Dio denaroTraduzione di Norberto Bobbio, introduzione di Luciano Canfora. I disegni di Maguma sembrano il cortometraggio di un bestiario medievale. la Repubblica, 27 giugno 2017
Karl Marx, Dio denaro, ed. Gallucci, con disegni di Maguma, trad. di Norberto Bobbio, introduzione di Luciano Canfora
Comunicazione agli asili: non lasciatevi illudere dal formato delle pagine e dalle immagini coloratissime, perché questo - sebbene travestito da libro per bambini - era e rimane un pericoloso libello dell’infantivoro Karl Marx. Altro che favole della buonanotte. Qui si dà forma scritta all’idea malsana che da oltre un secolo e mezzo turba il sonno ai piani alti del capitale, e cioè che il denaro - creato dagli uomini - ha finito per umiliare gli uomini stessi, facendone un’infinita distesa di schiavi disposti a tutto in nome del codice Iban.
Il denaro insomma sarebbe la radice del male, come d’altronde avevano già detto certi marxisti della prima ora come san Paolo nella Lettera a Timoteo. Ma siccome ogni teoria nasce da un nucleo essenziale, varrebbe la pena di leggersi il curioso libro edito da Gallucci, dov’è espresso in fondo il cuore inalterato e potente di quella proliferazione di tomi e di trattati che ha fatto da struttura dottrinaria al socialismo. Scordatevi tutto quello che è seguito, dai bolscevichi alla Bolognina: qui c’è solo un signore di nome Karl che riflette sul denaro. E lo fa in modo folgorante, inducendoci a un paio di intuizioni sul perché abbia ancora senso nel 2017 proporre all’attenzione dei lettori il barbuto orco di Treviri.
Intanto lode sia a chi si è inventato di stampare in questo spiazzante formato le più caustiche parole del vecchio Karl, tratte dai celebri Manoscritti del 1844, e qui inserite a piè di pagina sotto un tripudio di grafica neoespressionista, efficacissima, a firma dell’artista iberico Maguma. E qualcosa già si potrebbe dire sulla fruizione che la trovata ingenera: le parole di Marx (qui tradotte da Norberto Bobbio) scorrono come un commento in voice- over sui fotogrammi di una pellicola. Ed è un cortometraggio visionario, da bestiario duecentesco, in cui un osceno caravanserraglio di ominidi deformi - ora con fattezze da suini, ora trasformati in salvadanaio - sembra ritratto nel VII canto dell’Inferno a spingere macigni o fra pozzanghere d’inchiostro dorato che come metastasi si spartiscono la carta.
Trovo sia un’intuizione folgorante: il libro contiene macchie di luce, e quelle macchie - le uniche a brillare dalla carta opaca - sono per l’appunto i soldi.
E allora ti chiedi: è vero che il denaro oggi è luce? È una domanda chiave, direi, in un tempo come il nostro in cui un uomo dai capelli dorati (non a caso) si è seduto nello studio ovale grazie a slogan come «I poveri sono degli idioti: se sei ricco è la prova che vali». Mi si dirà, a parziale scusante, che il signor Trump è un presbiteriano, e che Max Weber scrisse in abbondanza su cos’è il profitto per i calvinisti. Certo. Ma vorrà pur dir qualcosa se oggi la malattia dell’oro si è fatta talmente endemica che le masse dei diseredati (quelle che un tempo il capitalismo lo avversavano) si sono piegate loro stesse, supine, all’idolatria del lusso tributando ai plutocrati non solo stima e ammirazione, ma perfino il voto.
Luciano Canfora scrive qualcosa di prezioso a questo riguardo nell’introduzione al libro. Io mi limito a registrare che ricchezza non è più solo sinonimo di potere ma di consenso, e stare ai primi posti nella classifica di Forbes costituisce un passepartout per farsi eleggere a difendere l’altrui interesse. Pensate a Paperon dei Paperoni: nasce dalla matita di Carl Barks nel 1947 ed è il paradigma dell’americano arricchito, immigrato come i Lehman (loro dalla Baviera, lui dalla Scozia).
Ebbene, Scrooge - questo il suo nome, a modello dell’avido Dickens - vive la sua ricchezza come un patrimonio solo suo, claustrofobico e precluso al mondo esterno, al punto che uno dei leit-motiv è la sua rancorosa solitudine nel mare d’odio che lo circonda (nel 1974 l’economista Richard Easterlin formulò il paradosso sull’infelicità degli abbienti, traducendo in numeri quel che Molière aveva tratteggiato nell’Avaro). Ebbene, oggi, Paperone sarebbe invece amatissimo: ostenterebbe il suo capitale sulle copertine dei rotocalchi, e dal resort di Mar-a-Lago, fra leoni laccati d’oro, chiederebbe il voto fra Paper-Melania e Paper-Ivanka.
Cos’è mai accaduto nel frattempo di così squassante? Mille le ipotesi. Ne tento una. Ho detto che le parole di Marx sono del 1844, ovvero dello stesso anno in cui il telegrafo faceva il suo debutto fra Baltimora e Washington: è un po’ come dire che, mentre il primo socialista formulava la sua critica al capitale, la culla del capitalismo intuiva nella comunicazione lo spietato strumento per diffondere il suo vangelo. Da quello stitico messaggio in codice Morse siamo approdati all’era dei social e del trading- online, ed è indubbio che la rete di interconnessione planetaria sia una portentosa macchina commerciale, fatta per «procurare a un altro uomo un nuovo bisogno» (Marx scripsit), e così alimentare l’apoteosi del denaro.
Tutto è afferrabile nel grande bazar online e quell’onnipresente tasto “Comprami subito” sembra fatto per risarcire ogni frustrato dalle sue miserie, regalandogli la scarica di dopamina che scatta a ogni nuovo possesso, e che faceva sorgere in Marx il terrore di una società basata moralmente su una dipendenza. Intanto, oltre un secolo dopo che miss Elizabeth Magie si inventò Monopoly, la casa di giocattoli Hasbro ha lanciato una versione per bambini: l’idea è farli divertire - riferisco testualmente - facendogli «guadagnare un bel gruzzolo». Chissà se accanto alle caselle «Paga le tasse» e «Finisci in prigione» è stata aggiunta «Diventa Presidente »: il buon baby-capitalista dovrebbe metterlo in conto.