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Fabrizio Bottini
L'Urbanistica come alternativa all'Esercito
7 Febbraio 2013
Il mestiere dell'urbanista
Dall'epoca degli sventramenti ottocenteschi e dei boulevards al posto dei baluardi a terrapieno, trasformazione urbana ed evoluzione del concetto di difesa (e attacco) vanno di pari passo. E oggi? Alcune tendenze e strategie internazionali emergenti, ricomposte in una tesi che riguarda anche i territori italiani. Articolo ripreso da

Dall'epoca degli sventramenti ottocenteschi e dei boulevards al posto dei baluardi a terrapieno, trasformazione urbana ed evoluzione del concetto di difesa (e attacco) vanno di pari passo. E oggi? Alcune tendenze e strategie internazionali emergenti, ricomposte in una tesi che riguarda anche i territori italiani. Articolo ripreso da Mall, 4 febbraio 2013

Che ci sia una correlazione fra l'idea di città e l'idea di conquista, non è certo una grande e innovativa intuizione del sottoscritto. Solo per restare a tempi abbastanza vicini ai nostri, mi piace ricordare l'enfasi con cui il nostro giovane e (anche un po' troppo) entusiasta Bruno Zevi proponeva nell'immediato dopoguerra all'American Planning Association di sfruttare l'abbrivio della immagine vincente degli Usa nel mondo, dopo la sconfitta dell'Asse e l'avvio del processo di ricostruzione soprattutto in Europa, come vero e proprio arnese di politica estera. Cosa c'è di più propagandistico, per quello che si propone come modello universale di way of life consumi lavoro relazioni, argomentava Zevi, che mettre in vetrina addirittura il know-how che sta alla base degli spazi fisici entro cui poi quelle relazioni di sviluppano? Naturalmente sappiamo poi come è andata a finire: del vero e proprio sistema di valori ai vincitori della guerra importava abbastanza poco, valeva di più il famoso binomio militar-industriale, e a cascata l'imposizione di una serie di prodotti e sistemi in punta di baionetta, poi di informatica-finanza, sino ai nostri giorni. Ma l'intuizione non ha per questo smesso di essere del tutto valida e fondata.

Del resto, anche se in forma un po' caricaturale e a volte perniciosa, è proprio simbolicamente quello il processo in cui combattono a colpi di rendering gli studi delle archistar internazionali. Prendiamo il caso più recente e pubblicizzato, l'inaugurazione del grattacielo Shard progettato dallo studio di Renzo Piano in centro a Londra, in un'area di grande interesse nella fascia a sud del fiume. Si è parlato molto di quell'edificio, dal solito folkloristico “torre più alta d'Europa” o punto di osservazione inusitato del panorama metropolitano, alle innovazioni urbanistiche introdotte, prima fra tutte l'eliminazione del traffico automobilistico aggiunto, cancellando ogni previsione di parcheggio: i visitatori allo Shard ci devono andare a piedi, o coi mezzi pubblici, o in taxi, o farsi accompagnare in macchina dalla zia che poi al volo si allontana, perché lì non troverà mai, nemmeno pagando oro, una piazzola di sosta. Ma un commentatore più attento ci ha visto dell'altro, in quella grossa scheggia emergente sullo skyline della capitale finanziaria mondiale, e cioè la punta di un iceberg per nulla subacqueo: l'avanzata di una nuova forma di politica estera dei potentati mediorientali, sotto forma di investimenti immobiliari sparpagliati ovunque sul globo.
Secondo Peter Beaumont, esperto di politica estera dell'Observer, gli emiri del Qatar si stanno impossessando del mondo a modo loro, usando intelligentemente i soldi del petrolio e del gas, reinvestendoli in attività varie, di cui quel pur vistoso enorme grattacielo rappresenta la forma tangibile, ma i cui effetti e reti scorrono sotterranei, subliminali a volte, a permeare di sé vari scenari, urbani e non. Illuminato in questa luce di stravagante nuova conquista delle anime, che dire ad esempio del Master Plan appena presentato da un altro braccio armato urbanistico del Qatar per la nostra Costa Smeralda in Sardegna? Gli amministratori locali, come già avevano fatto prima con l'Aga Kahn, poi con Berlusconi, si precipitano a mendicare qualunque forma di investimento nel solito turismo suburbano a colpi di sprawl costiero, con complemento di un terminal riservato aeroportuale, in cui pare (dai pettegolezzi della sorveglianza) sfilino a decine le misteriose mogli velate dei nuovi padroni. Ma anche il nuovo e inopinato consumo di suolo e impatto ambientale assume tinte addirittura più fosche, se inizia a configurarsi come conquista militare di nuovi territori a colpi di progetti urbanistici, in cui una norma tecnica equivale a un trattato di pace e concessione politica internazionale. Ci si può chiedere se non si stia avverando perversamente la profezia di Zevi, ma invece degli hamburger della villetta e dell'utilitaria per tutti, il messaggio pare più sottile: non sarà mica una specie di jihad virtuale?
E allora si illumina di luce diversa anche il bell'articolo proposto domenica 3 febbraio da Richard Florida sul newyorkese Daily News, apparentemente di puro sostegno ad una specie di promozione politica del sindaco Micheal Bloomberg a Washington, alla fine del mandato che scade tra non molto. La riflessione di Florida parte da alcune considerazioni non molto esplicitate qui in Europa, ovvero che gran parte del sostegno politico alle due elezioni di Barack Obama si poggia non solo sulle fasce emergenti di giovani multietnici e immigrati non-bianchi, ma che si tratta principalmente di ceti urbani. Molto schematicamente, se l'elettore tipo della destra Repubblicana lo possiamo virtualmente dipingere come il classico maschio bianco col Suv che si sposta fra svincoli centri commerciali nella villettopoli dispersa, il sostenitore/sostenitrice di Obama prende l'ascensore, va in metro, magari inforca la bici nell'androne di un condominio di dieci piani in un quartiere popolare centrale.
Una divisione strumentale e tagliata con l'accetta, ma che fa il paio con tantissimi altri ragionamenti, per esempio gli infiniti rapporti della Brookings Institution sul ruolo centrale economico, anche mondiale, dei nodi metropolitani, o le scelte dell'amministrazione federale per il sostegno all'occupazione durante la crisi, che avevano quantomeno provato a uscire dalla logica dell'equazione automatica opere pubbliche = infrastrutture che promuovono urbanizzazioni disperse.
A questo, Richard Florida aggiunge la prospettiva vetusta dell'attuale struttura federale per lo sviluppo urbano, tutt'ora strascico dell'antico Housing and Urban Development nato a cavallo tra le due guerre, in piena epoca di suburbanizzazione da un lato, e urban renewal sventratore alla Robert Moses dall'altro. La domanda è: non avrebbe molto, ma molto più senso, sostituire al glorioso ente per l'erogazione di fondi ai quartieri popolari di palazzoni (o a quelli a cul-de-sac automobilistici) una nuova entità più dinamica, aperta ai temi dello sviluppo economico, a quelli emergenti climatici ed energetici, e affidarne la struttura a uno che con tutti questi temi ha ampiamente dimostrato di saperci fare alla grande, come il sindaco di New York, Bloomberg?
Perché la Grande Mela, oltre ad essere da sempre uno dei poli della globalizzazione finanziaria, nei due mandati del sindaco ha dimostrato di essere all'avanguardia anche in altri aspetti un po' meno viziosi della globalizzazione, come i progetti di sostenibilità energetica, l'agricoltura urbana, e last but not least l'esemplare gestione di un caso da manuale di emergenza climatica come la potenziale catastrofe dell'uragano Sandy, dagli interventi di emergenza al Piano Strategico 2030 per il Waterfront appena pubblicato dal Planning Department della signora Burdett.
Insomma, come ci dicono di solito senza tante mezze parole studi e convegni dell'ONU sul tema dell'urbanizzazione del pianeta, la malattia contiene anche al suo interno il siero in grado di curarla. Se gli stati nazionali, a partire da quelli più grandi e potenti, cominciano davvero a investire in modo progressivo e progressista sulle concentrazioni urbane, per renderle ancora più concentrate e ancora più urbane in senso lato, l'antidoto ai grandi mali ambientali sociali ed energetici della Terra forse si avvicina.
E fare un passo del genere in una logica democratica, trasparente, che rende conto agli elettori delle proprie scelte, significa anche contrastare le politiche estere striscianti, magari favorite da altri governi nazionali e locali meno lungimiranti, di chi si infiltra nei territori con le proprie, di politiche urbane. Se si vuole distinguere fra destra e sinistra, nell'epoca della globalizzazione, pare davvero che si possa ancora tornare al vecchio adagio: il quartiere urbano è progressista, le villette con giardino nascoste da alte siepi sono reazionarie. Anche quando la guerra non si combatte nelle trincee con la baionetta innestata, ma discutendo di politiche urbanistiche.
Per chi volesse dare un'occhiata ai tre testi che ho direttamente citato per nome e cognome: prima di tutti il nostro Bruno Zevi, con la sua conferenza L'urbanistica come strumento di politica estera che ho tradotto tempo fa su Mall dal Journal of the American Institute of Planners, inverno 1946; poi la tesi dell'esperto di politica estera dell'Observer, Peter Beaumont, secondo cui Il Qatar si sta impossessando del mondo pubblicata lo scorso luglio; infine l'appello di Richard Florida perchè Obama ci lasci una duratura eredità urbana magari promuovendo a Washington il sindaco Micheal Bloomberg, proposto domenica 3 febbraio sul sito del New York Daily News.
A proposito del citato Piano Strategico per il Waterfront ci vorrà un po' più di pazienza, il mio articolo è in fase arretrata di redazione. Ma i veri appassionati e ammiratori internazionali della mitica Amanda Burden (da Oscar la sua interpretazione in Urbanized) possono scaricarselo direttamente - intero o a fettine, attenzione, è pesantissimo - dalla pagina Vision 2020 del sito comunale
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