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Deborah Grossberg
Mall City
22 Maggio 2006
Articoli del 2005
Manhattan metabolizza i centri commerciali, addomesticandoli alla vita urbana? Macché: è una sottile invasione, con l'etichetta del "rinnovo urbano". Reportage da The Architect’s Newspaper, febbraio 2005 (f.b.)

[Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini. Per quanto riguarda le immagini, si vedano i riferimenti al link in fondo al testo (f.b.)]

I centri commerciali sono una minaccia per New York: prosciugano la vita dei quartieri attirando i clienti lontano dai negozi lungo la strada, spingono via gli abitanti da Manhattan, e si lasciano dietro una scia di leziose brutture affollate di abitanti suburbani in vacanza. Almeno, questa è l’opinione diffusa. Ma negli anni recenti, mentre compaiono nelle frequentate zone pedonali, da Union Square a Harlem, negozi big-box e luccicanti malls progettati e finanziati nel mercato rampante degli anni ’90, le paure di urbanisti e teorici si sono rivolte altrove. I costruttori e architetti di New York City hanno migliorato i vecchi modelli, per i nuovi malls urbani, e la rapida gentrification accelerata dagli sforzi del sindaco Giuliani per ripulire i quartieri, insieme allo sviluppo di politiche favorevoli alle nuove costruzioni dell’amministrazione Bloomberg, hanno incoraggiato l’assorbimento su vasta scala di questi nuovi centri commerciali. Se i malls urbani sono più convenienti per gli operatori e meglio connessi all’ambiente stradale, i più piccoli negozi tradizionali hanno cominciato a diventare sempre più omogenei, legati alle grandi catene, ovvero molto simili nell’organizzazione a un centro commerciale.

Quando furono aperti i primi centri commerciali a Manhattan negli anni ’80, urbanisti e teorici temevano che queste nuove megastrutture fossero l’avanguardia di una suburbanizzazione per New York. “Erano tutti inferociti quando Trump costruì il suo centro commerciale vent’anni fa, e adesso sembra quasi innocuo” commernta l’architetto e critico Michael Sorkin. “Sono piuttosto agnostico riguardo a questi nuovi interventi”. Altri critici sembrano meno incerti. In dicembre, una delle realizzazioni più note ( The Shops a Columbus Circle) ha vinto il riconoscimento della Municipal Art Society (MAS) 2003, MASterwork, per la progettazione urbana, come migliore spazio pubblico di proprietà privata. Rick Bell, direttore esecutivo dell’American Institute of Architects di New York e membro della giuria, afferma “Dopo l’11 settembre molti dei grandi atri pubblici della città sono stati chiusi ai pedoni per motivi di sicurezza. L’ingresso di The Shops è uno spazio interno/esterno con una vista spettacolare su Central Park, disponibile per tutti gli abitanti”.

I centri commerciali sono da sempre territorio della middle class, e nonostante i nuovi interventi a Manhattan vadano dal livello più basso a punte di lusso, rappresentano ancora un elemento “populista” nel panorama commerciale della città. “Politici e urbanisti di solito utilizzano i centri commerciali come esche per la middle class bianca, ma nel caso di Manhattan c’è stato un processo inverso”, dice Jeffrey Hardwick, l’autore di Mall Maker: Victor Gruen, Architect of an American Dream (University of Pennsylvania Press, 2004). “La middle class è tornata a Manhattan e i centri commerciali l’hanno seguita”.

Qualcuno dice che il relativo silenzio di chi odia i centri commerciali è il risultato di una maturazione degli operatori di edilizia commerciale. “Costruttori e commercianti sono diventati più abili nell’intervenire a Manhattan” sostiene Peter Slatin, che ha creato il sito di notizie immobiliari The Slatin Report. “Lavorano in collaborazione per realizzare centri integrati verticali”.

Cercando di ridefinire la tipologia del mall in senso urbano, i costruttori oggi hanno cominciato eliminando proprio il nome. I primi centri commerciali, come il Manhattan Mall, inaugurato nel 1989 all’angolo fra la Sixth Avenue e la Trentatreesima Strada, erano ancora legati a denominazioni e tipi di progetto standardizzati. L’organizzazione tutta rivolta all’interno e i particolari dozzinali li qualificavano per quello che erano. “Quei centri commerciali non sono mai entrati in sintonia con gli abitanti di New York” prosegue Bell, il direttore dell’AIA. I costruttori di oggi evitano di trasmettere quell’immagine negativa, inventandosi un nuovo gergo, che parla di “ambiente commerciale verticale”, l’etichetta preferita da The Related Companies e Apollo Real Estate Advisors’ per il loro progetto commerciale a Columbus Circle.

Storicamente, è stato sinora impossibile far funzionare il commercio in senso verticale in una città dove ci sono costi dei terreni troppo alti per consentire fattibilità finanziaria al classico modello di centro commerciale su due livelli. Per attirare clienti ai piani più alti, architetti e costruttori hanno migliorato i rapporti con l’ambiente circostante del quartiere, con progetti ricchi di trasparenze e rivolti verso l’esterno.

Harlem USA, l’insediamento commerciale all’angolo fra la 125° Strada e Frederick Douglass Boulevard inaugurato nel 2001, è dichiaratamente lontano dal classico mall suburbano rovesciato su se stesso, nello stile inventato dall’architetto viennese Victor Gruen nel suo prototipo di centro commerciale del 1956 al Southdale Center di Edina, Minnesota. Al Southdale, Gruen separava totalmente i negozi dalla strada, assumendo un controllo totale sull’ambiente commerciale. Quando è stato commissionato allo studio Skidmore Owings & Merril dalla Grid Properties il progetto per Harlem USA, il gruppo di lavoro si è concentrato sul ribaltamento del modello Gruen. “Abbiamo creato l’ anti-mall” afferma Mustafa Abadan, direttore del progetto per SOM. “Le radici del commercio a New York sono al livello strada, e l’idea è stata quella di utilizzare quell’energia, progettando lo spazio orientato all’esterno”. Lo studio SOM ha anche eliminato la circolazione interna. I piani superiori dei singoli negozi sono raggiungibili soltanto attraverso scale mobili interne agli stessi negozi, e l’atrio del cinema al terzo piano, accessibile da un ingresso indipendente al livello strada, si affacca sull’esterno. “Anche se i negozi sono più grandi, mantengono essenzialmente la tipologia delle strade di New York” dice Abadan.

Harlem USA si è attirato molti più commenti negativi da parte della stampa, di quanto non sia successo agli Shops, a causa della sua collocazione in un quartiere storico. I negozianti della zona sostengono che le grandi catene di distribuzione hanno tolto lavoro ai negozi a gestione familiare [ mom-and-pops], e che l’atmosfera generale del quartiere ne soffre. Altri vedono nel nuovo insediamento un importante passo in avanti nel rinascimento economico di Harlem. “ Harlem USA ha portato in zona clienti che altrimenti sarebbero andati a far compere sulla Trentaquattresima o a Downtown” sostiene Abadan.

Anche l’insediamento commerciale della Vornado Realty Trust al’angolo sud-occidentale di Union Square usa le trasparenze per adescare clienti. “A Manhattan si vive lo shopping come uno sport” racconta JJ Falk, responsabile dello studio JJ Falk Design, che ha progettato Filene’s Basement, DSW Shoe Warehouse, e il sistema interno del complesso della Vornado per Union Square. “È come entrare in un museo: se alla gente piace quel che vede, ci staranno più a lungo”. Una “torre” di vetro per la circolazione pedonale è pensata per attirare il movimento dalla strada a partire dal nodo di trasporti di Union Square, e Falk ha sistemato le scale mobili nel grande movimento dei tre piani di Filene’s Basement con pareti a vetro su tutta l’altezza che guardano Union Square. “È come stare nel parco” dice Falk.

DSW e Filene’s hanno aperto i loro punti vendita a Union Square in ottobre e si prevede l’inaugurazione di un Whole Foods Market più avanti quest’anno. Nonostante non siano disponibili dati sulle vendite, Falk dichiara che l’intero costo di costruzione del complesso sarà recuperato entro sei mesi, se le cose continuano così.

I legami col quartiere sono stati importanti anche nel caso del progetto The Shops a Columbus Circle. “È stato innanzitutto un problema di creare ampi spazi di passaggio pedonale, a collegamento con la città” afferma Howard Elkus, socio di Elkus/Manfredi, lo studio di Boston specializzato in architetture commerciali che ha progettato gli Shops. Il disegno intreccia lo spazio del complesso commerciale con il tessuto urbano, attraverso due assi di circolazione, uno che curva seguendo la linea di Columbus Circle, l’altro su dalla Cinquantanovesima a una “ great room” su cinque piani. Il confine ridotto al minimo fra complesso commerciale e strada, è sottolineato dal progetto dello studio James Carpenter Design Associate per la facciata dell’ingresso, una parete di vetro e cavi larga 25 e alta 45 metri, che vanta il record mondiale di dimensioni per strutture di questo tipo.

Oltre l’enfasi sulla trasparenza, Related e Apollo contano sulla posizione dei 36.000 metri quadri di Shops, nel cuore dei 280.000 di funzioni varie del Time Warner Center (progettato da Skidmore, Owings & Merrill) per compensare gli enormi costi di costruzione a New York (il Time Warner Center è costato un totale di 1,7 miliardi di dollari) e giustificare gli astronomici affitti annuali delle principali superfici commerciali (da 3.000 a 4.000 dollari al metro quadro). Il classico modello basato su un anchor store è stato sostituito con residenze di lusso, spazi per uffici di rappresentanza, cinque ristoranti di alto livello, e una sala da concerti per il jazz al Lincoln Center (progettata dalla Rafael Viñoly Architects). The Shops dunque ha buone possibilità di diventare luogo frequentato da clienti che vengono sia da New York che da molto più lontano.

In più, l’insieme commerciale di alto profilo del complesso è adatto sia a clienti dello Upper West Side che se ne tornano a casa dal lavoro, sia per i turisti nel loro giro da Times Square al Central Park. Una delle grosse attrazioni è Whole Foods Market, su 6.000 metri quadrati nel seminterrato. Anche se qualcuno si lamenta per i prezzi elevati degli alimentari, i più l’hanno visto come una benedizione. “Le città non hanno bisogno dei malls a far da luoghi di incontro, come nei suburbi, ma quando ci si trovano le cose che piacciono alla gente (e a New York si comincia dal cibo) c’è un maggior potenziale di riuscita” dice Bell.

Questo tentativo di attirare visitatori con grossi insediamenti a funzioni miste si avvicina ai sogni utopici dei primi progettisti di centri commerciali, come Gruen. “A Southdale, Gruen aveva progettato appartamenti, un parco, un centro medico, anche scuole, oltre al mall. Sembrava un progetto di Le Corbusier con torri e spazi verdi” dice Hardwick. La fantasia suburbana di Gruen fu cancellata da mancanza di risorse, un elemento che lo stesso progettista spesso indicava come causa della crisi della propria visione.

Il problema, ora, è se l’inserimento di residenza, cultura, e altri elementi graditi possa funzionare come pensato. “Non è chiaro se pagherà davvero, o se sia soltanto un elemento di tipo promozionale” sostiene Hardwick. All’avvicinarsi del suo primo anno di attività, The Shops offre cifre promettenti, con vendite maggiori di quelle previste, e il 99% dei suoi oltre 34.000 metri quadrati occupati.

Se i centri commerciali si adattano e abbracciano la vita urbana, gli urbanisti sembrano preoccuparsi per quanto la storica e docente di Harvard Margaret Crawford ha definito “ spontaneous malling”, il processo secondo il quale uno spazio urbano inizia ad assumere tutte le qualità di un complesso commerciale anche senza l’intervento degli operatori. “A questo punto, il tratto di Broadway a SoHo è di fatto e totalmente un mall” osserva Crawford, che ha scritto il saggio The World in a Shopping Mall, nella famosa raccolta curata da Sorkin, Variations on a Theme Park (Noonday Press, 1992). Broadway, su cui si allineavano boutiques alternative e gallerie d’arte, ora è piena di negozi di grandi catene come Old Navy, Crate & Barrel, o Sephora: gli stessi marchi dei centri commerciali suburbani. “La centrocommercializzazione spontanea è un fenomeno sempre più frequente, e le città la considerano anche desiderabile visto che attira clienti suburbani, in questo caso dal New Jersey”.

I colpevoli di questo emergente fenomeno “ street-as-mall” a New Tork sono spesso i Business Improvement Districts (BIDs). Coordinado i sistemi delle insegne, l’arredo urbano, la segnaletica, o addirittura le uniformi degli spazzini, i BIDs spesso inducono consizioni di simil-centro commerciale. Osserva Slatin, “È un continuo tira-e-molla su quanto omogeneizzare un quartiere o lasciare il caos. C’è valore nell’ordine, sopratutto in termini di sicurezza e comodità per i turisti, ma al tempo stesso la città ha un modo proprio di organizzarsi”.

Manhattan è riuscita a rimodellare i malls a propria immagine, mentre le caratteristiche intime del mall si insinuavano in silenzio nel suo tessuto. “Ci sono sempre allarmi di crisi, sul fatto che il centro commerciale sta uccidendo qualcosa, o che sta scomparendo” conclude Hardwick. “La cosa sorprendente è quanto la sua forma appaia flessibile, oggi”. Anche in una città dalla cultura commerciale tanto vivace, il mall ha trovato modi di penetrazione. Il risultato per Manhattan sono due varianti sorprendentemente simili: il centro commerciale come città, e la città come centro commerciale.

Nota: qui il link al testo originale sul sito dello Architect’s Newspaper; riguardo ai temi toccati in questo articolo, Eddyburg ha già proposto a suo tempo articoli sull’opera di Victor Gruen e sull’organizzazione del Business Improvement Districts, disponibili in questa stessa sezione (f.b.)

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