Nella vignetta di Altan pubblicata ieri dal nostro giornale uno dei due consueti protagonisti dice fissando l’altro: «Confindustria all’attacco» e l’altro con la mano in tasca e il basco di traverso risponde: «Speriamo in una forte risposta della Conferenza episcopale».
Ha ricordato Ezio Mauro nel suo editoriale dell’altro giorno che molti anni fa, in analoghe circostanze, l’avvocato Agnelli di fronte alle pressioni di chi auspicava una sua "scesa in campo" nell’agone politico, commentò: «Ipotesi ad alto rischio. Se fallisce non resta che ricorrere a un generale o a un cardinale».
I nostri generali sono leali alla Repubblica; i cardinali sono extraterritoriali, la loro verità viene da un altrove. A quindici anni di distanza uno dall’altro, Agnelli e Altan hanno colto perfettamente la fragilità della democrazia italiana quando la politica si infiacchisce e la società ripiega sui suoi "spiriti animali".
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Televisioni e giornali da qualche settimana sono pieni di dibattiti e inchieste sul costo della politica. Il libro dei bravissimi Stella e Rizzo ha dato la stura ad un Niagara di dati, testimonianze, invettive, denunce, che documentano sprechi, arricchimenti illeciti, ruberie, rendite di posizione, privilegi, tutti sulla pelle e con i soldi dei cittadini, vittime designate, agnelli sacrificali di tanto malaffare.
Tra i molti pezzi di bravura nel proporre e in un certo senso imporre questa agenda all’opinione pubblica si è distinto martedì scorso Enrico Mentana in due ore e mezzo di dibattito nella sua trasmissione "Matrix". Merita di essere segnalato perché il montaggio televisivo era di rara efficacia.
Partiva documentando che il costo complessivo dell’attività politica vera e propria – stipendi dei ministri, dei parlamentari, degli eletti nelle Regioni e negli enti locali, dei loro portaborse, del finanziamento dei partiti e dei giornali di partito – ammonta a 4 e più miliardi (la stessa cifra è stata ripresa da Montezemolo nella sua allocuzione all’assemblea della Confindustria).
Ma questo è solo l’inizio, l’antipasto, incalzava Mentana dal video di Canale 5. E via una serie serrata di quadri, brevi inchieste, tabelle sinottiche da lasciarti senza fiato, nelle quali si avvicendavano le cifre del debito pubblico, gli stipendi pagati ai dipendenti dello Stato e del parastato, il costo delle Ferrovie, il peso delle imposte e infine l’intero ammontare della spesa pubblica, cioè la metà di tutto il prodotto italiano, imputato in blocco al costo della politica. In studio due o tre personaggi con volti gravi e occhi spiritati annuivano e rilanciavano.
Quando ho spento il televisore (era quasi l’una dopo mezzanotte) ero francamente spaventato. A tal punto che lo stesso dibattito mi è ricomparso in sogno con le sembianze dell’incubo e la sensazione di essere fisicamente stritolato da una morsa che si stringeva su di me togliendomi l’aria e il respiro.
Enrico Mentana, quando ci si mette, è bravo, non c’è che dire.
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Il 27 dicembre del 1944 Guglielmo Giannini fondò il settimanale "L’Uomo qualunque", che ebbe come insegna un omino inerme schiacciato da un torchio. Il primo numero tirò 25 mila copie ma appena cinque mesi dopo, nel maggio del ‘45, era già arrivato a 850 mila.
Lo scopo del settimanale era di dar voce all’uomo della strada contro i partiti di qualunque colore, contro lo Stato, contro il centralismo, ovviamente contro il comunismo e contro "gli antifascisti di professione".
Il 21 giugno di quello stesso anno nasce il governo presieduto da Ferruccio Parri che per Giannini diventò il bersaglio numero uno. Lo scontro aumentò il successo del settimanale. Sotto la spinta d’un vento così favorevole Giannini fondò il partito dell’Uomo qualunque; si aprirono sedi in tutta Italia, il giornale superò il milione di copie, fu tenuto a Roma il congresso di fondazione.
Il programma approvato all’unanimità «concepisce lo Stato come semplice ente amministrativo e non politico. Lo Stato deve essere presente il meno possibile nella società. L’economia deve essere lasciata totalmente ai privati in un sistema totalmente liberista». I punti cardine del partito enumerati nel programma erano: Lotta al comunismo. Lotta al capitalismo della grande industria. Propugnazione del liberismo economico individuale. Limitazione del prelievo fiscale. Negazione della presenza dello Stato nella vita sociale del Paese.
Il 2 giugno del ‘46 «L’Uomo qualunque» si presentò alle elezioni per l’Assemblea Costituente, ottenendo 1.211.956 voti, pari al 5,3 per cento, diventando il quinto partito italiano dopo la Dc, i socialisti, il Pci e l’Unione Democratica Nazionale di Croce, Orlando, Nitti. Ebbe 30 deputati. Nel ‘47, quando De Gasperi ruppe con le sinistre, l’Uomo qualunque appoggiò il governo centrista, ma questo fu l’inizio della sua fine. I qualunquisti finirono per confluire nel Partito monarchico e nel neonato Movimento sociale.
Fino al 1947 il giornale e il partito ricevettero sostegno finanziario dalle associazioni agrarie meridionali e dalla Confindustria.
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Qualunquismo, antipolitica, populismo, demagogia: sono quattro parole che configurano modalità ed esprimono modi di sentire abbastanza simili, pur non essendo termini sinonimi. Nella vita pubblica italiana queste modalità e questi sentimenti rappresentano una costante da molti anni, dalla fondazione dello Stato unitario ma anche prima, soprattutto nelle province del Mezzogiorno.
Una costante, ma per fortuna non una dominante se non a tratti e per brevi periodi. Per diventare dominante ci vogliono condizioni che esaltino quella costante e la propaghino nella psicologia di massa.
Una condizione è la debolezza dell’autorità politica. Un’altra è la debolezza delle organizzazioni dei lavoratori. Un’altra ancora è l’assenza d’una borghesia forte e responsabile. E il proliferare delle corporazioni e dei sindacati corporativi. L’ultima condizione infine è la presenza di demagoghi e populisti capaci di cavalcare il qualunquismo e trasformarlo in una forza d’urto che pervada le istituzioni e le offra al potere dei demagoghi di turno.
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Ho letto con molta attenzione l’omelia, o se volete la «lectio magistralis» di Luca Cordero di Montezemolo e ne ho sottolineato i passi salienti, i punti di consenso e quelli – dal mio punto di vista – di dissenso. Poiché molti amici e lettori mi hanno chiesto di esprimere un’opinione in proposito, dirò che i punti di consenso sono nettamente superiori a quelli di dissenso, sicché – sia pure con alcune note a margine – potrei concludere con un’approvazione finale.
Le note a margine riguardano: 1. Il mancato riconoscimento del risanamento finanziario come premessa indispensabile della ripresa economica. 2. Il merito della ripresa attribuito soltanto agli imprenditori e al mercato. 3. Il silenzio sulle responsabilità di molti imprenditori in operazioni truffaldine che hanno pesantemente colpito il risparmio e la fiducia. 4. Le leggi e le politiche dissennate del quinquennio berlusconiano, per terminare con una legge elettorale votata da tutto il centrodestra a cominciare dall’Udc di Casini, che ha reso ingovernabile il Parlamento e il Paese.
Non sono note a margine trascurabili, ma le tralascio: sono state già segnalate e approfondite nei giorni scorsi, sicché le do per note, lo stesso Montezemolo del resto mi pare che le abbia riconosciute come valide e ne abbia fatto ammenda.
Confermo che, nonostante tali rilievi, la «lectio» confindustriale mi pare meritevole di consenso. Però...
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Il punto in questione riguarda la nascita d’una nuova borghesia. Montezemolo ha più volte insistito su questo aspetto e c’è ritornato nelle dichiarazioni del giorno dopo: è nata una nuova borghesia che sta facendo la sua parte. Lavora come e più di tutti. Effettua investimenti. Innova i prodotti e i processi di produzione. Accorcia lo svantaggio competitivo. Ha ridato slancio alle esportazioni.
In forza di questi meriti la nuova borghesia chiede, anzi pretende: meno tasse sulle imprese, piena mobilità del lavoro, ammortizzatori sociali adeguati, liberalizzazioni in tutti i settori, riforma delle pensioni in armonia con gli andamenti demografici, riconoscimento del merito in tutti i settori e a tutti i livelli.
La nuova borghesia ha già fatto ciò che il Paese si attendeva e continuerà a farlo, ma non può esser lasciata sola. Il governo finora è stato inadeguato e indeciso. Partiti e Parlamento altrettanto o peggio. Opposizione forse pure. Si mettano dunque al passo.
Gran parte di queste richieste sono condivisibili, anzi sacrosante. Per quanto ci riguarda le sosteniamo da mesi, anzi da anni. Ma l’osservazione che qui solleviamo riguarda la nuova borghesia, innovatrice, liberista e liberale, corretta con le regole del mercato. E dunque meritevole. Con quel che segue.
È già nata questa nuova borghesia, amico Montezemolo? E quando? Lei stesso fa datare il risveglio, la ripresa, l’innovazione a due-tre anni fa. Più o meno dall’inizio della sua presidenza in Confindustria. Prima di allora, è verissimo, l’innovazione era ridotta ai minimi termini, gli investimenti languivano, il Pil aveva addirittura cessato di crescere. Crescita zero.
Non voglio discutere le sue capacità salvifiche ma chiedo: in tre anni, in un paese dal quale la borghesia è scomparsa da almeno vent’anni, ce la troviamo rinata all’improvviso come Minerva che uscì armata di tutto punto dalla testa di Zeus? Non è credibile.
Le esportazioni sono aumentate. Verso quali aree del mondo e in quali settori della produzione? Lei lo sa benissimo. Perché non lo ha detto?
Gli investimenti. Quelli privati la soddisfano perché sono aumentati di ben il 2,3 per cento. Ma più oltre lei lamenta che quelli pubblici sono aumentati "soltanto" del 4 per cento. Quattro non è forse il doppio di due?
C’è un punto della sua relazione in cui lei, giustamente, lamenta l’evasione fiscale enorme e il sommerso altrettanto enorme. Ha ragione. Ma chi evade? E chi si sommerge? Che mestieri fanno i sommersi e gli evasori? Fanno molti e vari mestieri, ma concederà che quelli che pagano con il sostituto d’imposta evadono infinitamente meno di tutti gli altri. Ne dobbiamo dedurre che gli evasori sono tutti e soltanto i liberi professionisti?
Lei non ha parlato delle violazioni delle regole di mercato. Uno dei suoi vicepresidenti seduto accanto a lei ne rappresenta un luminoso modello: quello di aver controllato fino a ieri la più grande società per azioni italiana rischiando in proprio l’1 per cento del capitale. Sono questi i meriti da imitare e riconoscere?
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Gentile presidente di Confindustria, di Fiat, di Ferrari e di parecchie altre iniziative certamente meritevoli, noi abbiamo la sensazione che la nuova borghesia non sia ancora nata e – purtroppo – sia ancora sulle ginocchia di Giove. Lei fa benissimo ad auspicarla. Fa benissimo a dedicare i tre quarti del suo discorso ad una politica insufficiente e indecisa. Fa benissimo a parlare più da cittadino che da capo della sua associazione. Ci ruba un po’ il mestiere, ma ben venga.
Per fortuna per farci conoscere qualche cosa di più approfondito sui problemi dell’industria italiana c’è stato, dopo il suo, l’intervento del ministro Bersani. Se la platea dell’Auditorium fosse stata popolata dalla nuova borghesia, Bersani avrebbe avuto applausi appena appena inferiori a quelli avuti da lei. Non la pensa anche lei così? Non l’ha un po’ colpita constatare che l’ovazione più lunga al suo discorso è venuta quando lei ha scandito che gli industriali non pagheranno un solo euro di più di tasse? Dichiarazione ineccepibile. Da sottoscrivere. L’aveva già detto Mario Monti. Non parliamo di Giavazzi. Vedrà che il 31 maggio lo ripeterà Draghi e sarà più d’una triade, sarà un quadrumvirato. Ci vogliamo aggiungere anche Pezzotta e i cardinali?
Per finanziare tutte le richieste che vengono i soldi ci sono: basta cancellare il debito con un colpo di bacchetta, abolire la spesa pubblica seguendo le indicazioni di Matrix, e oplà, non è poi così difficile. I soldi si trovano sempre. Basta decidere da quali tasche prenderli.
Lei mi risponderà: dal sommerso e dall’evasione. Perfetto, è il programma del governo Prodi. Visco ci sta provando e qualche risultato è già arrivato. Forse è per questo che stanno facendo il tiro a bersaglio su di lui.
Le do una cifra, amico Montezemolo: la vecchia borghesia – la sola che l’Italia abbia avuto in 150 anni di storia unitaria, la cosiddetta destra storica – pagò attraverso l’imposta fondiaria il 52 per cento di tutte le entrate tributarie dello Stato nel periodo in cui governò, tra il 1861 e il 1876. Il 52 per cento. Era una borghesia composta interamente da proprietari fondiari.
Le entrate extra tributarie vennero dalla vendita dei beni ecclesiastici, avocati allo Stato e venduti da Marco Minghetti.
Purtroppo tarderà a nascere, se nasce, una borghesia di quel conio, che nazionalizzò le ferrovie e le assicurazioni sulla vita.