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Sergio Brenna
Milano; dibattito sugli scali ferroviari
25 Ottobre 2016
Milano
«Strategia e visione per una città hanno a che fare con l'identità. “Scali ferroviari”: si ripropone una mai risolta questione . Due interventi dal dibattito sugli scali ferroviari».

«Strategia e visione per una città hanno a che fare con l'identità. “Scali ferroviari”: si ripropone una mai risolta questione . Due interventi dal dibattito sugli scali ferroviari». ȦrcipelagoMilano online,12 ottobre 2016 (c.m.c.)

URBANISTICA SCALI FERROVIARI
LE CITTÀ POSSIBILI

Giulia Mattace Raso

Ogni silenzio ha un suo proprio caratteristico linguaggio, quello che aleggiava nella Sala del Grechetto gremita, in attesa e durante l’incontro dedicato alla riqualificazione degli scali ferroviari e alle città possibili, parlava di una “domanda di senso”. Domanda di senso che riguarda l’oggetto il processo di trasformazione e il destino di queste aree con la consapevolezza che si stia discutendo del destino della città tutta.

E la prima considerazione evidente è dove finisce il tutto di questa città, perché solo con la coscienza della propria dimensione si individua il piano corretto delle scelte. È richiesto un salto triplo concettuale. Se le élite milanesi faticavano a pensarsi fuori dalla cerchia dei bastioni, non hanno immaginario sulla Città Metropolitana, è particolarmente arduo concepire il tema degli scali alla dimensione regionale, quale è rispetto alle reti, come tema di sviluppo e di uguaglianza di accesso alle funzioni urbane.

«Le scelte per la riqualificazione degli scali ferroviari, per localizzazione, qualità e dimensione delle aree, peseranno come e più di un piano urbanistico generale» ma in questo caso devono assumere le fattezze più proprie di un piano strategico, considerando allo stesso tempo un tema di cornice (lo sviluppo ambientale), un tema di scala (“siamo una città di 7 milioni di abitanti”), un tema di direzione (cosa vogliamo diventare).

Il caso di Torino illustrato da Stefano Lo Russo, è quasi lineare nel suo processo di trasformazione “forzata” alle prese con il declino della città fabbrica: si è riconvertita una città intera, con il suo piano urbanistico generale che ha saputo tracciare la via venti anni fa, il PRG del 1995 (le principali strategie: recupero del centro storico, costruire sul costruito, riorganizzazione della struttura urbana, riuso delle aree industriali), con una scelta forte e coerente, portare il trasporto su ferro sotto il piano di campagna e ricucire il tessuto urbano. Bussola operativa: nella trasformazione urbana l’amministrazione pubblica fa da regista, e nelle dinamiche con i privati l’ultima parola spetta al Pubblico.

Punto di partenza e destinazione finale chiari e riconosciuti a Torino per una visione strategica. Milano sembra già in difficoltà a pensare e definire se stessa. Ricordiamo anche solo il dibattito sull’anima della città prima di Expo, quando ci ponemmo il problema di presentarsi al mondo. Pensato in chiave di brand e marketing territoriale, di fatto affrontava il tema dell’identità: non ne siamo venuti a una.

Difficoltà che si scontra quotidianamente nella ambiguità della dimensione amministrativa: l’orizzonte dichiarato è quello della Città metropolitana ma nel dibattito attuale lo scalo ferroviario di Segrate rimane fuori dal conto perché “fuori dalle mura”. Eppure i geografi ci descrivono come una città di 7 milioni di abitanti, le dinamiche non possono certo essere quelle del ritorno immobiliare calcolato per singoli lotti.

Dobbiamo assicurarci che la cornice di riferimento cognitiva sia quella delle nuove logiche di sviluppo (il decoupling), quella dell’era geologica di appartenenza – l’antropocene -, essere consci di dover partecipare, in quanto attori primi del cambiamento come città, alle messa in atto delle convenzioni internazionali. Scrive Gianluca Ruggieri su questo stesso numero: «Più in generale, è urgente chiedersi come si stanno adeguando urbanisti e amministratori alla prospettiva post-carbonio. Ad esempio nella discussione sul destino degli scali ferroviari urbani, qualcuno si sta ponendo il problema di come gestire la logistica senza far uso di mezzi alimentati da benzina e gasolio (obiettivo che l’Unione Europea avrebbe posto ai centri urbani per il 2030)?»

Le sfide non sono banali, è richiesta attitudine nel gestire la complessità e nel cogliere le opportunità di sviluppo, sinergiche solo se i costi e i benefici saranno calcolati in modo complessivo. Minor costo per chi, maggior guadagno per chi: il caso M4 è paradigmatico nei suoi andamenti, quando si scontra una ratio economica pura con la qualità di vita generale della città, riflessa in quella apparentemente “particolare” dei comitati. Ma non si può pensare la partecipazione come opera di mitigazione sociale, accontentare i bisogni dei cittadini senza tenerne in conto i desideri, o si sta rinunciando alla loro spinta fortemente trasformativa.

La qualità della vita è un ingrediente indispensabile della capacità di attrazione della città e se la «reputazione ormai conta più della ricchezza» e il capitale reputazionale viaggia anche sui social media, questo l’abbiamo molto ben imparato con Expo, allora quel che pensano i cittadini non è proprio più così secondario.

CHI DETERMINA
LE SCELTE URBANISTICHE

Sergio Brenna

I due interventi di Favole e Targetti nello scorso numero di ArcipelagoMilano sono quanto mai utili a indicare quali dovrebbero essere gli obiettivi di interesse pubblico generale cui il Comune dovrebbe indirizzare le scelte di trasformazione urbanistica nel riuso degli ex scali ferroviari milanesi: per un verso la risposta alle esigenze della domanda di evoluzione demografica e sociale e per altro verso l’acquisizione da parte del Comune di una quota preponderante della rendita fondiaria da destinare alla realizzazione di infrastrutture pubbliche in ambito milanese-metropolitano, che invece FS/Sistemi Urbani ritiene di poter destinare prevalentemente all’alleggerimento dei propri costi di esercizio.

Entrambi gli interventi concordano che per motivi sia di evoluzione demografica prevedibile sia di andamento del mercato immobiliare, soprattutto residenziale, non vi sia necessità nei prossimi decenni di grandi quantità di edificazioni a libero mercato, quanto piuttosto di edilizia sociale a basso costo per rispondere alla domanda che attualmente è inevasa dal mercato per impossibilità di accedere ai costi gravati dalla rendita fondiaria.

Da questo punto di vista desidero precisare che il richiamo di Targetti all’obbligo di legge degli anni ’60/’70 (L.167/62, modificata poi dalla L. 865/71) di destinare a edilizia economico popolare dal minimo il 40% al massimo del 70% del fabbisogno abitativo decennale stimato, in realtà non è mai venuto meno: semplicemente con il progressivo esaurirsi delle aree a ciò destinate nei Piani di Edilizia Economica e Popolare (PEEP) approvati in quegli anni e l’estinguersi dei finanziamenti pubblici all’edilizia sociale, lo stiamo di fatto silenziosamente disapplicando, soprattutto dopo che gli strumenti urbanistici vengono approvati solo in sede comunale, senza sostanziali controlli da parte della Regione, se non quelli dell’eventuale contrasto con opere di interesse regionale (strade, centri servizi, ecc.).

Molto interessante è anche il tentativo di Targetti di stimare la redditività del business plan relativo alle quantità edificatorie attualmente previste in PGT e, per quanto lui stesso introduca più volte elementi prudenziali, mi pare che l’ordine di grandezza da lui stimato in 1,2 miliardi di euro in dieci anni sia del tutto attendibile ed evidenzia la sproporzione con le contropartite pubbliche attualmente previste dall’Accordo di Programma non ratificato dal Consiglio comunale nel dicembre dell’anno scorso.

Dissento, invece, dalla sua troppo remissiva considerazione che secondo la legge urbanistica regionale i diritti volumetrici sono sanciti dai Piani Attuativi e non dal Documento di Piano del PGT e che, quindi, ogni Accordo di programma possa integrare ad libitum il PGT (non a caso è ciò che ha dato origine alle spropositate edificazioni di Citylife e Porta Nuova, dove gli indici edificatori contrattati sono stati di oltre 1 mq/mq e gli spazi pubblici realizzabili dell’ordine di soli 15 mq/abitante, contri i 44-45 mq/abitanti promessi): è una procedura che mi ricorda troppo da vicino la prassi disastrosa degli anni ’50/’60 delle “convenzioni” caso per caso, senza o contro le previsioni dei Piani Regolatori Generali, perché non debba allarmarmi.

È bene invece che i diritti volumetrici siano fissati negli strumenti di pianificazione generale in maniera congruente alle quantità di spazi pubblici e alle densità fondiarie che si intendono ottenere, e che i Piani Attuativi (compresi gli Accordi di programma) vi si attengano, salvo articolarne: mediamente non oltre lo 0,50 mq/mq, se si vogliono spazi pubblici effettivamente realizzabili dell’ordine di 45 mq/abitante, irrinunciabili per una città che voglia dirsi confrontabile con le grandi metropoli europee.

Una volta fissata in questo modo la quantità edificatoria ammissibile e, quindi, la base del valore economico dell’operazione di trasformazione urbana, per le grandi proprietà in trasformazione sarebbe più opportuno introdurre l’obbligo di attuare un meccanismo di alienazione dei propri patrimoni fondiari non con il criterio del rialzo del prezzo, ma con quello del ribasso della quota di edificazione privata e conseguentemente con la crescita della quota di edilizia sociale.

In tal modo si potrebbe sia stabilizzarne il livello della rendita fondiaria attorno ai valori accettabili condivisi, sia massimizzarne l’utilità sociale, sia infine ottenere un esito progettuale conformativo congruente con i tessuti circostanti.

Purtroppo accade esattamente il contrario. Infatti i Comuni spesso applicano elevati indici edificatori nelle trasformazioni poiché da una parte accettano la proposta immobiliarista privata, d’altra sono condizionati dal dover far fronte con gli oneri urbanizzativi a necessità immediate cui non sono più in grado di rispondere con le ordinarie risorse di bilancio. Si accetta, così, l’omologazione del comportamento di queste proprietà istituzionali a quello degli immobiliaristi, alla sola condizione che le rendite fondiarie vengano totalmente o parzialmente reinvestite in ambito locale. Non importa se in un orizzonte di investimenti infrastrutturali di lungo periodo o, come per lo più accade, anche solo in modo congiunturale.

In questo modo si finisce per incentivarne lo sviamento di comportamento persino quando si tratta di enti, quali FS, che per compito istituzionale e funzionalità aziendale dovrebbero indirizzare prioritariamente i propri investimenti a sostenere gli obiettivi di riequilibrio territoriale di area vasta e di lungo periodo. È a riflettere su questi temi che vorrei veder l’attuale amministrazione impegnata a confrontarsi con le forze sociali e intellettuali della città, anziché attardarsi a rimasticare la riproposizione dell’Accordo con FS bocciato dal Consiglio comunale nel dicembre scorso.

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