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Paolo Cacciari
L’uscita dalla crisi a Nordest: non c’è luce in fondo al tunnel
27 Febbraio 2010
Articoli del 2010
Un’analisi della crisi sulla quale spargono lagrime molti politici “settentrionalisti”. Carta Estnord, anno XII n. 2, febbraio 2010,

La formula d’uso comune “questione settentrionale”, secondo Luciano Canfora (autointervista in La questione settentrionale. Economia e società in trasformazione, a cura di Giuseppe Berta, Feltrinelli 2007), fu inizialmente usata dal gruppo che si era formato attorno ad Adriano Olivetti (Franco Momigliano, Alessandro Pizzorno, Pasquale Saraceno…) per indicare un dissenso della società civile economica emergente nel “triangolo industriale” nei riguardi dello statalismo della classe politica e amministrativa domiciliata nella capitale. All’origine non conteneva significati né antimeridionalisti né antipolitici. Al contrario gli intellettuali progressisti, pur guardando al Sud in termini di arretratezza economica e incompiutezza del processo di unificazione risorgimentale, erano sicuri che una buona politica e una buona programmazione economica (quella del futuro centrosinistra) avrebbero potuto superare il crescente divario di sviluppo. Con il fallimento delle politiche meridionaliste, l’espressione “questione settentrionale” diventa un “espediente retorico, polemicamente oppositivo rispetto alla formula questione meridionale”. Di più, con l’avanzata del leghismo, già negli anni ’80, diventa un modo per segnare le diversità e approfondire le separazioni; il fondale davanti al quale mettere in scena le varie rappresentazioni secessioniste, più o meno cruente, più o meno leggere, a seconda delle circostanze e delle convenienze elettorali.

In realtà tutti sanno bene che la questione degli squilibri territoriali fa parte di un problema grande come il mondo: divario degli indicatori di sviluppo, ineguaglianze e conflitti distributivi, competizioni tra aree geografiche sono il pane quotidiano di cui si nutre il “modello” di crescita dominante del capitalismo competitivo e iperliberista. Tanto che anche le politiche di “perequazione” (tra i paesi aderenti e all’interno dei singoli paesi) tentate a più riprese con dispendio di risorse dalla Unione europea – sono miseramente naufragate.

In questo quadro di fallimenti storici delle politiche pubbliche, il discorso della Lega (che ha fatto ampie brecce anche nel centro e nella sinistra liberale) non poteva che avere grande seguito, essendo il più aderente al tipo di individuo della specie homo omini lupus che ha maggior successo nella lotta darwiniana per l’ evoluzione in ambiente liberista. Il problema è che questa antropologia è cattiva; viene alimentata quotidianamente (da ultimo, vedi Luca Ricolfi che nel suo Il sacco del Nord , Edizioni Guerini e Associali, 2010, calcola che 50 miliardi all’anno vengano “ingiustamente sottratti” alle regioni settentrionali) ed è temuta perfino da uno come Gianni de Michelis: “Nel declino ogni solidarietà verrà meno e il Nord sarà tentato di sollevarsi cercando di liberarsi del Sud” (Dialogo a Nordest, scritto a due mani con Maurizio Sacconi, Marsilio 2010). Quindi, la grande crisi che sta attraversando l’economia mondiale, può essere un acceleratore delle pulsioni separatiste, dei proclami indipendentisti, della balcanizzazione delle coscienze, prima che dei confini nazionali. Ma di quale crisi stiamo parlando?

Secondo gli osservatori vari di banche, istituti di ricerca, camere di commercio, ecc. sembra che nell’”anno terribile” (il 2009) nel Veneto ci sia stato un calo del reddito disponibile dello 0.9%. Grave, ma non impossibile da ammortizzare, sapendo che il Veneto è la seconda per il reddito procapite familiare e la prima per depositi bancari. Il bilancio tra chiusure e aperture di imprese è negativo, ma non per le società di capitali. Per molti osservatori l’ampliamento delle dimensioni delle imprese e le fusioni sono un processo positivo. Il presidente di Unioncamere ha affermato: “Il 62% delle imprese intervistate dal nostro Centro Studi ha previsto che a crisi riassorbita avrà raggiunto un livello di competitività superiore a quello di un anno fa” (il Sole 24 Ore). E sembra aver ragione: nel bel mezzo della crisi, già nel 2009, le esportazioni italiane sono aumentato del 23% in Brasile, del 21% in India, del 17% in Cina, del 14% in Sud Africa, del 40% in Turchia. Quel che si dice “paesi emergenti”. Per contro il calo della occupazione è stato rilevante, ma prevalentemente a carico dei lavoratori stranieri e circoscritto attorno ad alcuni settori e categorie di imprese (edilizia e industrie di più grandi dimensioni). Ha scritto Carlo Triglia (La terza Italia delle reti locali, il Sole 24 Ore). “Si profila un paradosso: la forza dell’arretratezza del modello italiano (..) la dimensione ridotta delle imprese, il più forte apporto con la famiglia, l’intreccio più stretto tra reti sociali e reti produttive, il basso indebitamento e sottocapitalizzazione delle imprese e il ruolo delle banche locali, delle organizzazioni di categoria, dei governi locali, ma anche la forte presenza del risparmio delle famiglie. Insomma, si tratta di un sistema in cui l’economia è meno separata: è più immersa nella società locale”. Così: “gli effetti della crisi tendono ad essere più diffusi e più ammortizzati dalla società locale”. I miracoli si ripetono a nordest; flessibilità, adattamento, specializzazione produttiva, conquista di nicchie di mercato per l’export … consentono al “modello familista-comunitario” – come lo chiama Aldo Bonomi – di cavalcare anche le onde della crisi. Il pulviscolo delle piccole imprese, più o meno consorziate “a grappolo” e internazionalizzate attraverso la catena di comando organizzata dalle imprese leader, le “multinazionali tascabili” dei vari Benetton, Lotto, Geox, Marzotto, Lux Ottica, Carraro, Danieli… continua a fare sistema.

Tutto bene quindi? Con una attenzione: non fare mai l’errore di confondere la capacità produttiva delle imprese con il benessere del contesto sociale, con la joie de vivre, direbbe Giacomo Becattini (Ritorno al territorio, il Mulino, 2009), con il bien vivir, come diciamo noi che amiamo i popoli indigeni, con il piacere di vivere in serenità, come pensa la gente. Infatti capita spesso che un’impresa riesca a fare utili proprio peggiorando le condizioni dei suoi dipendenti e stressando le condizioni ambientali. Quando giornalisti e politici di governo ci dicono “stiamo uscendo dalla crisi”, in realtà stanno guardando solo ai bilanci delle imprese e alla loro quotazione in borsa, non ai volumi di reddito effettivamente distribuito a chi ci lavora e tanto meno alle condizioni generali delle comunità locali. Politiche di bassi salari e tagli dei servizi di welfare locali, ricorsi generalizzati alla cassa integrazione anche “in deroga” (anche per gli artigiani) e tagli alle commesse dei contoterzisti possono servire a ristrutturare, selezionare ed eliminare concorrenti, concentrare capitali e potere nelle mani della nuova “classe imprenditoriale” emergente, una vera e propria elite che ha raggiunto la vetta del successo e delle glorie della “terza Italia” (né con le famiglie della grande finanza, né con lo stato), ma tutto ciò non significa automatico miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita delle popolazioni che di fatto sorreggono (in quanto “capitale sociale”, dicono gli economisti) le economie territoriali dei distretti e dei cluster produttivi.

La Lega, insomma, potrebbe entrare in contraddizioni imbarazzanti. Sostiene il liberismo antistatalista e chiede più dazi; predica il Made in Italy ma non può mettersi contro gli industriali che importano “scarpe italiane” dalla Romania, occhiali cadorini dal Vietnam, vetri di Murano dalla Cina; veste di verde i “proletaroidi” (come Bonomi chiama i micro imprenditori) ma dispensa dal governo di Roma “stimoli di stato” alla Fiat e promette sconti persino alla americana Alcoa; difende il latte padano e vota in Consiglio regionale il nucleare francese. Anche per la Lega la conquista del suo Palazzo d’inverno, il Balbi, potrebbe rivelarsi piena di fastidiose sorprese. Ma non c’è problema. Fino a che l’”opposizione” sarò più leghista della Lega, potrà contare sulla più assoluta mancanza di alternative.

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