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Michela Barzi
L’urbanità resistente di Gezi Park
16 Gennaio 2015
Spazio pubblico
«Il movimento di Gezi Park indica che la salvaguardia non era l’unico aspetto a contare. La "classe emergente" del movimento è stata in grado di costruire solidarietà e forme di condivisione e sostegno collettivo. Tuttavia "la massa delle classi lavoratrici islamiche non ha aderito alla rivolta"».

«Il movimento di Gezi Park indica che la salvaguardia non era l’unico aspetto a contare. La "classe emergente" del movimento è stata in grado di costruire solidarietà e forme di condivisione e sostegno collettivo. Tuttavia "la massa delle classi lavoratrici islamiche non ha aderito alla rivolta"».

Nel suo recente saggio The Crisis of Planetary Urbanization, scritto per il catalogo della mostra Uneven Growth Tactical Urbanisms for Expanding Megacities (in corso al MoMa di New York), David Harvey affronta il tema delle rivolte della “classe emergente” urbana che, in paesi dove non sembra esistere la crisi economica almeno guardando al PIL, si è mobilitata contro uno dei classici paradigmi della crescita illimitata. «Il cemento viene versato ovunque e ad un ritmo senza precedenti sulla superficie del pianeta terra. Siamo, insomma, nel bel mezzo di una grande crisi - ecologica, sociale e politica – dell’urbanizzazione planetaria, a quanto pare senza che la si conosca e persino che la si evidenzi. Niente di tutto questo nuovo sviluppo sarebbe stato possibile senza massicci spostamenti di popolazione e spoliazioni, fatte di ondate successive di distruzione creativa che ha avuto non solo il suo tributo fisico ma che ha infranto la solidarietà sociale, esacerbato le disuguaglianze sociali, spazzato via tutte le pretese di governance urbana democratica, e ha progressivamente cercato la sorveglianza della polizia militarizzata e del terrore come principale modalità di regolazione sociale».

Quella in difesa di Gezi Park ad Istanbul è sicuramente una delle rivolte della “classe emergente” urbana contro «il boom dell’urbanizzazione che ha avuto poco a che fare con il soddisfacimento dei bisogni delle persone». La protesta ha riguardato soprattutto lo stile sempre più autocratico del governo turco e la violenza della risposta della polizia, che a livello nazionale ha prodotto migliaia di feriti e otto morti. La furia distruttrice del regime di Erdogan, esercitata in nome del rinnovamento urbano, sta profondamente modificando il tessuto edilizio e la composizione sociale della più grande città turca. Istanbul con il 20% della popolazione del paese e oltre il 40% delle sue entrate fiscali, è il motore dell’economia nazionale, e l’attuale presidente, che della città è stato sindaco e che era primo ministro durante le proteste del 2013, sta imponendo progetti del valore di oltre 100 miliardi di dollari per la ricostruzione di numerosi settori urbani. Alberghi e complessi residenziali di lusso, un’isola artificiale pensata per le feste alla moda di chi si può permettere un appartamento fronte Bosforo, un restyling complessivo dello skyline un tempo dominato dai minareti.
Un quadro al quale non mancano gli enormi impatti sociali che si verificano in questi casi e che ha innescato il ribollire del malcontento per i modi violenti del processo di trasformazione urbana, attuato a colpi di sgomberi della popolazione insediata dove sono previsti i progetti di valorizzazione immobiliare. La crescita urbana di Istanbul, che è diventata la bandiera della modernizzazione e della occidentalizzazione della Turchia, è impressionante: dal 1970 la città è passata da 2 a 16 milioni di abitanti. Oltre alle proteste per salvare Gezi Park altri segnali di opposizione sociale sono emersi al vasto consenso di cui gode il partito di Erdogan, che molto si avvantaggia delle buone performance economiche della Turchia anche grazie il settore delle costruzioni.

Due anni fa il governo ha stanziato 400 miliardi di dollari in un piano per abbattere e ricostruire tutti gli edifici a rischio sismico della città. L’iniziativa coinvolgerà centinaia di migliaia di edifici in decine di quartieri di Istanbul. A Okmeydani 5.600 edifici del quartiere sono stati classificati a rischio sismico e sulle aree che ricevono questa denominazione gli interventi saranno possibili senza il consenso dei proprietari. Qui lo scorso giugno, durante una delle manifestazioni contro il piano di ricostruzione, quando sembrava che si fosse arrivati ad una stretta riguardo alle demolizioni, è morto un ragazzo di 15 anni.

Il partito di governo vede nei grandi progetti di costruzione il simbolo del rinnovato prestigio della Turchia e un mezzo per sostenere la crescita economica. Qualunque cosa minacci la realizzazione dei progetti che sono alla base del boom edilizio turco è oggetto di intervento governativo, sottolinea David Lapeska in un recente articolo su Next City. Alla fine di novembre 2014, ad esempio, il ministero dell'ambiente ha esentato i centri commerciali, i complessi residenziali, i campi da golf e gli impianti idroelettrici di piccole dimensioni dalla valutazione di impatto ambientale in precedenza obbligatoria; una misura in diretta violazione di una sentenza dalla Corte Costituzionale. Nel mese di dicembre, il governo ha elaborato un disegno di legge per controllare l’ordine architetti e ingegneri, l'unico organismo indipendente in grado di rallentare, tramite la presentazione di azioni legali, i progetti che prevedono aspetti discutibili.

Ad un anno e mezzo di distanza dalla sua nascita, il movimento di Gezi Park ha ripreso a mobilitarsi a novembre 2014, quando il progetto di edificazione del parco è riapparso nonostante le promesse ufficiali della sua cancellazione. Una nuova prevedibile ondata di proteste avrà però da misurarsi con le misure varate dal governo per controllare i siti internet e gli account dei social network. Un primo tentativo di organizzare una manifestazione contro il progetto è già stata bloccata dalla polizia che ha affrontato con gas lacrimogeni i gruppi giovani scesi in piazza Taksim e impedito loro di entrare nel parco. La violenza della polizia unita alle restrizioni delle libertà di manifestare il dissenso possono trovare un alleato contro il movimento di Gezi Park nella campagna politica che il partito di governo sta lanciando in vista delle prossime elezioni, con la quale mira a dipingere gli oppositori come nemici della nazione e del suo progresso.

Secondo David Harvey il movimento di Gezi Park ha indicato, che la salvaguardia del parco non era l’unico aspetto a contare. La "classe emergente" che ha dato vita al movimento è stata in grado di costruire solidarietà sociale e forme di condivisione e di sostegno collettivo riguardo al cibo, le cure mediche, i vestiti di cui avevano bisogno gli occupanti. «I partecipanti alla protesta hanno assaporato il piacere di discutere dei loro comuni interessi attraverso assemblee democratiche, si sono lanciati in discussioni che si tenevano fino a tarda notte, e, soprattutto, hanno trovato un mondo possibile di umorismo collettivo e di liberazione culturale che in precedenza sembrava loro precluso. Hanno aperto spazi alternativi, hanno fatto di un luogo pubblico un bene comune, e liberato il potere dello spazio per scopi sociali e ambientali alternativi. Hanno trovato se stessi e il parco. Essi hanno identificato un nascente ordine sociale in attesa.(…). La resistenza viscerale alla proposta di versare cemento su Gezi Park per costruire una imitazione di una caserma ottomana che funzionerebbe come un altro centro commerciale è in questo senso emblematica di cosa sia in sintesi la crisi dell’urbanizzazione planetaria. Versare sempre più cemento alla ricerca insensata di una crescita infinita non è ovviamente una risposta ai mali attuali».

E tuttavia - nota Harvey - «in Turchia la massa delle classi lavoratrici islamiche non ha aderito alla rivolta. Esse sono dominate da una loro forma di solidarietà culturale (spesso anti-modernista) e da relazioni sociali rigide (in particolare in materia di genere). Esse non sono state coinvolte nella retorica dell’emancipazione espressa dal movimento di protesta, perché quel movimento non ha affrontato in modo efficace la massiccia condizione di deprivazione materiale che le riguarda. Esse hanno apprezzato la combinazione di centri commerciali e moschee che il partito di governo AKP stava costruendo e non si sono curate della corruzione che evidentemente circonda il boom edilizio finché esso è stato una fonte di posti di lavoro. Il movimento di protesta di Gezi Park è stato, come le elezioni comunali successive hanno dimostrato, non sufficientemente interclassista per poter durare».

Ciò che insegna - tra le altre manifestazioni di resistenza alla barbarie e alla repressione dell’esperienza urbana capitalistica - il movimento di Gezi Park è che «riprendersi le strade attraverso atti di protesta collettiva può essere un inizio. Ma è solo un inizio e non può essere un’azione fine a se stessa», conclude Harvey. Finché «i bisogni delle masse non saranno soddisfatti e combinati con l’emancipazione culturale» sarà difficile superare «l'ethos neoliberale dell'individualismo isolato e della responsabilità personale anziché sociale» e costruire nuove forme di socialità dove le vite delle persone e il loro benessere possano radicarsi in altri modi di produrre e di consumare. Da questo punto di vista rafforzare l’idea che il benessere di tutti abbia più valore del prodotto interno lordo, del quale si avvantaggiano in pochi, può essere una buona base sule quale fondare esperienze urbane di resistenza in tutto il mondo.

Riferimenti
Sull'argomento si vedano di David Harvey, The Crisis of Planetary Urbanization, in Post, notes on modern & contemporary art around the globe e di i David Lapeska, Fight Over Istanbul Park Is Also a Fight for Freedom of Speech, in Next City.

Sulla violenza delle trasformazioni urbane a Istanbul si veda di Michela Barzi, Istanbul: la violenza della gentrification.
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