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Marchionne, Rinaldini e la rabbia
17 Maggio 2009
Articoli del 2009
Due commenti, di Rinaldo Gianola (l’Unità) e di Loris Campetti (il manifesto) del 17 maggio, sull’inquietante episodio alla Fiat, sul suo retroterra e i suoi possibili rischi

L’Unità

Fiat, crisi e G8 prima che sia troppo tardi

di Rinaldo Gianola

Marchionne presenta libri ma non parla con i sindacati

il governo sottovaluta la crisi e pensa che al G8 filerà tutto

liscio. Quello che è successo ieri a Torino è un vero allarme

Sergio Marchionne, lo diciamo col massimo rispetto, sta diventando un po’ berlusconiano. Invita all’ottimismo sull’imminente superamento della crisi, salta come un grillo dall’America all’Europa assicurando che la Grande Fiat sarà un successo, fa una comparsata alla Fiera del libro per presentare il volume di un suo direttore.

In tutto questo attivismo, però, non ha ancora trovato un momento per parlare con i sindacati italiani. Non ha offerto finora alcuna credibile garanzia che gli stabilimenti nazionali resteranno aperti e manterranno gli attuali livelli occupazionali. Tutto è liquidato con poche battute, con l’evidente senso di superiorità di chi si sente investito della responsabilità di una missione storica. «Lasciatemi lavorare e poi vi farò sapere». Una posizione che potrebbe essere comprensibile e andar bene in un’altra congiuntura economica e sociale. Ma oggi no. E la prova è arrivata ieri. L’aggressione patita da Gianni Rinaldini al termine della pacifica manifestazione dei lavoratori Fiat è il segno di una tensione crescente nel mondo del lavoro. C’è un gioco pericoloso che i silenzi di Marchionne rischiano di alimentare, certo inconsapevolmente. Se si lasciano correre, senza smentirle, le voci di un ridimensionamento o della chiusura di alcuni impianti, i soliti Termini Imerese e Pomigliano, se si pongono in concorrenza certe fabbriche modello (Melfi) con altre meno efficienti, allora le tensioni e i pericoli sono destinati ad aumentare. È una vecchia strategia quella di cercare di dividere i lavoratori mettendo in competizione gli stabilimenti, una linea già seguita in passato da altri manager del Lingotto assai meno moderni di Marchionne.

Oggi la crisi economica pervade i luoghi di lavoro, a partire proprio dalla Fiat, e non si può pensare di limitare i rapporti con i sindacati alla comunicazione mensile della cassa integrazione. Un chiarimento delle strategie Fiat in Italia è indispensabile: lo chiedono i lavoratori e le istituzioni. Perchè, al netto dell’entusiasmo e della propaganda per il possibile successo epocale di un’azienda italiana, quello che si è capito della Grande Fiat è che i miliardi per ora li mette Obama, i lavoratori di ogni latitudine devono comunque fare sacrifici, gli Agnelli sono destinati a separarsi dall’auto.

Certo sarebbe di grande utilità se il governo facesse un po’ di pressing su Marchionne e se prendesse più seriamente le tensioni e gli allarmi che stanno salendo dal mondo del lavoro. Finora la forza e credibilità dei sindacati italiani hanno tenuto sotto controllo le spinte più pericolose, ma il caso di ieri a Torino è un campanello di allarme per i prossimi mesi, quando la crisi, dentro e fuori le fabbriche, morderà ancora di più nonostante i rassicuranti sorrisi di Berlusconi.

È bene stare attenti, per non ripetere brutti episodi del passato. La contestazione a Rinaldini era possibile individuarla su alcuni siti Internet. Tra poche settimane il nostro Paese ospiterà il G8, evento che richiama sempre contestazioni di varia natura. E probabilmente non basterà la scelta dell’Aquila per garantire un vertice senza proteste. Dalla Fiat al G8, sembra strano ma tutto si tiene. Meglio muoversi, prima che sia troppo tardi.

il manifesto

Resistenza operaia al Lingotto

di Loris Campetti

«Gli applausi a Marchionne, il miracoloso, dovrebbero essere girati a questi 15 mila lavoratori. Sono loro che hanno salvato la Fiat, resistendo alle intemperie quando nessuno credeva che si potesse salvare». 15 mila operai e operaie che non hanno abbassato la testa, «La gente come noi non molla mai», cantano senza pausa quelli di Pomigliano, sbarcati alla stazione di Lingotto alle 7 del mattino da un treno davvero speciale. C'erano i pullman ad attenderli, ma loro nisba, la strada fino a Mirafiori se la sono voluta fare in corteo perché sono gente che non molla mai. Come quelli arrivati da Termini Imerese in Sicilia, da Atessa in Abruzzo, da Melfi e da Avellino, da Milano e da Brescia, da Bari e da Lecce, da tutta la cintura e la provincia di Torino e dal Piemonte. Tanti ma anche soli, la politica - quella che dovrebbe contare ma non conta, quella extraparlamentare era rappresentata invece al massimo livello in tutte le sue fratture e sfaccettature - è impegnata a festeggiare le favolose performances globali di San Sergio Marchionne che conquista l'America e preme alle porte di Berlino per abbattere muri e resistenze. CONTINUA | PAGINA 4

Se con i muri bisognerà abbattere qualche stabilimento e cancellare migliaia di posti di lavoro, pazienza. Pazienza? Questi 15mila di pazienza non ne hanno più. Qualcuno in realtà c'è con gli operai: sono i loro amministratori che devono gestire nei territori devastati dalla crisi l'emergenza sociale. Il sindaco della ex capitale dell'auto, Chiamparino, accanto al primo cittadino di Pomigliano e ai loro colleghi di mezza Campania, compreso il presidente della regione Bassolino e della Puglia Vendola.

Lo striscione più bello viene verniciato davanti alla porta 5 di Mirafiori da un giovane barbuto rossovestito. C'è scritto un concetto semplice semplice: «No alla guerra tra poveri». Perché la crisi è un'arma nelle mani dei padroni e dei governi amici (dei padroni) per dividere chi lavora, chi sta sotto e paga il conto per tutti. Se c'è chi, quasi tutti, grida come trenta o quaranta anni fa «Da Torino al meridione un solo grido, occupazione», in 85, contati e targati Slai Cobas decidono, alla fine di una manifestazione straordinaria, di aiutare la crisi e i padroni, assaltano il camioncino montato di fronte al Lingotto dal quale intervengono i dirigenti sindacali, buttano giù dal palco il segretario della Fiom Gianni Rinaldini, si impossessando del microfono per gridare il loro odio non contro quel che hanno alle spalle - il simbolo del potere Fiat - ma contro il più vicino a sinistra, segnando così la loro estraneità dalla sinistra, da quel poco di sinistra che resta. Di questo episodio non parleremo più, salvo esprimere a parte il nostro punto di vista, per evitare di cadere nella trappola di cancellare uno straordinario fatto sociale per ridurre la giornata di ieri a un problema di ordine pubblico. Che è quello che gli 85 eroi cercavano, insieme a un quarto d'ora di visibilità mediatica.

La mappa della crisi

Il corteo dell'universo italiano dell'auto è una carta geografica della crisi industriale. Segnala un finto paradosso: la Fiat aumenta le sue quote in Italia e in Europa, conquista l'America e combatte alle porte di Russelshaim ma i suoi lavoratori ballano in mezzo al mare della crisi. Hanno ormai finito la cassa integrazione che il sistema di ammortizzatori sociali mette a disposizione e ora temono i licenziamenti e la chiusura degli stabilimenti. Temono le «sinergie» prodotte da un eventuale accordo con Opel, sanno che in Europa si producono più macchine di quelle che si vendono e che si venderanno anche quando il peggio della crisi sarà passato. Sanno che gli altri governi difendono le loro fabbriche e annessi lavoratori mentre il nostro «se ne fotte». Per questo s'incazzano, viaggiano per 12-15 ore in treno e in pullman per venire a gridare la loro rabbia sotto i palazzi di chi decide da solo e non accetta interferenze. Al secondo corteo della mattinata, uno degli inossidabili operai di Pomigliano sbotta: «'A ro' sta sto cazz'e Lingotto?».

Davanti alla mitica porta 5 di Mirafiori, a due metri dal giovanotto rossovestito c'è un un compassato piccolo uomo, piccolo ma grande per la storia che racconta e di cui è protagonista. Di nome fa Liberato - nomen omen - e di cognome Norcia. Scuola Fim, meglio dire Flm, politica Lotta continua quando c'era. Mi ricorda che quarant'anni fa esatti, era il 2 maggio del '69, lì dentro partivano i primi scioperi per un aumento di 50 lire della paga oraria. E fu subito autunno caldo. Lui è quello che nell'ottobre '80 aveva chiesto a Enrico Berlinguer: «Che fa il Pci se questi operai decidono di occupare la fabbrica?». La risposta (giusta) di Berlinguer fu lungamente rimproverata al segretario del Pci.

La lunga storia

Il corteo parte, si evita corso Traiano (non si da mai che si torni indietro di quarant'anni), si imbocca corso Unione sovietica (si chiama ancora così) e all'altezza della V lega Fiom (che c'è ancora) si gira su via passo Buole. Nel portone d'angolo c'era la gloriosa sezione del Pci di Mirafiori (non ci sono più né l'una né l'altro, ora l'insegna dice «Mercatino dell'oro usato»). Su questa strada, dove ora ci sono birrerie e garage, c'erano le sedi di Lotta continua e Avanguardia operaia. Solo loro ci sono sempre, gli operai, quelli indigeni e quelli arrivati da tutt'Italia per riprendersi in mano un futuro troppo rapidamente consegnato a un capitano coraggioso. C'è ancora la Torino proletaria ai balconi, quella che quarant'anni fa nascondeva chi scappava dalle cariche delle celere in corso Traiano oggi applaude e fotografa quelli di Pomigliano che non mollano, aprono il giubbetto Fiat e mostrano più che il petto la scritta, perché si sappia chi sono. Sono quelli che bucano il video, prendono le botte dalla polizia e non mollano. In fondo al corteo c'è la solidarietà del movimento Glbt, con un furgone colorato e lo striscione «resistenza lesbica». Poco più avanti un operaio rosso nella felpa e nella bandiera Fiom agita la bandierina rosa del gay-pride.

Gli operai delle Meccaniche che hanno rifiutato di fare gli straordinari al sabato per rispetto verso chi è in cassa e verso se stessi sfilano in corteo vicino ai loro compagni delle carrozzerie che lo sciopero contro gli straordinari cominceranno a farlo sabato prossimo. Sembra una cosetta da niente: provate a pensare a chi vive con un salario ridotto a 650 euro al mese, a cui viene chiesto di riprendere il lavoro, e va bene, ma anche di lavorare di più per guadagnare di più. Provate a pensare che solidarietà esprime chi dice di no, e che forza mette in campo quando pretende di leggere, prima di trattare sugli straordinari, il piano industriale della Fiat per conoscere il futuro che lo aspetta. La Fiom svolge la parte del leone, ma finalmente ci sono quasi tutti in corteo. Fim, Uil, c'è anche il Fismic (ex Sida, già sindacato giallo) e nessuno si strappa i capelli per l'assenza della Ugl. L'unità è la difesa migliore, con l'unità si può costruire un futuro migliore. Ma l'unità non la fanno le sigle. Alla Fiat, la fa solo la lotta operaia.

Così è capitato tante volte nella storia, una storia che a Mirafiori è lunga settant'anni e non può finire. Come quella di Melfi e Cassino, di Pomigliano e Termini Imerese, di tutto l'indotto dell'auto, della Iveco, della Cnh. Un milione di lavoratori, un milione di famiglie italiane.

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