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Fabrizio Bottini
Megalopoli is Beautiful
24 Novembre 2006
Padania
Forse, anche considerare la megalopoli padana come una cosa informe e priva di "caratteri urbani", contribuisce ad aumentarne il degrado insediativo, ambientale, sociale. A ben vedere è una città, niente affatto "infinita"

Leggo nell’ultimo intervento di Eddyburg per Carta, di una “ orrida megalopoli padana, pseudocittà sguaiatamente sdraiata fra Torino e Mestre”. Ne apprezzo l’utile contributo lessicale, a scrollarci di dosso gli eccessi di americanismo. Dopotutto nemmeno oltreoceano, e dopo due generazioni, si sono ancora messi d’accordo su cosa significhi esattamente il termine “ sprawl”, quindi meglio usare al meglio la ricchezza dell’italiano. E sguaiatamente sdraiata sia. Tra l’altro, dopo aver letto l’articolo, finalmente anche certi relatori di convegni la pianteranno di confondersi e confonderci con divagazioni su “qui non ci abbiamo mica il sprùl!”(la grafia poi è soggetta a varianti in corso d’opera).

Lasciando però il mondo dei convegni a coccolarsi il suo “sguaiatamente sdraiata”, vorrei tornare su quella frase nel suo insieme, su quello che evoca nel lettore: fra Torino e Mestre si attraversano 400 e rotti chilometri di stravaccamento insediativo, episodicamente interrotto da una pieve o ermo colle, che subito fuggono via ingoiati dal blob socio-cementizio che tutto pervade.

Vista l'attenzione al contesto?

Una prospettiva, a mio parere, tanto diffusa quanto fuorviante. Certo, è impresa impossibile sostenere che l’area geografica e socioeconomica fra gli sbocchi di valle alpini, appenninici e l’Adriatico, sia un paese dei campanelli: di guai, e pure grossi, ce ne sono a bizzeffe. Le ubique villette, i capannoni, gli svincoli che smistano il traffico verso lo svincolo successivo, i cantieri infiniti che non risolvono affatto i problemi ma anzi … Un sacco di guai, certo. Ce li racconta quotidianamente la stampa, e ce lo conferma il solo guardare dal finestrino. Forse è anche questa immagine subliminale, dell’accumulo di pasticci, di “pseudocittà sguaiatamente sdraiata” fra gli sbocchi di valle e il grande fiume, ad alimentare certi appetiti irrefrenabili, che non vedono (né gli interessa gran che) il sistema complesso della megalopoli. Vedono appunto solo la pseudocittà, o per usare un recente neologismo di successo la “città infinita”, spazio illimitato, sterminato territorio di conquista per investimenti, quasi sempre con una soverchiante componente brick & mortar, che in italiano si pronuncia asfalto per le strade, cemento per gli scatoloni, e pudicamente un po’ di siepi attorno ai parcheggi e ai prati delle villette. Invece qui c’è moltissimo altro, per quanto mescolato e intaccato da tutto questo: c’è un sistema urbano complesso, di grandissime dimensioni, che si chiama appunto megalopoli, e che non è affatto “infinito”. Un sistema geografico, insediativo, socioeconomico dove, volendo, è possibile declinare termini come densità, sostenibilità, ecc. Tanto per fare un esempio, in queste settimane in Gran Bretagna la CPRE ha pubblicato un curioso e interessante rapporto sulla “tranquillità”: cos’è dal punto di vista socio-sanitario, socio-economico, e come si relaziona nei grandi sistemi metropolitani alle forme insediative, alla distribuzione relativa di ambienti urbani e rurali. Anche questo è un modo per valutare, giudicare, pianificare la grande dimensione: liquidarla da un lato come territorio irrimediabilmente perduto, etichettarla dall’altro come “città infinita” buona per tutte le occasioni, è una prospettiva - se non altro – più istintiva che scientifica. La megalopoli in fondo è una città, se la si legge con gli strumenti adeguati. Una città che a modo suo dovrebbe esprimere (forse non lo fa ancora) i propri anticorpi rispetto agli organismi predatori, esattamente come succede (naturalmente con vario successo) sotto qualunque campanile.

Il territorio "vuoto" dove dovrebbe nascere VeMa

Credo sia esattamente l’idea di città, o l’assenza di questa idea, a generare fotografie sfocate come il mostro sguaiatamente sdraiato. Certo, lo stravaccamento esiste: ce l’hanno raccontato, l’abbiamo visto dal finestrino, addirittura dal passeggino sotto forma di nostrana rustbelt produttiva, o nella versione paranoico-familiare delle siepi di villette ad libitum, in quei piani di lottizzazione talmente identici, banali, da chiedersi se si tratti effettivamente di un progetto, o di una fotocopia. Talmente identici che i frequentatori abituali di questi ambienti (camionisti, postini, a volte anche urbanisti) sviluppano rapidamente un istinto geografico per il cul-de-sac con difficoltà di manovra, o la strozzatura stradale che però da' accesso alla sterrata con sbocco …

Si tratta però di porcherie episodiche, a volte pure schierate a sbarramento, infiltrate a rete, insinuate a cuneo, ma sempre eccezioni. Del resto succede in tutte le migliori città, e solo gli slogan delle avanguardie artistiche (o delle loro varie eco più o meno interessate) suonano giudizi perentori di condanna o assoluzione per una città: sprofondare Venezia, o santificare Casalpusterlengo.

Insomma, come già spiegava un paio di generazioni or sono Jean Gottmann nella sua ideale passeggiata lungo i viali di Bos-Wash, anche qui ci sono i quartieri malfamati e i prati spelacchiati, che però non rappresentano il tutto.

È mia modesta opinione che, non si tiene sempre presente questo aspetto (enorme, ma pur sempre aspetto) della questione, si rischia di non cogliere il senso. Ovvero di fare involontariamente il gioco di chi non vede la megalopoli come tale (infatti non ne parla mai), ma solo un assegno in bianco, su cui scrivere via via la cifra che interessa. Nascono così, in questa apparentemente infinita pagina bianca delle occasioni, i doppioni infrastrutturali, a simbolo (malafede a parte) di un rapporto davvero arcaico con lo spazio: conquista dei territori, infusione di “vita” là dove non ce n’era. E la stessa organizzazione a rete dell’insediamento, anziché assumere almeno in prospettiva la dovuta complessità, si declina semplicemente nei termini a-spaziali della competitività territoriale, delle grandi infrastrutture autoreferenziali, dell’adattabilità di tutto e tutti allo slogan del momento, con strascichi che poi durano però alcuni milioni di momenti.

La stessa trappola in cui volenti o meno si sono cacciati gli impavidi progettisti di VeMa, senza sapere o voler riconoscere il contesto dentro a cui si appoggia il bel giocattolino dalle aggraziate forme: grandi campiture territoriali, delimitate da linee di infrastrutture, da riempire col solito asfalto, cemento, vetro e neon. Quelli sì, inevitabilmente e sguaiatamente sdraiati. Salvo che sulle copertine delle riviste, naturalmente.

Nota: come per tutte le altre cose, anche per la megalopoli è legittimo avere opinioni diverse; ciò non toglie che ad esempio quella riportata in questo sito dell'architetto Massimiliano Fuksas, sia un po', come dire, vaga; su temi paralleli, ci sarebbe anche - volendo - un altro mio intervento sulla cosiddetta " città infinita" nel quadro di un dibattito sullo spazio pubblico aperto dal nuovo sito Metronline a cui tutti sono invitati a partecipare (f.b.)

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