Le politiche italiane ed europee perseverano nella egoistica volontà di risoluzione dei soli effetti arrecati al mondo sviluppato, ignorando le cause che attanagliano i "dannati dello sviluppo".
il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2017 (p.d.)
Al netto delle vaghe iniziative decise ieri dalla Commissione europea, la situazione grossomodo è questa: avendo minacciato i fratelli-coltelli europei di rovesciare carichi di migranti nei loro porti, il governo italiano deve constatare che far la voce grossa ha prodotto scarsi risultati. Gli europei hanno fatto spallucce e non si sono mossi di un millimetro. Ove mai Roma volesse dare corso ai suoi moniti, chiuderanno i porti e schiereranno l’esercito sul confine, come hanno annunciato. E adesso? Il ministro degli Interni Marco Minniti rilancia, chiede una riunione per discutere; ma è evidente che un governo di incerta tenuta e le finanze in disordine non può battere i pugni sul tavolo.
Alla fine dovrà accontentarsi di quanto grida e invocazioni finora hanno permesso di raccogliere, non molto. Soprattutto questo: l’impegno dell’Unione ad aprire vie legali per trasferire rifugiati politici dal Nord Africa al l’Europa, in modo che in futuro (quando?) la ridistribuzione diventi equa ed effettiva; e un finanziamento della Commissione europea alla Guardia costiera libica, il perno della nuova politica italiana sull’immigrazione. Il problema è che questa politica ha molte possibilità di produrre un disastro umanitario: l’Europa intera ne sarebbe corresponsabile, ma quasi tutto il discredito e la responsabilità morale graverebbero sull’Italia.
Nel concreto il piano italo-europeo funzionerà così: le navi umanitarie d’ora in poi saranno soggette a un codice di comportamento, soprattutto per impedire che soccorrano migranti nelle acque territoriali libiche. A tenerle lontane dal litorale provvedono già ora le motovedette della Guardia costiera libica, di fatto una creazione del Viminale. In teoria questo nuovo regime dovrebbe nuocere agli scafisti, che non sarebbero più in grado di imbarcare i migranti su gommoni di basso costo, nella previsione che appena al largo quelle imbarcazioni verrebbero soccorse dalle ong. Un secondo obiettivo che Roma si prefigge, senza dichiararlo, è dotarsi di strumenti e pretesti per costringere le navi umanitarie a far rotta su porti non italiani (ma quali?) con il loro carico umano. Nel concreto le traversate diventeranno più rischiose e complicate per i migranti intrappolati in Libia in condizioni precarie, sovente in semi-schiavitù.
La loro sofferenza non inquieta la Ue, però le ong potrebbero reagire con veemenza all’imposizione di condizioni sgradite, quali quelle decise all’unanimità in giugno dalla Commissione Difesa per sottomettere le navi umanitarie al controllo della polizia italiana. E se si arriva ad uno scontro pubblico, la faccenda diventa imbarazzante per l’Italia. I nostri ascari di Libia, i guardacoste, sono raccontati da un recente rapporto delle Nazioni Unite grossomodo come un arcipelago di milizie inaffidabili, alcune in buoni rapporti con la maggiore organizzazione di scafisti, la stessa che detiene i migranti in un lager tra i più infami.
Inoltre sulla Guardia costiera libica indaga la Corte penale internazionale, sollecitata da una ong umanitaria. Insomma c’è il rischio di scoprire che l’Unione europea finanzia, su richiesta italiana, una sorta di mafia in divisa, sodale di quelle cosche di trafficanti che in teoria Roma dice di combattere. Se poi i finanziamenti alla Guardia costiera funzionassero come una specie di tangente e convincessero alcune organizzazioni di scafisti a sospendere le partenze per l’Italia, resterebbe comunque irrisolto il problema dei 150-180 mila migranti che sono in Libia e non sanno più dove andare se non in Europa, essendo bloccate le altre vie di fuga.
Quanto ai migranti che continuano a entrare in Libia, il piano italiano propone di chiudere il confine libico a sud, lungo la frontiera con il Niger, in modo da bloccare l’ingresso di migranti. In giugno il ministro degli Interni Marco Minniti ha stretto un’alleanza con le due principali tribù di quella regione, i Tebu e i Tuareg., che tuttavia sono una congerie di gruppi divisi da differenti fedeltà claniche e opposte alleanze politiche. Minniti al più potrebbe comprare l’assenso di alcuni capitribù alla presenza di 500 soldati italiani nel sud della Libia, a ridosso di pozzi e tubi dell’Eni. Ma per chiudere il confine ne occorrerebbero molti di più. A sud di quella frontiera, nel Sahel, Macron sta organizzando un mini-esercito di 5.000 soldati di cinque Paesi africani per combattere le milizie di al Qaeda. Tanti ne basterebbero, probabilmente, per cacciare gli scafisti da larghi tratti della costa libica e liberare i migranti lì reclusi. Ma a quel punto una parte di quegli sventurati potrebbe chiedere l’ingresso in Europa. E nessuno a quanto pare intende accoglierli.