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Fabrizio Ravelli
Milano: se la Casbah adesso fa paura
6 Giugno 2009
Articoli del 2009
La realtà, che non piace agli imprenditori della paura, e ai pasdaran del “mercato”. “La trasformazione si paga, soprattutto se non è governata, spiegata, condivisa”.La Repubblica, 6 giugno 2009 (f.b.)

Sull´insegna dell’Osteria della Luna Piena si ricorda che il locale è "memoria manzoniana", per dire che ci passò Renzo Tramaglino. Adesso, davanti al Phone Center a pochi metri dall’osteria, ci sono due sudanesi rifugiati politici. Disoccupati. Senza casa. Da due anni. Dormono dove capita.

Via Lazzaro Palazzi, Porta Venezia, quella che chiamano la "casbah" milanese, miscela di Africa e memorie manzoniane. Due passi più in là c’è la chiesa di San Carlo al Lazzaretto, una lapide ricorda la carità dei frati cappuccini nell’assistere gli appestati. Dentro al suo ristorante il signor Alberto Lorenzetti è cupo: «Basta, sono stufo. Non vado neanche a votare stavolta, anche se sono di destra». Il signor Lorenzetti è nato in Etiopia, figlio di una donna etiope e di un milanese. Ha la pelle scura, il suo ristorante si chiama Saba, ci si mangia lo zighinì. Vive e lavora anche lui in quella Milano che l’altro giorno Silvio Berlusconi ha definito «una città africana».

Italiano a tutti gli effetti («Tredici mesi di naja, e ho sempre pagato le tasse»), milanese, ristoratore, tassista. «Faccio il tassista da diciassette anni, e adesso anche mio figlio. Fra il taxi e il ristorante lavoro diciotto ore al giorno. Siamo undici fratelli, e tutti lavorano». La pelle scura comincia a pesargli, e non era mai successo. «Le cose stanno peggiorando. Mi fa pena questa Italia, e lo dico da italiano. Io sono italiano, e italiano mi sono sempre sentito. Ma adesso, dopo 33 anni, comincio a sentirmi straniero. Non ho più l’età, altrimenti me ne andavo».

I cattivi umori toccano ora anche Porta Venezia, la cosiddetta "casbah"milanese, un posto dove la parola multietnico non suona allarmante. Porta Venezia è così da quarant’anni almeno. Non è un’idea possibile di convivenza: è una realtà, una tradizione, un’abitudine. Il bar Ethiopia sta di fronte alle cantine di Peppino Strippoli. Il caffè Addis Abeba e la trattoria Lucca in via Panfilo Castaldi. La miscela è antica. Nessun problema, ti ripetono.

Il problema, però, esiste ed è complicato. La città è complicata. Le cifre dicono: a gennaio 2009 c’erano a Milano 188.980 stranieri regolari (14,6 per cento della popolazione), più 38 mila irregolari. Gli africani regolari sono 58mila. Non tutta la Milano africana è antica come Porta Venezia, non tutta è pacificata e stratificata. Se vai verso fuori, oltre piazzale Maciachini, via Imbonati, via Pellegrino Rossi, lì lo stravolgimento ribollente dei vecchi quartieri lo vedi. Il governo della trasformazione abbandonato nelle mani onnipotenti del mercato. Così, dieci phone center in cento metri, minimarket etnici, kebab: senza un criterio, senza un equilibrio. La paura è dei vecchi, che vedono sparire i punti di riferimento, delle donne anziane alle prese con giovani maschi in gruppo. In via Padova, lo spaccio notturno, le bottiglie rotte, quelli che pisciano sui portoni. Gli stranieri appena arrivati sono più poveri, e coi poveri vanno a vivere, gomito a gomito. Agganciano legami dentro le loro comunità, creano reti di sopravvivenza separate, sono intraprendenti. Le differenze sono di colori, non solo quello della pelle, di abitudini, di odori. La Milano che invecchia fatica ad adattarsi, si vede diversa, non si riconosce. Ogni tanto esce una statistica che fa impressione. A Milano il cognome cinese Hu ha superato i Brambilla. In Brianza sono più gli imprenditori Mohammed dei Brambilla.

Qui a Porta Venezia, vecchia Milano multietnica, c’è chi vive tranquillo. Abraham Kibrom è il titolare della Ferramenta Galaxy: «Io sono nato in Etiopia, ma questo adesso sento che è il mio Paese, penso come un italiano, le tasse che pago mantengono i pensionati italiani. Ho diritto ad essere rispettato». E ci dev’essere una vena comune interetnica che attraversa il settore ferramenta, se anche dai concorrenti italiani della "Ferramenta Formenti" di via Panfilo Castaldi la campana è la stessa: «Guardi - dice il signor Licinio - sono trent’anni che lavoro qui, e il quartiere è sempre stato così come lo vede. Multietnico, e senza problemi. E sa cosa le dico? Multietnico per me significa che ho avuto modo di conoscere gente di tante nazionalità diverse. Qui di fianco ha appena aperto una parrucchiera africana: mi ha detto che non si aspettava di stare in mezzo a gente così per bene». Sì, ma se fai cento metri sei in piazza Oberdan, quella dell’Arco di Porta Venezia. Adesso, che è metà pomeriggio, non ne vedi di africani. «Sono in giro per i giardini pubblici», spiega il barbiere Franco che ha la bottega in via Lecco. «Ma venga di notte, o al mattino presto. Sono lì che dormono sulle panchine, o per terra, dentro alle coperte. Non è un bello spettacolo». Sono quelli che stavano in una casa abbandonata in viale Tunisia, li hanno cacciati e da allora quelli rimasti vagano per il quartiere.

La categoria del multietnico è mobile, piena di sfaccettature. Gino Di Clemente, pugliese di Bisceglie, ha da quarant’anni un bar tabacchi che è una sorta di centro del quartiere: «Questa che chiamavano "casbah" una volta era unica. Io ci sto bene, questo miscuglio mi piace. Mia sorella, che ha 79 anni, apre il bar la mattina alle 6, da sempre. E mai, dico mai, che qualcuno le abbia mancato di rispetto. Il punto è un altro: oggi tutta Milano ha zone come questa, non ce n’è una che si salva. Succede da noi, con cinquant’anni di ritardo rispetto a Parigi o Londra. Non è facile».

Certe cose a Porta Venezia, venerabile "casbah", ormai passano via tranquille. Il bar gay che alla sera è una bolgia. Il ristorante mongolo. Il Krishna Bazaar. Ma prendi tutto questo, e impiantalo in un quartiere di periferia, in maniera travolgente e senza regole. Tutt’altra faccenda. La trasformazione si paga, soprattutto se non è governata, spiegata, condivisa. I cinesi di via Paolo Sarpi hanno colonizzato un quartiere, comprando in contanti e pagando bene. Ora il Comune prova a rendergli la vita difficile, per le proteste degli abitanti italiani. Con gli africani è peggio, perché il colore della pelle pesa eccome. I phone center sono il nuovo bersaglio per i controlli di polizia e vigili urbani. Perché sono il primo ritrovo. Vai verso fuori, lungo le strade che portano a Nord, alla Brianza, e la sera i marciapiedi sono tutto un crocchio di stranieri.

In via Pellegrino Rossi ogni gruppo sta per conto suo. Sudamericani da una parte. Poi africani suddivisi per paese. Parlano, scherzano, bevono. Lo stare insieme di questa gente, anche quando è innocuo, dà un’idea di fermento e di energia che spaventa i milanesi meno attrezzati, per età e per abbandono. Il signor Antonio, pensionato e ancora pimpante, ha anche il problema di parlare con i suoi amici: «Io sono sempre stato democristiano, adesso mi danno del comunista. E perché? Perché dico che bisogna farsene una ragione, e non aver paura. Mi dicono che non dovevamo lasciarli entrare, che è colpa di quelli di sinistra. Mi tocca sempre litigare, anche se tante volte anch’io faccio fatica ad adattarmi». Un viaggiatore disincantato e disilluso come Corrado Stajano, nel suo ultimo libro "La città degli untori", passa dalla "casbah" del Lazzaretto, dalla Milano africana, e si chiede: «Che siano loro, uomini di un continente di là dal mare, a rinsanguare la stanca città? Forse è un segno di speranza che abbiano messo radici nella città che li rifiuta, proprio nel posto dove infierì peste e distruzione». Ma non si capisce se ci crede davvero.

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