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Michele Serra
Milano-Bologna a 300 all’ora il mio viaggio nella modernità
14 Dicembre 2008
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Il TAV accorcia le distanze territoriali tra i luoghi del comando, e accresce quelle sociali tra chi governa e chi lavora. Cresce la libertà nella città globale, diminuisce l’equaglianza in quelle reali. La Repubblica, 14 dicembre 2008

Il Frecciarossa si mangia duecento chilometri di pianura in un’ora, carico di uomini in cappotto blu tra i 50 e i 70 anni, rappresentanza nutrita e autorevole dell’establishment italiano. (Esclusi i giornalisti, ieri c’era una donna ogni cento persone, sul binario della Stazione Centrale pavesato a festa. E per trovare un giovane, bisognava scovare un capannello di studenti milanesi che hanno vinto un concorso per video-maker).

Milano-Bologna a trecento all’ora, nel breve tempo necessario per intuire il Po gonfio e scuro, le macchine sull’Autosole statiche come se fossero parcheggiate, i cascinali, i capannoni, i campi di guazza.

A bordo, nel silenzio morbido e senza scosse garantito dai binari hi-tech, i riferimenti geografici, non più intelligibili a quella velocità, si leggono sui gps dei passeggeri, che osservano sorridendo il puntino blu del treno mangiarsi i centimetri che separano i centri abitati sulla mappa. Sul treno non si guarda più fuori dai finestrini, per avere la distratta percezione di un paesaggio reso irreale dalla velocità. Si compulsa piuttosto la personal-elettronica che connette tutti a tutto, chini sui miscroschermi tascabili o su quello del computer, come in un volo terrestre che leva materialità al terreno e sospende tempo e spazio. Non si avverte più neanche il tu-tum, tu-tum, tu-tum scarrellante e soporifero che ha accompagnato nel sonno milioni di passeggeri di decine di generazioni, il viaggio Tav è fluido, extra-territoriale, scivola ovattato.

In un attimo siamo a Lodi, a Piacenza, a Parma. Il treno si arresta per pochi istanti vicino a Gattatico, prima di Reggio. Lo speaker, con una forte inflessione romanesca che odora di parastato, spiega che la decisione è stata presa dall’European Train Management System, che poi sarebbe la stanza dei bottoni che governa la linea da Bologna, come si faceva da bambini con il trenino elettrico. E aggiunge che arriveremo comunque in orario. Infatti. Elettronica più computer più il vecchio acciaio ben temperato più le macchine potenti dell’industria pesante italiana più la caterva di soldi della politica, e anche l’Italia, con affanno, entra nell’Europa dei treni ad alta velocità, dei minuti contati, delle distanze accorciate.

Chi è abituato a guadagnare con rassegnata lentezza le tappe di questo tragitto, in macchina sull’autosole o sugli Eurostar normali, costretti dal traffico a viaggiare alla media ottocentesca dei cento all’ora, non può non godersi i vantaggi, l’avvicinamento di Milano a Roma (tra un anno a meno di tre ore l’una dall’altra). L’Italia, con i suoi grotteschi campanilismi, le sue piccinerie provinciali, con la Tav davvero si accorcia, a misura di quella penisola europea che è e non più di una successione di ex città-stato frustrate.

Questo non cancella le polemiche sui costi smodati, e sulle ferite inflitte a un territorio delicato e frastagliato che la Tav, nei tratti di montagna, infilza con la brutalità di uno spiedo. Ma aggiunge qualcosa di indubitabilmente moderno, per giunta utilmente post-automobilistico, a un paese che si sente vecchio e barcollante, che dubita di se stesso. Nemmeno la pompa politica riesce a infastidire più di tanto, le tante autorità presenti hanno il buon gusto di non farla troppo lunga e si abbracciano come colleghi di ufficio in gita; e ci si limita a sorridere per il lussuoso e incongruo comunicato che Antonio Tajani (Vice-Presidente della Commissione europea dei Trasporti, maiuscole nel testo) è riuscito a infilare nella cartella stampa, per far sapere che «parteciperà alla cerimonia di inaugurazione»: una notizia da levare il fiato.

Piuttosto, la brevissima e imprevista sosta a Gattatico permette per un istante di pensare a Gattatico. E cioè di riflettere, sia pure a bordo di un siluro così illustre e funzionale, su quell’immenso e negletto no-Tav che è l’Italia senza Tav. Gli infiniti rami secondari dimenticati, gli indecenti treni dei pendolari, i raccordi sbrecciati e ingorgati per guadagnare le stazioni della Tav, insomma quel settanta per cento di italiani che vivono in piccoli e medi centri (l’Italia non è un paese di metropoli), nelle valli (l’Italia non è un paese di pianura). Il timore di viaggiare su un treno "di classe" (un treno pieno di signori, vedi Guccini), fiore all’occhiello di un sistema-paese che lascia a terra la maggioranza, rovina non poco il sapore di un viaggio comodo e veloce, offusca il sentimento "europeo" e innesca dubbi sulle famose "priorità": se cioè, per avvicinare Milano a Roma a Napoli a Torino a Trieste, e l’Italia ai famosi corridoi europei, non si rischi di allontanare ulteriormente Padova da Ancona da Piombino da Potenza da Siracusa eccetera, seminando nelle retrovie della modernità pezzi così ingenti di noi stessi.

Sbarcati a Bologna, si può avere all’istante un piccolo memento di quanto bassa sia la velocità, lontana dalle autorità in cappotto blu. Per proseguire in treno fino alla mia destinazione (venti chilometri dalla stazione di Bologna) dovrei aspettare un interregionale che parte un’ora dopo. Volessi noleggiare un auto non potrei: gli autonoleggi, nelle stazioni italiane, chiudono nel week-end come il lattaio e il panettiere (si sa, nei week-end la gente non viaggia?). E dunque, coda per il taxi e poi il passaggio premuroso di un amico. Arrivo a casa quando il Frecciarossa è già tornato da un pezzo alla Centrale di Milano, e la banda dei carabinieri sta celebrando la velocissima festa di un paese che corre per un quarto, e per tre quarti arranca. E questa, sia ben chiaro, non è un’osservazione politica: questa è la realistica misura di un tempo diseguale in un paese schizofrenico.

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