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Giovanni Valentini
Ma la pubblicità non fa politica
4 Luglio 2009
Articoli del 2009
Mission della pubblicità è trasformare i cittadini in clienti: gli elettori non le servono, nà la distinzione tra destra e sinistra. La Repubblica, 4 luglio 2009

Quando il presidente del Consiglio arringa gli imprenditori e li incita a non investire sui giornali che lui considera "catastrofisti", o peggio ancora "disfattisti", fa un torto alla pubblicità e nello stesso tempo un danno al sistema economico. Un torto agli inserzionisti pubblicitari, perché – come ha dichiarato Lorenzo Sassoli de Bianchi, appena confermato alla presidenza dell’Upa, l’associazione che raccoglie 400 imprese pari all’85 per cento degli operatori – si tratta di «professionisti che investono in base al mercato» e non si sono «mai fatti condizionare dalla politica». Un danno all’economia, perché l’istigazione del premier-tycoon minaccia comunque di ridurre le risorse pubblicitarie o magari distrarle a vantaggio delle sue televisioni private.

In questo senso, senza invocare per l’ennesima volta il conflitto d’interessi, si potrebbe anche parlare di interessi privati in atti d’ufficio. Ma tant’è. Ora che alla presidenza di Panama s’è insediato l’italiano Ricardo Martinelli, imprenditore e proprietario delle principali reti tv nazionali, c’è da temere che il "modello Berlusconi" venga esportato su scala planetaria o che viceversa la "democrazia caraibica" sia destinata a imporsi nel cuore della vecchia Europa, con tanto di legislazione fiscale offshore. E nell’Ottocento, come ricorda John Le Carré in apertura di un suo celebre romanzo che ha per protagonista un sarto-spia, si usava l’espressione francese "Quel Panamà!" per dire appunto "Che gran casino!".

Ma la pubblicità, la buona pubblicità, non fa politica. Si rivolge a un mercato di consumatori, non a una folla di elettori. Punta a promuovere e vendere prodotti, non ad aggregare consensi o a raccogliere voti. E quindi, almeno nell’interpretazione della parte più avanzata e prevalente degli operatori del settore, si conviene generalmente che debba essere veritiera, corretta, trasparente. Tutto questo nell’interesse degli stessi inserzionisti oltre che dei destinatari o "utilizzatori finali", come direbbe l’ineffabile avvocato Ghedini.

Prendiamo l’esempio più recente: quello del "product placement", la tecnica di pubblicità indiretta che tende a piazzare il prodotto all’interno di un film o di un programma televisivo. Si tratta evidentemente di un messaggio subdolo, quasi subliminale. Perciò l’ultima direttiva europea in materia esordisce con il divieto del "product placement" nelle trasmissioni tv. Ma poi contempla la possibilità di deroghe, lasciandone facoltà ai singoli Stati. E alcuni, a cominciare dalla liberale Gran Bretagna, hanno già deciso di non consentire questo inserimento in difesa del mercato e dei consumatori: secondo il governo inglese, i benefici economici sarebbero stati minori dell’impatto negativo che avrebbe sulla qualità dei programmi e della perdita di fiducia dei telespettatori.

In Italia, invece, la legge comunitaria approvata recentemente dal centrodestra attribuisce una delega al nostro governo che sembra ammettere il "product placement" senza limiti, o perlomeno senza limiti maggiori di quelli molto blandi che la stessa direttiva prevede, in un settore caratterizzato da un’alta concentrazione. Ciò servirebbe a evitare che i prodotti italiani di fiction siano svantaggiati rispetto a quelli degli altri Paesi europei che così potrebbero godere di ricavi superiori e risulterebbero più competitivi. Ma evidentemente l’argomento non può valere per i programmi di intrattenimento e per i reality che non sono destinati a essere esportati e nei quali l’affollamento è già elevato.

Se la pubblicità, la buona pubblicità, non fa politica, da noi accade dunque che la politica fa pubblicità. Le arringhe del premier-tycoon contro i giornali "catastrofisti" o "disfattisti" – tra i quali bisognerebbe includere la stampa di mezzo mondo a cominciare dal Financial Times e dall’Economnist, organi ufficiali della business community internazionale – appartengono proprio a questo genere. E al di là degli interessi aziendali e commerciali di Berlusconi, sono fondate in realtà su un modello di consumo che la crisi globale si sta incaricando di correggere o comunque di superare.

Non è in discussione, ovviamente, il capitalismo né l’economia di mercato. Ma piuttosto un iper-consumismo – cioè un consumismo bulimico, esasperato – che non tiene conto degli equilibri sociali e delle compatibilità ambientali. Torna in mente così la suggestiva rappresentazione di una delle città invisibili di Italo Calvino: «Più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove». Una profezia sulla degenerazione della società consumistica che oggi, piaccia o non piaccia al nostro presidente "escortista", appare più che mai attuale.

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