il piano casa) troppe le lungaggini (come le direttive europee): meglio ricostruire una nuova Italia Berlusconiana.

Classe dirigente e istituzioni

Il primo a reagire è Gianfranco Fini. Quell’attacco al Parlamento appare feroce e irridente. Il premier si fa beffe dei parlamentari, definiti come i capponi o i tacchini «che certo non anticipano il Natale». Votano senza capire, seguendo i segnali del capogruppo. Il pollice in alto per dire sì, in basso per dire no, a mezz’aria per astenersi. Il premier mima come in una sorta di balletto, che somiglia molto al circo Barnum. La platea ammicca, sorride, ci scherza su. Applaude a più riprese, anche con qualche boato di approvazione. Sul Parlamento europeo il sarcasmo è ancora più duro. «Ci sono parlamentari che non si vedono mai, perché sono imprenditori, sono professionisti, hanno cose più importanti da fare - spiega - che stare lì per un giorno con le mani dentro la scatoletta del voto e votare cose che nessuno può sapere cosa sono». Il parlamento di Strasburgo non serve a nulla: non decide niente. La politica finisce sotto scacco e gli industriali gongolano. Il premier-imprenditore tira bordate e la platea si scalda. «Siamo in una fase di deformazione della Costituzione - commenta con amarezza Pier Luigi Bersani - Sarebbe molto importante che questa percezione ce l'avesse la classe dirigente riunita in parte oggi qui all'Auditorium. preservare la Costituzione non è solo compito dell'opposizione ma anche della classe dirigente e purtroppo i riferendosi agli applausi della platea l'impressione non è tranquillizzante».

Giudici

Con i magistrati sul caso Mills è un vero corpo a corpo, quasi fisico. «Ho detto che è una sentenza scandalosa - dichiara - perché la realtà è l’esatto contrario di quanto scritto dai giudici». Poi si consente una spiegazione dei fatti, ovviamente opposta a quella ricostruita dai giudici milanesi. Il problema è che c’è un magistrato dichiaratamente di sinistra. «Credo che nessuno - spiega - accetterebbe Mourinho arbitro designato per la partita Milan-Inter, con tutto il rispetto per Mourinho». Per questo il centrodestra farà la sua riforma: con i pm «costretti a recarsi dal giudice con il cappello in mano e dando del lei». Anche in questo caso (come in quello del Parlamento) il suo governo è pronto a cambiare le cose, a fare le riforme rivoluzionarie che il popoloc hiede. «C'è tutto il mio impegno a riformare la giustizia penale e separare le funzioni». Il tempo stringe, quello che doveva essere un saluto breve («non voglio dire nulla - aveva esordito - perché sono d’accordo su tutto») è diventato un comizio travolgente. Da uomo di spettacolo, si capisce che il premier cerca l’applauso finale. Così, attaccando i giudici sul caso Mills, si fa portavoce di tutti gli italiani incappati nella giustizia ingiusta. «Fin quando attaccano me, che ho le spalle larghe, va bene - dice - Ma pensate a un semplice cittadino». E qui scatta l’applauso, lungo e sentito. È fatta: il suo popolo è con lui.

il manifesto

Ci siamo dentro

di Gabriele Polo

«L'Italia è una Repubblica aziendale, fondata sui Consigli d'amministrazione. La sovranità appartiene al governo, che la esercita nelle forme stabilite dal premier». L'articolo uno è già pronto, poi non c'è più nulla: la Costituzione sognata dal Cavaliere potrebbe finire lì, tutto il resto viene di conseguenza. Anche una bella botta alla magistratura, che - almeno stando all'applausometro confindustriale - risulta molto gradita alle imprese: chissà quanti inquisiti, oltre al premier, riempivano ieri la sala del plenum padronale.

Riforme radicali e definitive, magari piacerebbero anche alla brava Marcegaglia, che per il momento si accontenta di chiedere meno: meno vincoli, meno stato, meno spesa pubblica. Berlusconi, invece, non si accontenta mai. Non si limita a elencare tutto ciò che il suo governo ha fatto per le aziende, a ribadire il mito del mercato, a sentenziare che il capitale è tutto mentre il lavoro è niente, con quel che ne consegue e ne seguirà in leggi, decreti, risorse. Non si contiene, non ci riesce proprio. E, allora, basta con un Parlamento affollato di «capponi» e con giudici «d'estrema sinistra». Per non parlare di «certa stampa»; ma su quella aveva già detto e fatto tutto il giorno prima, con insulti e nomine Rai.

Certo, il premier è un po' nervoso: che alcuni maschi non lo amino, passi. Ma che ci siano delle donne - mogli, giornaliste, giudici - che rifiutino le sue seduzioni, gli risulta insopportabile. Certo, la campagna elettorale si presta ai toni alti, soprattutto quando l'obiettivo è il plebiscito. Però l'escalation di violenza con cui la destra («il papi» in testa) è passata all'attacco è davvero impressionante e fa pensare a un piano più che a un accadimento. Nel giro di poche settimane i dipendenti pubblici sono stati bollati di fannullonaggine, il Presidente della Repubblica trattato da vecchio arnese, l'Onu declassata a ente inutile, gli studenti elevati a pericolosi sovversivi. Su «certi» giornalisti, magistrati «rossi», sindacalisti non proni, un continuo tormentone d'insulti e minacce. L'attacco al Parlamento «pletorico e dannoso» non è altro che un tirar le fila per chiudere il cerchio di un disegno politico che le elezioni europee di giugno - ridotte a sondaggio Mediaset - sono chiamate a ratificare. Nella sottovalutazione di buona parte dei media e nell'assenza di qualunque risposta politica.

Qualche settimana fa un'autorevole giornalista vicina al Pd ci apostrofò dicendo che «solo il manifesto può pensare che ci sia un regime alle porte». Aveva ragione. Non è alle porte, ci siamo già dentro.

il manifesto

Emergenza democratica

di Gaetano Azzariti

La cultura costituzionale del nostro paese è sotto attacco. Ormai non possiamo più far finta di non vedere che si tratta di un aggressione che mira direttamente alle fondamenta del nostro vivere civile. Non è solo la «naturale» tendenza dei potenti a sfuggire alle regole del diritto e ai limiti che la divisione dei poteri gli impone; si tratta di qualcosa di diverso e più sottilmente distruttivo. E' una visione del mondo che tenta di affermarsi in Italia e per far questo deve sconfiggere il sistema istituzionale definito in Costituzione.

Chiarissimi sono anche i modelli a confronto: da un lato - sotto assedio - quello proprio delle democrazie costituzionali occidentali. Dall'altro - promosso, idealizzato e immedesimato organicamente dal nostro Presidente del Consiglio - quello industriale. La cultura «del fare» che di democratico non può avere nulla, poiché non pensa che a produrre risultati, non certo a governare il demos.

Ieri lo scontro tra culture si è materializzato nel modo più plastico ed evidente. In nessun paese democratico si sarebbe potuto immaginare di potere udire un esponente politico pronunciare la seguente frase: «Avete un governo che per la prima volta è retto da un imprenditore e da una squadra di ministri che sembrano membri di un Cda per la loro efficienza. Dobbiamo però fare i conti con una legislazione da ammodernare perché il premier non ha praticamente nessun potere e dovremo arrivare a un disegno di legge d'iniziativa popolare perché non si può chiedere ai capponi e ai tacchini di anticipare il Natale». C'è tutto il conflitto in atto in questa frase che esprime il vanto per un governo che anziché rispondere al Parlamento si arroga il diritto di fare, perseguendo interessi di natura imprenditoriale, rivendicando una legittimazione esclusivamente di natura populista. Ma ciò che appare terribilmente inquietante è l'indicazione del nemico: l'organo della rappresentanza popolare, da abbattere poiché ostacola l'affermarsi del nuovo «sovrano-imprenditore». Il nemico è dunque la democrazia per come c'è stata tramandata dal costituzionalismo moderno.

Troppo spesso si sono sottovalutate le affermazioni allegre e poco meditate del Cavaliere, le cui «battute» sono diventate una sua personale strategia politica e della «smentita» ha fatto un'arte di governo. In questo caso non è così. L'attacco alla democrazia costituzionale esprime il più profondo senso del berlusconismo. Lo dimostra la conseguenza che egli stesso trae dall'analisi di un Parlamento da «accapponare». Berlusconi rivendica a se tutti i poteri che la costituzione affida al Parlamento. Per far vincere la cultura dell'impresa e definitivamente sconfiggere la democrazia costituzionale. Credo sia venuto il tempo di dichiarare l'emergenza. Ci fu un tempo in cui di fronte alle pretese eversive del sovrano un Parlamento seppe reagire, scelse un nuovo governante e affermò la democrazia costituzionale: correva l'anno 1689. Quella rivoluzione fu «gloriosa». A noi che rimane?

la Repubblica

E l´imprenditore applaude

di Massimo Giannini

Il microfono di un´associazione economica trasfigurato nel megafono di un comizio politico. Un importante appuntamento istituzionale svilito a «pronunciamento» sommario. Contro i giudici, «estremisti di sinistra» e «vera patologia della nostra democrazia». Contro il Parlamento, organo «pletorico, inutile e controproducente». Anche a questa torsione "rivoluzionaria" ci è toccato assistere, nei giorni più cupi e livorosi della deriva vagamente caudillista di Silvio Berlusconi.

Il presidente del Consiglio si è presentato agli imprenditori non per spiegare quello che lui può fare per risolvere i loro problemi: contrastare la recessione, rilanciare la domanda, finanziare gli investimenti. Ma per annunciare quello che magistrati e parlamentari dovrebbero fare per risolvere i suoi problemi: obbedire, tacere, sparire.

«Non ci fermeremo fino a quando non avremo diviso l´ordine dei giudicanti dall´ordine degli accusatori», annuncia il Cavaliere. «Alla Camera si sta tutto il giorno senza far niente, con le mani nella scatola del voto, a obbedire agli ordini del capogruppo», aggiunge. Ed è deprimente, oltre al fatto in sé, che di fronte a queste iraconde tirate populiste sia costretto a intervenire il Quirinale, per ricordare che sul Lodo Alfano l´unico "dominus" è la Consulta, e si trovino a protestare solo il sindacato delle toghe e il presidente della Camera Fini. La platea degli industriali, viceversa, non reagisce, non obietta. Non prende le distanze da un "collega" che, in base a una sentenza di primo grado, è stato giudicato colpevole per aver corrotto un teste in processi per falso in bilancio, fondi neri, evasione fiscale. Comportamenti che chiunque viva in azienda non può non biasimare, perché negano il mercato e alterano la concorrenza.

Anzi, di fronte a tutto questo accade l´impensabile: invece di mostrare insofferenza verso un primo ministro che urla la sua violenta requisitoria in un Auditorium invece di riferire in Parlamento come la Costituzione gli imporrebbe, proprio quella platea si scioglie in applausi. Metà complici, metà quiescenti. Così, in quell´abbraccio finale solo lievemente imbarazzato con Emma Marcegaglia, il premier vede realizzata la più estrema e innaturale delle metamorfosi: anche la Confindustria è trasformata in una "provincia" dell´Impero delle Libertà. E anche la sua leader, in base alla collaudata e malintesa idea di "galanteria" dell´Imperatore, può essere annoverata scherzosamente (ma scandalosamente) nella già folta schiera delle "veline".

Ed è poi questo, al fondo, l´altro "scandalo" di questa assemblea annuale. L´"Anschluss" berlusconiano della Confindustria, che la dice lunga sull´etica della responsabilità dell´establishment e il civismo della cosiddetta "borghesia produttiva", avviene malgrado una relazione della Marcegaglia non proprio tenera nei confronti del governo. Nella fotografia nitida e niente affatto edulcorata della crisi economica vissuta dall´Italia, che nessuna pennellata di vacuo ottimismo di regime può offuscare. Nell´indicazione dei tanti punti di debolezza del Sistema-Paese, che i piani faraonici annunciati e riannunciati da questo o quel ministro non possono eliminare. Nella denuncia delle tante liberalizzazioni scomparse dall´agenda, che nessuna promessa pre-elettorale può far ricomparire. Nel riconoscimento della "coesione sociale" e del ruolo della Cgil, che troppi fermenti ideologici tardo-craxiani hanno disconosciuto attraverso la pratica dissennata degli accordi separati.

Persino nell´esaltazione della "società multietnica come valore", che nessun vaneggiamento xenofobo neo-leghista può cancellare, per chi facendo impresa al Nord si trova ogni giorno fianco a fianco, in fabbrica, con i lavoratori extra-comunitari.

Certo, la Marcegaglia è troppo generosa sulla strumentazione di sussidio ai disoccupati messa in campo dall´esecutivo, e non dice che 2 lavoratori su 5, nel nostro sistema di ammortizzatori sociali, resta tuttora senza garanzie. E troppo clemente sullo stato dei conti pubblici, riconoscendo a Tremonti una «barra del timone dritta» proprio mentre il Paese sta gravemente perdendo la rotta sul deficit, il debito pubblico e l´avanzo primario.

E fin troppo entusiasta del "coraggio" di Brunetta, di cui per ora c´è più traccia sulla carta intestata del dicastero che non nell´efficienza della Pubblica Amministrazione. Ma in quell´appello finale, rivolto direttamente al presidente del Consiglio, ci sarebbe anche una teorica sfida: «Lei che ha un mandato forte e un consenso straordinario, li usi per fare le vere riforme di cui questo Paese ha urgente bisogno». Non li usi invece per sfasciare le istituzioni, per scardinare i poteri dello Stato, per blindare la sua avventura politica in una dimensione neanche più "post", ma ormai, temiamo, quasi "extra" democratica. Sarebbe stato bello se la sfida della Marcegaglia avesse abbracciato anche questa seconda parte di ragionamento. Purtroppo si è fermata alla prima parte. E anche questo, purtroppo, è un prezzo pagato all´"annessione" berlusconiana.

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