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Milano Disalberata
22 Aprile 2010
Milano
Fine di uno dei grandi progetti che dovevano rendere migliore il capoluogo lombardo: quello di Renzo Piano e Claudio Abbado per gli alberi in Duomo. Dal Corriere della Sera, 22 aprile 2010, commento dell’architetto, articolo di Stefano Bucci, più postilla (f.b.)

«Io, Abbado, il verde e un’idea per la città

Il sogno è finito. Peccato»

di Renzo Piano

Le città sono immobili. Talvolta bellissime, ma immutevoli come la pietra di cui sono fatte: sono i suoni, gli odori, la gente e gli alberi ad animarle. Tutto ciò che è effimero e cambia le rende sempre nuove ed inattese, le tiene vive. Mi chiedo cosa sarebbe a Parigi Place des Vosges senza i suoi tigli.

Ci passo sotto tutte le mattine andando in studio, scandiscono il passare del tempo e il susseguirsi delle stagioni: è una delle tante cose che gli alberi fanno in una città. Mi domando se continuerei lo stesso a passarci ogni mattina, oppure se cambierei strada per incontrare altri alberi. Un delicato gioco d’equilibrio, un’alchimia tra durevole e passeggero; forse è questo il segreto di una città felice?

Sono architetto, e naturalmente sono innanzitutto sedotto dalla città costruita: la sua è una bellezza edificata dal tempo. È il tempo che rende le città così complesse e così ricche, specchio come sono di infinite vite vissute tra le loro mura. Le città belle sono una delle più straordinarie e complesse invenzioni dell’uomo, veri monumenti allo stratificarsi del tempo. Ma sono gli alberi a scandire il tempo che ha reso belle queste città. Sono loro la finestra aperta sul ciclo della natura, che poi è anche il ciclo non eterno della nostra vita. E ci ricordano che anche noi facciamo parte della natura, con tutte le conseguenze del caso. Per questo guardare un albero in un dialogo silenzioso è una piccola ma profonda seduta di autoanalisi. Un momento di silenzio e di meditazione, una breve pausa dedicata allo spirito. Con gli alberi si stringe un patto di complicità contro il tempo che passa. Si scambiano promesse alla fine di ogni stagione, e ci si dà appuntamento al ritorno di quella successiva.

Piantare gli alberi in città è un gesto d’amore, ma è anche un gesto generoso che altri godranno dopo di te. Nel farlo sai che solo tra cinquant’anni quell’albero sarà adulto e svolgerà la sua straordinaria missione. Se ne era già accorto Cicerone quando scriveva «Serit arbores, quae alteri saeclo prosint» (i vecchi piantano alberi che gioveranno in un altro tempo).

Niente di nuovo, ma non bisogna dimenticarlo. Sembra un gesto umile e semplice ma è un gesto carico di significato e di fiducia nel futuro. Ci sono alberi antichissimi, come il pino di Matusalemme in California o l’abete rosso Old Tjikko al confine tra Svezia e Norvegia, che sono cresciuti quando l’uomo non aveva ancora inventato la ruota. Neppure il deserto del Sahara esisteva, e l’Europa del Nord era mezza coperta dai ghiacciai.

Italo Calvino, cresciuto col padre botanico sulle alture di Sanremo, fa vivere la sua intera vita al giovane Barone Rampante sugli alberi di Valle Ombrosa, in Liguria, per ribellione e per scelta poetica. Ed il giovane Barone vive, si innamora, milita e viaggia sino in Spagna senza mai scendere dagli alberi. Straordinaria metafora della magia degli alberi, che anche in città rappresentano una parentesi di trascendenza...

Ma la città ha bisogno di alberi anche per una ragione molto più pratica e concreta. C’è un effetto termico detto effetto città per cui la pietra, i mattoni e l’asfalto si infuocano d’estate elevando la temperatura media di 4/5 gradi.

Questo effetto è enormemente mitigato da un importante presenza di alberi e dal loro fogliame. L’ombra sotto gli alberi non crea solo uno straordinario spazio urbano e sociale, ma abbassa anche la temperatura in modo considerevole. Gli alberi contribuiscono anche a modificare l’umidità relativa verso un maggior conforto fisico. Infine collaborano, come è noto, all’assorbimento del CO2 emesso dal traffico.

Per fare un esempio, 100mila alberi compensano lo smog prodotto da 5.000 automobili.

Se vogliamo quindi che le città diventino luoghi più vivibili, e che non facciano pagare un eccessivo prezzo al loro essere luoghi di vita associativa e di scambio, allora hanno anche bisogno degli alberi che così assumono un ruolo tutt’altro che decorativo.

Ho lavorato su questo tema, come architetto e urbanista, in molte città in giro per il mondo, fianco a fianco con straordinari botanici e uomini di scienze.

Mi sono sentito dire che gli alberi in un contesto urbano hanno bisogno di terra per le radici, e gliela abbiamo data. Mi sono sentito dire che gli alberi in città soffrono, e abbiamo trovato il modo di farli stare bene. D’altronde, se soffrono gli alberi figuriamoci la gente e i bambini. Mi hanno fatto notare che alcuni alberi provocano allergie, e abbiamo selezionato piante che non emettono pollini. E poi che perdono le foglie, e bisogna raccoglierle: giusto. E poi che coprono le insegne dei negozi: vedete voi. E infine, che rubano spazio ai parcheggi per le automobili. E su questo hanno ragione: gli alberi prendono inevitabilmente il posto dei parcheggi e del traffico automobilistico.

Ma è proprio quello che ci vuole: questo è l’aspetto più importante, nella visione umanisticamente corretta delle nostre città nel futuro. Occorre assolutamente salvarle dal traffico e dall’enorme quantità di parcheggi che le stanno soffocando. Più parcheggi si fanno e più traffico si attira, come la fisica insegna. Alcune città più dotate di trasporti pubblici l’hanno capito: a Londra è vietato costruire parcheggi in centro, a Stoccolma per disincentivare l’uso dell’auto una fermata del tram non è mai più lontana di trecento passi, e se il mezzo non arriva entro venti minuti il passeggero mancato ha diritto al taxi gratis. Occorre mettere tutte le risorse per costruire trasporti pubblici e dotare le nostre città di parcheggi di cintura. È chiaro che gli alberi in città hanno un ruolo importante in questa visione. C’è chi, cinicamente, dice che questo non avverrà mai. Scommettiamo che sì? È ormai inevitabile: spendiamo meno in parcheggi e sottopassi, e investiamo nel traffico pubblico.

E poi costruiamo una cintura verde come baluardo alla crescita scriteriata ai bordi delle città, rinforziamo i parchi urbani, cogliamo ogni possibile occasione di riconversione industriale o ferroviaria per aumentare gli spazi verdi e sfruttiamo ogni occasione ragionevole per dotare di alberi le strade, le piazze, i viali dei centri urbani. Così salveremo le città. Insomma, bisogna piantare alberi nelle città, e bisogna farlo con le Soprintendenze, perché si deve valutare ogni volta il rapporto sottile tra la città costruita, storia e monumento, e l’effimero degli alberi che cadenzano le stagioni. Gli alberi così fragili e vulnerabili diventano testimoni di una rivoluzione che è ormai irrinunciabile. Cito ancora Calvino, che nelle Città invisibili ci esortava a riconoscere in ogni città, anche la più brutta, un angolo felice. E in un angolo felice c’è sempre un albero.

Così quando Claudio Abbado, con la sua ormai famosa richiesta di remunerare «in natura» il suo ritorno alla Scala, mi chiese di aiutarlo a piantare alberi a Milano risposi con entusiasmo. Non solo perché c’e un nesso tra gli alberi e la musica (ambedue nel segno della leggerezza, del momentaneo e del passeggero) ma anche perché sono metafora di una visione diversa del futuro nostro e delle nostre città bellissime. Certi progetti hanno bisogno di un grande disegno e non sempre le amministrazioni ne sono capaci. Ho pensato che con gli alberi a Milano si potesse ricreare quell’equilibrio che è il segreto di una città felice. Anche perché si sta preparando all’Expo 2015, proprio sul tema della natura e della sostenibilità. Purtroppo devo prendere atto che la città di Milano non intende proseguire su questa strada. Peccato.



Il divorzio di Milano dagli alberi di Piano

di Stefano Bucci

MILANO— Il divorzio c’è stato, indubbiamente. Da una parte il maestro Claudio Abbado e i suoi novantamila alberi come compenso per tornare a dirigere alla Scala dopo 24 anni d’assenza (appuntamento già fissato il 4 e il 6 giugno) affiancato da Renzo Piano, l’uomo del Beaubourg e dell’Auditorium di Roma, che quegli stessi alberi avrebbe dovuto collocare (i primi avrebbero dovuto essere 220 frassini lungo l’asse via Dante-Castello-Cordusio). Dall’altra, il Comune di Milano (con tutti i suoi tecnici) da sempre assai critico, più o meno velatamente, nei confronti del progetto di Piano.

Ieri, a quanto pare, lo stop definitivo che ha portato Piano a dire: «Non ci sono più le condizioni per andare avanti». E questo perché, secondo il Comune, il progetto (che avrebbe dovuto prendere il via nella primavera 2011 e concludersi nel 2015) potrebbe essere realizzato solo trovando gli sponsor, «una ricerca di cui si dovrebbero però occupare direttamente» (per l’appunto) Piano, Abbado e il loro Comitato (dove compaiono il giurista Guido Rossi, l’ingegner Giorgio Ceruti, l’architetto Alessandro Traldi, il paesaggista Franco Giorgetta, la coordinatrice Alberica Archinto).

Piano, a questo punto, avrebbe dunque detto basta. Anche se il Comune non sembra così drastico: «Il progetto è davvero troppo oneroso, la situazione economica attuale non lo permette e non vogliamo esporci a facili critiche». Ma, allo stesso tempo, il sindaco di Milano Letizia Moratti si dice «disponibile a piantare quei 150 alberi destinati al "cuore" della città» ( una piccola parte della tranche iniziale di 3.500 tra centro e periferia). Per Piano il gran rifiuto del Comune è colpa di una visione deformata di questo progetto inteso solo «da un punto di vista semplicemente decorativo». Mentre per lui si tratta di qualcosa che contribuisce a migliorare la qualità generale di vita di Milano (seguendo, secondo un’idea da tempo a lui cara, quello che già hanno fatto città come Londra, Stoccolma, la stessa New York).

Appunto per questo Piano avrebbe voluto partire proprio dal centro: «Dove lo smog colpisce di più, dove l’aria è irrespirabile, dove la gente ha soltanto voglia di andare via, di scappare». I contrari hanno sempre visto in quegli stessi alberi (tutti da piantare per terra, nessuno nei vasi) un elemento che avrebbe rovinato la prospettiva della città. Mentre molti commercianti vedrebbero negativamente quelle chiome verdi che potevano oscurare le insegne e i tecnici parlano di troppo poco spazio tra le radici e i «sottoservizi» (metropolitana e altro). Tutto questo proprio nell’anno in cui la giapponese Sejima, direttrice della Biennale di Venezia, propone una mostra per «analfabeti dell’architettura», magari quegli stessi analfabeti che si ricordano con entusiasmo di una Piazza Santo Spirito a Firenze, di un Prato della Valle a Padova e di tutte quelle belle piazze e strade d’Italia piene d’alberi.

postilla

Se è consentito ai comuni mortali di esprimere modeste opinioni su alte sensibilità urbane ed estetiche, che di solito sfuggono al terrigno uomo della strada e della periferia, direi che si può trarre un insegnamento positivo da tutta quanta la vicenda: il Doppio Brodo Archistar stavolta invece di bollire l’opinione pubblica ha cucinato gli incolpevoli protagonisti. Che, speriamo proprio, da persone intelligenti quali sono potrebbero anche trarne altrettanto intelligenti conseguenze. Ovvero che la loro sensibilità, attenzione alla storia, all’estetica, al quadro internazionale ecc. ecc. risulta del tutto sprecata (per usare un eufemismo) in un contesto dove riflessioni e proposte del genere servono nel migliore dei casi come pudica foglia di fico per nascondere altre vergogne. Ad esempio che quella passeggiata di alberi cascava nel nulla strategico, era un gioiello della corona senza corona, buttato lì sulla pelata di un re nudo da far pena. Che va guardato per quello che è.

Insomma, forse in altri contesti si può forzare un pochino, e raccontare per le riviste di viaggi che tutto lo sviluppo della città si deve al grande architetto che ha firmato il museo, o la fontana nella piazza. Ovviamente non è vero: alla base di tutto ci sono anni di strategie, di sforzi collettivi, di piani e progetti coordinati. A Milano, l’unica strategia che emerge la leggiamo a pezzi e bocconi sui giornali da parecchi anni, almeno quando qualche cronista riesce a orecchiare particolari fra un consiglio di amministrazione e una sagrestia brianzola. Vada in pace, architetto Piano, guarderemo da qui volentieri - con un po' di invidia - le cartoline dei suoi progetti in altre città che li sanno digerire meglio (f.b.)

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