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Miracolo al Cairo
7 Giugno 2009
Articoli del 2009
Il discorso di Obama al Cairo segna la fine dell’epoca dello “scontro di civiltà”. Le aspettative e le difficoltà nei commenti di V. Parlato, M. Ciotta, R. Zanini, I. Dominijanni, su il manifesto, 5 giugno 2009 (m.p.g.)

Miracolo al Cairo

di Valentino Parlato

Non mi pare esagerato definire storico il discorso di Barack Obama all'Università del Cairo. Un discorso storico con piena coscienza della globalizzazione e dei grandi pericoli che comporta l'attuale crisi, che non è solo economica.

E' innanzitutto il taglio netto con la teoria e pratica dell'esportazione della democrazia di G.W. Bush e dei suoi accoliti in Europa e nel mondo: «l'America - ha detto - non presume di sapere quello che è il bene per tutti» e tanto meno di avere la tentazione di imporlo. La tolleranza - vale ricordarlo - era un alto valore per gli Illuministi. Fine della pratica dell'esportazione della democrazia e massima attenzione a quella parte del mondo dove massimi sono i pericoli di un'improvvisa deflagrazione di violenza: il Medio Oriente, l'Islam, la Palestina.

Sull'Islam - va ricordato - era emerso lo «scontro di civiltà». Obama ha detto che bisogna apprezzare i valori propri anche dell'Islam, ha ricordato Gerusalemme come patria delle tre religioni monoteiste e il dovere di «combattere contro gli stereotipi sull'Islam ovunque appaiono». Dopo i furiosi attacchi all'Iran, il presidente ha detto che «l'Iran dovrebbe avere accesso al nucleare pacifico, ma deve aderire al Trattato di non proliferazione».

Razionale e appassionato, da indurre commozione in chi legge e ha memoria di un pogrom sanguinoso. Il riconoscimento delle tragedie del popolo ebraico è il massimo, e massimo è l'impegno del suo governo a difenderlo e difendere lo stato di Israele, ma proprio con la forza di questa posizione afferma il diritto dei palestinesi, perseguitati e offesi, ad avere uno stato. «I legami degli Stati uniti con Israele sono inattaccabili, ma la situazione dei palestinesi è intollerabile, soffrono da 60 anni». E Israele deve fermare gli insediamenti.

E' la proposta di un nuovo inizio al mondo musulmano; fine dell'esportazione della democrazia; libertà religiosa; libertà delle donne («una donna che sceglie il velo non è meno uguale ma è negata l'eguaglianza a una donna alla quale si nega l'istruzione»).

I nodi più difficili da sciogliere sono l'Afghanistan e la Palestina: l'Afghanistan non ha storicamente portato bene a nessuno di quelli che sono intervenuti, con l'attuale governo israeliano, il riconoscimento dello stato palestinese sarà difficile. Vanno notate le reazioni al discorso di Obama: molto fredde da parte di Israele mentre Hamas, pure rimproverata, si è dichiarata disponibile a trattare. Vedremo.

Quello di Obama, lo ripeto, è un discorso storico e coraggioso. Coraggioso perché il successo appare molto difficile e - a parer mio - non tanto per Bin Laden, quanto per le profonde frustrazioni del mondo islamico, la sua confusione e le sue ingiustizie sociali.

Molto difficile anche nei confronti di Israele, il cui attuale governo ha già mandato al diavolo Obama quando Nethanyahu è stato a Washington.

Quel che mi pare certo è che un insuccesso di Obama porterebbe il mondo alla soglia di una catastrofe. L'Europa che ha ancora qualche peso dovrebbe muoversi, e non con le basi di Sarkozy, in Medio Oriente.

Ridisegnare il mondo

di Mariuccia Ciotta

Mente e cuore non risuonano come armi, l'appello di Barack Obama parla a quella zona immateriale della politica che, al contrario dell'opinione di numerosi osservatori, è l'unica «realistica».

Si rimprovera al presidente degli Stati Uniti l'inconsistenza del suo discorso, quel soft-power che, al di là dell'evidente fascino, non sarebbe efficace nel risolvere gli storici e immensi problemi del Medio Oriente e del mondo in generale. Obama, dicono, lavora sulle «percezioni» e non sulla dura realtà. Farà seguire alla parola i fatti? ci si chiede, e non tanto per sfiducia nell'uomo, ma per una valutazione del «metodo» che appare poco adeguato alla potenza degli interessi in campo.

Qualcuno è convinto, sostiene Obama, che civiltà, religioni, paesi «siano destinati a scontrarsi», che il peso del passato è tale da impedire un nuovo inizio. «Ma io penso che si debba ricominciare da zero, che soprattutto i giovani sono chiamati a ri-immaginare il mondo». E qui si sente l'eco di Franklin D. Roosevelt quando nella Grande crisi esortava a «ridisegnare l'America», e quella visionaria di Bob Kennedy nell'ultimo intervento all'Ambassador Hotel di Los Angeles prima di essere assassinato.

Pallottole virtuali si incrociavano nella splendida cornice dell'università egiziana a ogni passaggio dello storico incontro con l'Islam. La forza del discorso del Cairo è di averlo indirizzato agli individui e non al tavolo separato dei trattati, un discorso che ha scartato dal «possibile», ciò che è concretamente fattibile come la creazione di due stati, Israele e Palestina, per dire ciò che è ineludibile. Ciò che è giusto fare, «non in un giorno... e questo discorso non basterà».

È una rivoluzione culturale alla quale invita a partecipare, e, non a caso, si è riferito spesso al «quel che teniamo nel cuore... quel che si dice in privato», piuttosto che al «buon senso» pubblico, alla real-politik.

Chi rimprovera il presidente di percorrere la via catastrofica delle buone intenzioni dovrebbe ricordarsi della sua scelta di preferire i ghetti di Chicago alle sontuose proposte di carriera nei più prestigiosi istituti legali e bancari all'indomani della consacrazione di Harvard - Barack ne uscì come lo studente più dotato. Colleghi e amici profetizzarono allora la sua fine. Quella scelta confliggeva con la logica di un futuro ricco e prestigioso, era controcorrente, assurda e autolesionista. Sappiamo come è andata a finire. E ancora adesso, consapevole che «le parole non bastano, ci vogliono le azioni», il presidente guarda oltre gli ostacoli e sa che «non possiamo imporre la pace». È facile cominciare una guerra, dice, è difficile porle termine. E ancora: «le elezioni da sole non fanno la democrazia». È necessario assaporarla giorno per giorno.

C'è nelle parole di Barack Hussein Obama un «noi» che include occidente e oriente e che si distingue dalla narrazione di un mondo incatenato ai rapporti di forza. Non c'era altro discorso possibile che suonasse come racconto corale, capace di mobilitare gli unici protagonisti del cambiamento, ognuno e tutti.

L'Impero del bene

di Roberto Zanini

We love you, we love you, ti amiamo, quanto ti amiamo. I duemila studenti dell'università del Cairo applaudono, gridano, ridono, proprio come un sacco di telespettatori arabi e non (un miliardo e mezzo, dicono), incollati alla tv dalle promesse dell'uomo nuovo all'attacco del mondo vecchio. Annunciato e riannunciato, limato fino all'ultimo, atteso con speranza e con scetticismo, Barack Hussein Obama è arrivato al Cairo per dire della sua America e dell'Islam, per ricucire l'epico strappo tra la monopotenza e la sola «religione del Libro» rimasta fuori dal mondo ridisegnato dal crollo di Berlino. L'America di Obama contro quella di Bush, quella delle guerre in cui dio e il petrolio combattevano fianco a fianco, dello scontro di civiltà come asse del discorso politico, del regime a paese unico.

Barack Hussein Obama parla da un paese che non esiste più. Prova a disegnare una pax americana basata non più - o non solo - sulla canna del fucile. L'università del Cairo applaude, l'occidente applaude, la sua America applaude. Qualcuno scuote la testa e dice belle parole ma aspettiamo i fatti. Le truppe americane restano in Iraq e aumenteranno in Afghanistan, generose iniezioni di denaro puntellano un sistema economico che ha spogliato i molti per arricchire i pochi, il sistema di alleanze non si discute e non si discuterà ancora a lungo. Per ora, l'America di Obama esiste più che altro sulla carta.

Nelle seimila parole con cui il presidente degli Stati uniti ha acceso la platea egiziana non c'è mai il termine «terrorismo»: mai nemmeno una volta, sistematicamente sostituito da «estremisti violenti» o perifrasi simili. Ha usato cinquantacinque minuti, Barack Obama, per convincere l'islam e il mondo che l'America è cambiata. E cambiata lo è davvero, nelle parole del presidente. Che ha giocato tutte ma proprio tutte le carte possibili: i richiami alla sua pelle nera, il padre immigrato e islamico, la sua iniziale opposizione alla guerra in Iraq, il rooseveltismo implicito nei «sei punti» del suo discorso, così simili alle «quattro libertà» con cui Franklin Delano e signora convinsero il loro paese a occuparsi dei tiranni del mondo, e dei nazisti in particolare, quasi settanta anni fa. Persino il ricordo del più famoso musulmano d'America, Mohammed Alì, scelto per accendere la torcia olimpica nelle olimpiadi di Atlanta, quelle del centenario che la Cocacola e le sue sorelle vollero negli Stati uniti invece che ad Atene. E frequenti citazioni del Corano, pure immediatamente seguite dalla Torah e dalla Bibbia.

Pace accordo e distensione, ha detto Obama all'islam, e parlava dietro quasi invisibili vetri antiproiettile che proteggevano il podio dell'università, già luce laica del mondo arabo, che il lungo regno del «faraone» Mubarak - al potere da quasi trent'anni - ha gradualmente spento e sostituito con fratellanze musulmane più o meno bellicose (mentre le cronache egiziane riferivano di retate ad ampio raggio contro islamisti e integralisti vari, perché niente potesse disturbare il grande giorno della pacificazione tra Washington e il nemico di ieri).

«Cerco un nuovo inizio tra gli Stati uniti e i musulmani di tutto il mondo», ha detto il presidente. E del nuovo c'è, nel tono e nella sostanza. Critiche alla guerra in Iraq («quanto è successo in Iraq è servito all'America per comprendere meglio l'uso delle risorse diplomatiche e l'utilità del consenso internazionale»), la conferma del ritiro da Baghdad («onoreremo la promessa di ritirare il contingente combattente dalle città irachene entro luglio e tutti i nostri uomini dall'Iraq entro il 2012»), il riconoscimento della tragedia palestinese («che non ci siano dubbi: la sofferenza dei palestinesi è intollerabile»), qualche monito all'espansione israeliana («gli Stati uniti non ammettono la legittimità dei continui insediamenti israeliani, che violano i precedenti accordi e minano gli sforzi volti a perseguire la pace»), i diritti delle donne («che non riguardano in alcun modo l'islam: in Turchia, Pakistan, Bangladesh e Indonesia abbiamo visto paesi a maggioranza musulmana eleggere al governo una donna»), persino il riconoscimento che tutti, anche Tehran, possano avere accesso al nucleare («Tutte le nazioni, compreso l'Iran, dovrebbero avere il diritto di accedere all'energia nucleare pacifica se rispettano i propri impegni in seno al trattato di non proliferazione nucleare»).

Dopo il discorso del Cairo, il tempo di un salto alle Piramidi e oggi Barack Obama sarà a Buchenwald, a certificare che la sutura della ferita musulmana non ne apre un'altra con Israele e con gli ebrei. Lo chiamano Hussein, gli estremisti sionisti e la loro stampa, per mettere l'accento sulla pericolosità intrinseca dell'uomo che ha sostituito il «cristiano rinato» Bush alla Casa Bianca. Il discorso sull'islam è già stato definito storico e sono stati immediatamente scomodati paralleli con Kennedy, Eisenhower, Truman e predecessori. Per ora sono parole. Per vedere il ritratto di Obama intagliato nella roccia di Mount Rushmore ci vorrà del tempo.

Con e senza velo. Come si archivia un lessico politico

dii Ida Dominijanni

Tre citazioni dal Corano, dal Talmud e dalla Bibbia chiudono il discorso di Obama al Cairo e archiviano l'epoca senza grazia dello «scontro di civiltà», che altro non è mai stato che uno scontro interno ai tre monoteismi. «A new beginning», un nuovo inizio, può cominciare, e comincia, nello stesso stile del discorso di insediamento del Presidente a Washington, col richiamo a tenere a mente il cuore vivo della tradizione. Lì sta la fonte sorgiva del futuro anteriore, che è il tempo della rivoluzione. Nel tempo di adesso, che ancora una volta per Obama è quello della responsabilità, c'è il compito di liberarsi del passato prossimo e del suo vocabolario politico devastato e devastante. Storico per l'apertura politica e geopolitica, il discorso di Obama non lo è di meno per la nitidezza culturale con cui archivia certe parole e altre ne impone.

E' una diversa percezione del mondo globale che irrompe dalla voce del presidente afroamericano cristiano venuto da padre kenyota e famiglia musulmana. Non più «noi» e «loro», il fantasma dell'Occidente e quello dei barbari, ma la realtà postcoloniale di un mescolamento già avvenuto: «l'Islam è parte della storia americana», la abita da decenni e da secoli nutre la cultura occidentale. Nella «new age» globale, «interdipendenza» è la parola chiave, la stessa che l'America ferita dall'attacco dell'11 settembre non volle prendere in considerazione. E se interdipendenza è la parola chiave, se la posta in gioco non è questa o quella nazione bensì la «comune umanità», bisogna ripartire dai «principi comuni» - giustizia, progresso, tolleranza, dignità umana - che Islam e America condividono.

Tutto il resto, nell'operazione di archiviazione del vocabolario politico e sentimentale dell'epoca dello scontro di civiltà, consegue da qui. «Sospetto, discordia, paura, scetticismo, diffidenza» devono cessare e lasciare il posto al senso di reciproca obbligazione, al dialogo interreligioso, alla «fiducia nell'altro». Gli stereotipi devono cadere, ma da tutte e due le parti: nella percezione americana dell'Islam, ma anche nella percezione islamica dell'America, giacché «noi americani», l'Impero di oggi, «siamo nati da una rivoluzione contro un impero». La violenza deve finire, da tutte e due le parti, fra America e estremismo islamico e fra Israele e Palestina, perché è la storia dei neri americani, degli immigrati negli Usa dal Sud Africa, dal Sud Asia, dall'Europa dell'Est a dire «una semplice verità: che la violenza è una strada senza uscita».

Ma è quando arriva nel territorio della religione occidentale per eccellenza, quello della democrazia, che l'operazione di ripulitura del vocabolario politico rende al meglio, perché è stato esattamente sul senso della democrazia, sulla sua «esportazione » all'esterno e sulla sua sfigurazione all'interno, che quel vocabolario è impazzito, dopo l'11 settembre, negli Stati uniti nonché in Europa. Qui Obama non si limita a dire che «nessun sistema di governo può o deve essere imposto a una nazione da un'altra», così archiviando le dichiarazioni di guerra fatte in nome di questo nobile scopo. Aggiunge il richiamo allo stato di diritto, rivendica la fine della tortura e la chiusura di Guantanamo.

E fa di più, inoltrandosi nel campo della libertà femminile e dell'uguaglianza fra i sessi, consapevole che in materia «c'è un dibattito sano» e complesso, ma che il punto è ineludibile e cruciale, vera e propria cartina di tornasole della tenuta o del tracollo del discorso democratico di fronte alla sfida della differenza fra i sessi, le culture, le religioni. Non per caso la legittimazione delle guerre in Afghanistan e in Iraq era passata anche e non secondariamente sotto la bandiera della «liberazione» delle donne dal patriarcato islamico, una liberazione che sottintendeva l'equazione - indebita - fra libertà femminile e libertà occidentale; e non per caso il dibattito sulla liceità dell'uso del velo da parte delle immigrate islamiche nelle democrazie occidentali è stato negli ultimi anni il versante «pacifico»di questa ideologia, in Europa più che negli Usa. Anche qui, Obama fa ordine come meglio non si potrebbe. «Non condivido l'opinione di alcuni in Occidente che una donna che sceglie di coprirsi i capelli sia meno uguale delle altre, ma credo che a una donna a cui è negata l'istruzione è negata l'uguaglianza». Ma d'altra parte, «Non credo che le donne debbano fare le stesse scelte degli uomini per essere uguali, ma deve essere loro la scelta». I diritti di uguaglianza sono nelle mani dei governi, ma la libertà femminile è nelle mani delle donne, e non sempre passa per l'uguaglianza, o non solo. A ovest e a est, la credibiluità della democrazia passa anche da qua.

La dottrina di Barack Hussein

Stefano Allievi

L'annuncio della svolta c'era già stato nel discorso di Chicago, al momento della sua elezione, e poi nell'intervista ad Al-Arabiya di gennaio, nel discorso della mano tesa all'Iran, e ancora nell'intervento al parlamento turco in aprile.

Con il discorso del Cairo, il grande discorso da una capitale islamica annunciato entro i primi cento giorni di mandato, e arrivato un po' in ritardo sulla tabella di marcia, ma con un grado di consapevolezza inaspettato, la svolta si è compiuta. La «dottrina Obama», come già oggi è lecito chiamarla, viene declinata in tutti i suoi aspetti, in un'ora di discorso densissimo di riferimenti: che, non è un'esagerazione, segnerà le relazioni tra Stati Uniti e mondo islamico, e più in generale tra islam e occidente, negli anni a venire.

Non si tratta solo di una grande offensiva mediatica, volta a cambiare l'immaginario e la simbolica delle relazioni tra Stati Uniti e mondo islamico: che già sarebbe importante. La svolta, anche di stile, rispetto alla precedente amministrazione Bush e più in generale alla politica estera americana, non potrebbe essere più netta: davvero «a new beginning».

Obama ha capito che non si trattava solo di fare un gesto di buona volontà: una nuova visione dei rapporti con l'islam è anche chiaramente vantaggiosa per gli Usa, tanto quanto la precedente politica è stata controproducente. E Obama non solo lo pensa: ci crede. Di più: questa visione la incarna nel proprio nome e la vive sulla propria pelle, letteralmente. E consapevolmente.

Le linee guida di questa politica non sono cambiate dalla sua elezione: fine dell'unilateralismo e dell'isolazionismo, apertura di credito al mondo islamico (ferma sui principi, ma attenta ai problemi interni e amichevole nello stile), fine del collateralismo compiacente con Israele. Testimoniato dalle parole ferme sugli insediamenti, che non si sentivano da anni da parte della leadership americana; ma senza nulla concedere al pregiudizio antiebraico così fortemente presente nel mondo islamico.

Non è un gesto di debolezza, questo di Obama: al contrario, è una posizione di forza, che non potrà non piacere ad un mondo arabo che culturalmente ha ancora il mito della nobiltà del gesto e della forza d'animo del capo, anche se lo pratica assai poco, e a cui piace farsi sedurre dal carisma politico del leader.

La definizione della «dottrina Obama» nei confronti dell'islam procede quindi senza incertezze.

C'è solo da auspicare che, come in passato per altre «dottrine», si sostanzi di una politica di lungo termine e, quindi, di atti concreti. I segni concreti si sono già visti: la chiusura di Guantanamo è già avviata, il ritiro dall'Iraq pianificato, seppure non così a breve termine come qualcuno si aspettava, l'impegno per la soluzione del conflitto israelo-palestinese attivato, e persino un diverso atteggiamento nei confronti dell'Iran ha cominciato a manifestarsi (l'incognita, semmai, è se sarà raccolto).

Le questioni spinose le ha nominate tutte, e questo è un buon punto di partenza. Quelle spinose per gli Stati Uniti: le reticenze maggiori si sono registrate sull'Iraq, che non ha avuto il coraggio di chiamare almeno un errore, come ha fatto prima di essere presidente, se non una tragedia. E quelle spinose per i musulmani: diritto all'esistenza e alla sicurezza di Israele, democrazia, libertà religiosa, diritti della donna. Ma ha avuto l'intelligenza di rivolgersi, con un doppio livello di intervento, sia ai governi che ai popoli: e almeno con i secondi il successo di Obama appare garantito.

Intanto c'è da registrare almeno che il clima è cambiato. Negli Stati Uniti, nei confronti dei paesi islamici e dei musulmani. E, prima ancora, nei confronti delle opinioni divergenti, dato che, dal Dipartimento di Stato alle università, non dominano più i falchi dell'islamofobia guerrafondaia che avevano reso irrespirabile l'aria negli anni di Bush. Ma soprattutto tra i musulmani: l'applauso da popstar che ha concluso il suo discorso, seppure tributato da un pubblico particolare, lo sancisce.

Intanto, c'è da domandarsi se anche l'Europa sarà capace di farsi sentire.

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