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Pierluigi Panza
Mostre senz'arte, solo acchiappaturisti
22 Maggio 2006
Articoli del 2005
“Realizzate per dare lustro alle città, non fanno cultura”. Se imvece le città sapessero raccontare se stesse...Da il Corriere della sera del 15 agosto 2005

Business is business… ma declinare arte e cultura con economia e marketing urbano richiede equilibrio. E, secondo alcuni critici, il punto di equilibrio è stato superato. L'«accusa» è che in Italia si realizzano mostre per promuovere l'immagine di una città o per attirare visitatori con persuasive campagne di comunicazione, mentre poche se ne realizzano per dimostrare tesi scientifiche o presentare opere nuove o poco note. Un'accusa, questa, che si somma a quella rivolta il 12 agosto da Le Monde al cosiddetto «idiota da viaggio» che distruggerebbe il vero sapere, sul quale ieri, Sebastiano Vassalli, ha comunque invitato a «non sparare».

Alcuni critici hanno messo «sotto accusa» varie mostre, come quelle degli Impressionisti realizzate nel Nord-Est, quelle dove è sufficiente un nome di richiamo (Caravaggio, ad esempio) per assicurarsi la presenza del «turista culturale» e, infine, quelle suddivise su più sedi espositive. E' il caso, quest'ultimo, della mostra inaugurata il 6 luglio per i settecento anni dalla morte di Arnolfo di Cambio, che si svolge metà a Perugia (Sala Podiani della Galleria Nazionale) e metà ad Orvieto (Chiesa di Sant'Agostino). «Si fa una mostra in due città non per ragioni scientifiche, ma solo per non scontentare nessuna cittadinanza», attacca il critico Carlo Bertelli.

Ma questo aspetto è solo una faccia del problema più generale che riguarda la finalità per cui si organizzano oggi le mostre. Per il collezionista di arte contemporanea, Giuseppe Panza di Biumo «stiamo assistendo a una deviazione dalle funzioni culturali ed educative. Si fanno mostre che hanno legami con l'economia, promuovono alberghi e ristoranti, ma rendono scarsa utilità alla cultura». Su un'analoga lunghezza d'onda si esprime Philippe Daverio: «Già, gli impressionisti e il fiume, gli impressionisti e la neve, perché non anche impressionisti e maionese? Una mostra non dovrebbe essere un luogo di consumo, ma di ricerca».

Rilievi legittimi? In buona parte sì, conferma Massimo Vitta Zelman, presidente delle edizioni Skira e organizzatore di mostre ad alto contenuto scientifico e di visitatori, come quella sui Gonzaga a Mantova (500mila presenze) e come si annunciano le prossime di «Caravaggio e l'Europa» a Palazzo Reale di Milano e «Manet» al Vittoriano di Roma: «Le mostre sparpagliate sul territorio non funzionano: un polo resta dominante e alle sedi decentrate si dà solo un contentino; sono sconvenienti anche dal punto di vista imprenditoriale». Quanto al proliferare del numero delle esposizioni, continua Zelman, «in Italia abbiamo una offerta che valuto tripla alla domanda. Questo avviene perché siamo il Paese delle cento città e ciascuna vuole ricavarsi una fetta di notorietà. Inoltre, spesso le mostre non sono frutto di produzioni con i grandi musei ma con le amministrazioni locali, che hanno interesse politico e mandato corto. Per questo c'è un'overdose paragonabile al calcio in tv! E in questo profluvio di mostre vince chi vende un marchio facile».

A questi rilievi risponde Marco Goldin, il curatore delle mostre Brescia sui vari Impressionisti, che con «Monet e le ninfee» ha portato nella città della leonessa 440mila visitatori. «Non è vero che esponiamo sempre le stesse opere: degli oltre mille quadri portati qui in otto anni, forse 10 o 12 sono gli stessi. Per questo la gente ci segue e i musei ci danno prestiti». Goldin sta preparando per Brescia un'altra stagione che si annuncia di successo, con «Gauguin e Van Gogh» (già 120mila prenotazioni) e con 60 opere di Millet provenienti dal Museo di Boston, più altre 16 esposizioni suddivise in tre sedi: Santa Giulia, la Pinacoteca Tosio Martinengo e il Castello. E conclude: «Non sempre le mostre possono essere portatrici di nuove conoscenze. Se uno pensa che le mostre debbano essere patrimonio solo degli storici e dei critici non sono d'accordo».

Ma su grandi numeri e marketing non mancano voci a difesa. Come quella del presidente del Touring club, Roberto Ruozi: «Se il turismo sta calando del 2,2% in Italia, ma quello culturale cresce del 5% ci sarà un perché? La gente vuole l'evento e chi non segue le propensioni del pubblico sbaglia». «Non c'è nulla di male nel marketing della cultura — aggiunge l'amministratore delegato di Telecom Progetto Italia, Andrea Kerbaker —. Solo se ci fosse impoverimento o sciatteria scientifica sarebbe un problema».

Una soluzione è suggerita dal filosofo e assessore alla Cultura di Milano, Stefano Zecchi. «È ragionevole che si faccia anche del marketing urbano attraverso le mostre, ma le grandi città devono avere progetti più ambiziosi. Per Milano ho suggerito una doppia prospettiva: avere capacità imprenditoriale per realizzare mostre nuove di livello scientifico e, accanto a queste, esposizioni più popolari e divulgative. Poiché si usano soldi pubblici e non di una comunità scientifica».

Mentre in Francia «Le Monde» mette sotto processo gli «idioti da viaggio», da noi anche i piccoli centri fanno a gara nel catturare la «fauna da quadro»

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