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Diego Novelli
Moro, Fassino e la guerra
7 Aprile 2007
Sinistra
Non tutti sono pentiti di aver fatto le cose giuste, in tempi difficili, deformati nel ricordo dei revisionisti. Dal sito www.rossodisera.info, 4 aprile 2007

Non sapevo che a metà degli Anni Settanta l'Italia fosse in guerra. So per certo che in quel tempo - sindaco di Torino - ogni giorno correvo da una parte all'altra della città dove era stato consumato un attentato, un omicidio, un gambizzato (terribile neologismo coniato proprio negli anni di piombo). Ora Piero Fassino, in riferimento al Caso Moro, ci dice a trent'anni di distanza, che "in tempo di guerra si tratta con il nemico". Dunque l'Italia era in guerra con le Brigate Rosse e affini? Cioè con un branco di esaltati assassini, per altro vigliacchi (cioè, privi di coraggio) perché era troppo facile uccidere un poliziotto, un avvocato, un giornalista sparandogli alle spalle. In nome di che cosa? Di una fantomatica rivoluzione proletaria di loro invenzione?

Non mi sorprende l'ultima sortita di Piero. Lo chiamo amichevolmente così perché ero presente il giorno del suo incontro con il segretario della Federazione Torinese del PCI, Adalberto Minucci, quando venne a ringraziarci perché avevamo partecipato noi comunisti al funerale di suo padre, stimato partigiano delle Formazioni Autonome. Quella nostra presenza lo aveva colpito. Fu in quell'occasione che Piero manifestò interesse per la politica e l'intenzione di aderire alla Federazione Giovanile.

In questi anni ci ha abituati a sorprendenti "folgorazioni". Nel suo libro "Per passione" ci fa sapere, attraverso una metafora del gioco degli scacchi, che Berlinguer ha preferito morire un minuto prima dello scacco matto onde evitare l'impatto con la crisi della sua strategia politica. Berlinguer aveva sbagliato tutto, Craxi aveva ragione.

Poi presentando il suo libro con Romiti ha detto che nell'Ottanta (35 giorni di sciopero, marcia dei 40 mila) tutto sommato la Fiat non aveva tutti i torti e che i sindacati (che avevano respinto i quindicimila licenziamenti) non avevano capito praticamente niente dei cambiamenti in atto. Adesso è la volta di Moro. Pazienza. Aspettiamo il prossimo ripensamento prima della nascita del Partito Democratico.

Ma se il comportamento di Piero è un po' stucchevole, con queste sue piroette tendenti ad una legittimazione, non si sa bene da parte di chi, leggere oggi sul "Corriere della Sera" ciò che ha dichiarato Pietro Ingrao, sempre sul Caso Moro mi ha riempito di amarezza. Cosa vuol dire: "si doveva trattare per liberare Moro", e che ciò "non avrebbe impedito di riprendere il giorno dopo la lotta al terrorismo"? Il giorno dopo avrebbe significato un altro rapimento e, dopo un'altra trattativa, un altro rapimento e così via. Pur rimanendo validi tutti gli interrogativi che Ingrao si pone sul Caso Moro, stare al gioco dei terroristi avrebbe voluto dire protrarre la "lunga notte" chissà per quanto tempo ancora, ringalluzzendo i fautori della lotta armata, creando attorno a loro non il vuoto (come è accaduto) ma un terreno fertile per il reclutamento. Questa vocazione della sinistra all'autoflagellazione, all'insegna di "abbiamo sbagliato tutto", che traspare anche dall'ultimo libro di Ingrao, non solo è preoccupante ma rattrista.

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