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Massimo Pisa
MIlano: la nuova città costruita sui veleni
13 Novembre 2010
Milano
Un quasi incredibile (ancora oggi) dettagliato bilancio dell’eredità ambientale che ci lasciano lustri di criminalità, a suo modo organizzatissima.Da la Repubblica 12 novembre 2010 (f.b.)

Bell’esempio davvero, per i ragazzi del Beccaria. Lì, di fronte alle finestre sbarrate dell’istituto di pena minorile di Milano, si consuma l’ultimo scandalo di concessioni edilizie facili, di veleni sepolti e mai bonificati, di controlli assenti e responsabilità liquide in nome del dio cemento.

I sigilli disposti dalla Procura all’area dell’ex cava-discarica di Geregnano, ai confini ovest della città, tra i nuovi centri direzionali in costruzione e il capolinea della metropolitana di Bisceglie, raccontano dell’ennesimo cortocircuito tra profitto privato e salute pubblica. Pesticidi, diossina, metalli pesanti, pcb, solventi clorurati, idrocarburi: quasi due milioni di metri cubi di rifiuti indifferenziati e nocivi, accumulati quando non era reato scaricarli nelle cave dismesse, che sgocciolavano nella falda. Bonificarli sarebbe costato troppo, 700 euro al metro quadro: meglio una più economica, ed epidermica, messa in sicurezza. Qui sopra dovevano sorgere due torri d’appartamenti di 30 piani, un falansterio di uffici da 40 piani, un nido e un asilo. Nonostante la prima indagine comunale sui terreni, datata 1998-99, avesse urlato quei rischi. Nonostante un parere della Regione Lombardia del 2002 che ammoniva dal costruire sulle aree contaminate. Nonostante le sospensive e le richieste di integrazione della Conferenza dei servizi. Chi ha chiuso gli occhi? Chi ha approvato il progetto senza ordinare, come scrive il pm Paola Pirotta, «una preventiva e completa rimozione dei rifiuti ivi stoccati»? Quanto costa bonificare un’area da 300mila metri quadri? E quanti siti a rischio contano Milano e provincia?

BONIFICHE, CAPPING, BARRIERE IDRAULICHE E IL CERINO

La vicenda dell’area Bisceglie è una perfetta miniatura di come funzionino le cose nella città dell’Expo, dei palazzinari che non dormono mai, delle istituzioni che continuano a passarsi tra loro il cerino acceso e delle formiche che, nel loro piccolo, si incazzano. Sono gli abitanti del comitato di zona, che cominciano ad accumulare una pila di documenti, analisi di rischio, pareri e verbali che alla fine fanno coagulare in un esposto alla magistratura: da qui i sigilli di ieri. Le carte dell’Asl e dell’Arpa parlano chiaro: dagli hotspots piazzati a campione sui terreni, emerge l’elenco del veleno su cui dovrebbero dormire 4mila persone, dislocate in 1300 appartamenti. Dibromoetano 1.2, tricloropropano 1.2.3, stirene: sostanze letali, già nella falda in sospensione, giù in profondità.

Il consiglio di zona spedisce mozioni e diffide al Comune, i quotidiani cominciano a dare voce ai malumori degli abitanti contro le due società costruttrici, l’Antica Pia Acqua Marcia di Francesco Caltagirone e la Residenze Parco Bisceglie di Edoardo De Albertis, padre di Carla, ex assessore della giunta Moratti. Eppure, il 14 maggio 2009, Palazzo Marino approva (autorizzazione numero 310/152) il Progetto Operativo di Bonifica e Messa in Sicurezza con tutte le sue integrazioni. Di bonifica, nel piano, ce n’è poca: un metro di scavo nel sottosuolo. Per il resto, si passa a procedure di "capping": verrà tappato col cemento e isolato con un enorme telo di polietilene da un millimetro e mezzo di spessore, un sistema di tubi provvederà alla captazione e allo sfogo dei gas dal sottosuolo, una rete di sbarramenti idraulici farà il resto. Previsto anche un periodo di monitoraggio di non meno di dieci anni.

Non basta. Accanto al Comitato Calchi Taeggi si schierano Legambiente e Italia Nostra, che spedisce un esposto di tre pagine al sindaco Letizia Moratti il 18 dicembre 2008. Niente, si va avanti. La Conferenza dei servizi, organo che associa Comune, Provincia, Arpa e Asl, sorveglia e insieme spezzetta le responsabilità. Viene costituito un Osservatorio, ulteriore stratificazione e diluizione dei controlli sull’ex cava di Geregnano: oltre alle quattro istituzioni della Conferenza, partecipa un delegato della Regione, uno del Consiglio di zona, la direzione dei lavori, le due società incaricate della bonifica, le due cooperative supabbaltatrici, il comitato dei residenti. Tengono sette riunioni a partire dal 30 settembre 2009, l’ultima volta, prima dei sigilli, si riuniscono il 7 ottobre 2010. C’è soddisfazione per il vantaggio sul cronoprogramma, la messa in sicurezza è invece «come da programma - si legge nel verbale - in fase iniziale essendo stata realizzata la barriera idraulica e rimanendo da eseguire le attività di capping che costituiranno la fase 2». Tutto va bene, madama la marchesa. Segue sopralluogo.

Rileggere l’elenco dei partecipanti e scorrere le dichiarazioni di ieri è un altro utile esercizio. «Non è una procedura nella quale la Provincia avesse compiti di controllo», garantisce il presidente Guido Podestà. «Piena fiducia ai miei uffici», rassicura l’assessore comunale ai Lavori pubblici, Carlo Masseroli, il teorizzatore della Milano da due milioni di abitanti (oggi sfiora il milione e 300mila). «Non è una responsabilità che abbiamo da soli, ma insieme ad altre istituzioni», sottolinea invece da Palazzo Marino Letizia Moratti. «L’Arpa ha svolto la sua attività in maniera irreprensibile. La responsabilità? Del Comune», ribatte il governatore Roberto Formigoni. È davvero così? È sempre così? Cosa stabilisce la legge?

INTERESSE NAZIONALE, REGIONALE, COMUNALE

«È un casino». In maniera popolarescamente efficace, il medico ed esperto in legislazione sulle bonifiche Edoardo Bai, membro di Legambiente Lombardia, certifica il groviglio normativo. «I siti sono divisi in base al livello di inquinamento. La Sisas di Pioltello e Rodano e l’Acna sono di interesse nazionale. C’è un livello intermedio, di interesse regionale. L’area Calchi Taeggi, così come quella di Santa Giulia, sono di interesse comunale. I controlli normativi sono affidati alla Conferenza dei servizi, ma è il Comune ad approvare i progetti. i controlli sul campo sono invece demandati all’Arpa. O all’Asl in caso di pericolo imminente per la salute». Santa Giulia-Montecity è un altro emblema di questo groviglio. L’area è quella dietro la stazione di Rogoredo, dove sulle ceneri delle officine della Montedison sono sorti i nuovi uffici di Sky e un quartiere residenziale che doveva essere il fiore all’occhiello dell’immobiliarista Luigi Zunino. La firma di Norman Foster sui palazzi, quella di Giuseppe Grossi, il re delle bonifiche, sullo smantellamento dei veleni dell’area. Morale: bonifica mai effettuata (Grossi finisce nei guai), smagliature nei controlli, i sigilli della Guardia di Finanza che arrivano il 20 luglio 2010, un pezzo di quartiere chiuso sotto gli occhi dei residenti, che nel frattempo avevano già acquistato. Pagano tutti, a partire dai bambini: l’asilo a loro destinato poggiava su mercurio e cloroetilene e non è mai stato aperto, carcassa colorata con giardino avvelenato. I bimbi del quartiere sono stati spostati dal Comune un chilometro più in là. Peccato che le pareti di quella struttura grondassero amianto e lana di roccia.

Grossi e Arpa, dunque Regione, dunque Formigoni. Un intreccio che aveva il suo precedente nella vicenda della Sisas di Pioltello, una delle discariche più pericolose d’Europa, in attesa di bonifica dal 9 dicembre 1985, quando una sentenza del Tribunale ordinò di smaltire in maniera definitiva i metalli pesanti, l’acetilene, il nerofumo e i fusti lì contenuti, 290mila tonnellate di rifiuti industriali. Provvedimento mai eseguito, la società fallì nel 2000, il caso finì alla Corte di Giustizia Europea di Strasburgo e una nuova sentenza di condanna, stavolta a carico del governo italiano, cominciò a far scattare il tassametro delle multe: a oggi, siamo a 490 milioni di euro. Per ovviare al problema, nel 2009 Giuseppe Grossi si era proposto alla Regione come salvatore della patria: appalto da 120 milioni di euro, più 44 in nero, la richiesta del re delle bonifiche. Che, arrestato, mollò tutto nel luglio scorso, chiedendo indietro 25 milioni di euro di rimborso dalla Regione.

Storie nere, quelle delle discariche, che attirano interessi pericolosi e le brame della ‘ndrangheta. Scene da Gomorra, come a Santa Giulia, dove i camion di notte scaricavano il materiale scaricato di giorno. Ombre lunghe, come alla cava Bossi tra Pero e Bollate, pienissima area Expo, dove un laghetto artificiale era stato trasformato dalla famiglia Mandalari in una discarica abusiva a cielo aperto da 70mila metri quadri col colpevole silenzio del Comune di Bollate e della Regione. E ancora ‘ndrangheta a Desio, Seregno e Briosco, ancora una discarica abusiva a cielo aperto scoperta nei tre paesi brianzoli dalla polizia provinciale nel settembre 2008, ancora terreni presi in affitto dai comuni e imbottiti di veleni senza che nessuno se ne accorgesse. Ma è quando discariche e cemento si incontrano che si crea, troppo spesso il cortocircuito. Perché le aree più inquinate sono le più appetite dai costruttori? E conviene davvero acquistare un terreno da bonificare, anche solo in parte?

VIZI ITALIANI E IL SUPERFUND STATUNITENSE

«Le aree inquinate - sostiene Bai - sono ormai le uniche dove si può costruire in grande. Il resto è già stato edificato». Gli esempi recenti, a Milano, non mancano. I cinque immigrati che protestano in cima a una torre della multietnica via Imbonati da una settimana per il permesso di soggiorno forse non sanno che quella Potsdamer Platz in miniatura che li circonda era l’ex Carlo Erba, rudere industriale dieci anni fa e oggi luccicante coacervo di uffici. La Fiera a Rho, il Politecnico all’ex gasometro alla Bovisa, i grandi progetti nascono sulle macerie del boom economico. «E la legge 152 del 2006 - aggiunge Bai - il Testo Unico in maniera ambientale, col principio del giusto profitto viene incontro ai grandi costruttori. Porti via un po’ di rifiuti, perché tutti non si può, il resto lo metti in sicurezza perché meglio di così non si può, in cambio delle costruzioni. Poi il privato fa il furbo, non mantiene le promesse, e il gioco è fatto».

C’è poi una specifica lombarda, la legge regionale 126 del 2009, la contestata "legge Grossi" (proprio lui): con le sue forme di compensazione di tipo urbanistico, concede a chi bonifica la licenza di poter costruire altrove con notevoli vantaggi fiscali. «Il problema - sostiene Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia - è economico. Perché gli oneri delle bonifiche continuano a ricadere sul pubblico. Non è sempre facile che il sistema dei controlli sia così rigoroso. E soprattutto, non c’è nessuno che si faccia carico di un’intera bonifica, anche se la messa in sicurezza o lo smaltimento tramite microorganismi non sono nemmeno così economici, visto che il pompaggio di acqua dalla falda deve essere sempre controllato e a tempo indeterminato. E a Milano e dintorni la quantità di siti contaminati è enorme».

Solamente in città sono 36. Si arriva a 80 con la provincia, cifra che raddoppia se si conta la Brianza. E si escludono le aziende a rischio incidenti, la cui lista tra il milanese e il monzese (la Icmesa, la Snia Viscosa e l’Acna sono i tre esempi più famigerati) sfiora il numero mille. «Le ex cave usate come discariche - spiega il consigliere comunale Enrico Fedrighini, dei Verdi - sono quelli dove anche l’intervento di bonifica è più pericoloso. Perché devi andare a scavare e rischi di mischiare materiali già tossici, spingendoli verso la falda. E poi: tutto questo materiale, dove lo sposti, in un altro buco? E dove? Aggiungiamo la lentezza delle burocrazie, centrali e periferiche: l’Italia sullo smaltimento dei rifiuti tossici è la tartaruga d’Europa, troppe responsabilità sulle firme di documenti sono sulle spalle di semplici funzionari, che hanno paura a firmare qualsiasi cosa. C’è anche un problema di organico, a Milano. Il settore Ambiente del Comune è poverissimo, conta solo cinque persone che devono fare fronte a tutti questi problemi».

Costi, controlli e lentezze, sulla nostra pelle. Come uscirne? «Negli Stati Uniti - risponde Bai - esiste il Superfund, e funziona. È una tassa per le bonifiche che pagano gli imprenditori, un fondo da cui si attinge ed è controllato dall’ente pubblico». Qui siamo a Milano, Italia, e non è così semplice. «Un sistema per tagliare la testa al toro - prova Fedrighini - ci sarebbe, evitando il giro di subappalti e le bonifiche al risparmio. L’ho proposto anche alla giunta, che pare interessata. L’idea è semplice: fidejussione del privato costruttore, e gestione degli interventi da parte del Comune, o della Regione, tramite aziende iscritte a un albo con determinati parametri economici ed etici. È una soluzione a costo zero. E definirebbe le responsabilità. Che sarebbero finalmente, senza ombra di dubbio, politiche: del sindaco e dei governatori».

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