Questo giornale, nello svolgere la sua attività di voce dell’opposizione a Silvio Berlusconi e al movimento finanziario e mediatico che Berlusconi ha mobilitato e sta mobilitando contro la Repubblica, la Costituzione e il sistema democratico fondato su poteri separati e sulla libertà di informazione del Paese, corre i suoi rischi. Un rischio è certo la nostra sopravvivenza, considerato il rigoroso blocco politico della pubblicità imposto a un giornale che in edicola va bene, che ha una media di settantamila lettori al giorno e un «contatto» (così viene definito dagli esperti il numero di persone che in un giorno prende in mano il giornale) di quasi mezzo milione di persone.
Un rischio è l’isolamento altrettanto rigoroso imposto ai programmi della Rai, alle rassegne stampa, e a ogni programma in cui tutte le testate giornalistiche, tranne la nostra, sono normalmente incluse (vale la pena di ricordare che, in Italia, l’Unità esiste solo nella rassegna stampa di Radio Radicale).
Un rischio è la continua denuncia non solo di «estremismo», che è un giudizio politico, ma anche di terrorismo, che è una accusa criminale. I collaboratori di Berlusconi, e lo stesso presidente del Consiglio, la sollevano continuamente, vedi il libro di Vespa in cui Berlusconi annuncia 37 minacce di morte dovute ai titoli dell’Unità, vedi le frequenti occasioni di insulto e aggressione personale del presidente del Consiglio alla giornalista o al giornalista dell’Unità che si levano a fare domande nelle sue conferenze-stampa.
Ci sono però altri rischi, come quelli di apparire a volte sgraditi a quei punti di riferimento che sono i partiti della opposizione in Parlamento, e in particolare ai Ds. Dov’è il problema, che è bene non nascondere o non pretendere di ignorare? E’ nel fatto che ci sono momenti di non coincidenza fra la visione di opposizione continua ad una aggressione continua, che guida questo giornale (Berlusconi non cambia di giorno in giorno, non inventa perché perde le staffe, piuttosto realizza un disegno ben congegnato, in fasi successive) e le diverse, legittime scelte che i gruppi parlamentari ritengono di fare di volta in volta, tenendo conto, evidentemente, anche di fatti o ragioni o ispirazioni che per noi, da lontano, non si vedono o non si afferrano. Come ho detto, a noi sembrano legittime quelle scelte. Non dubitiamo che siano fondate. Ma se non le condividiamo?
Faccio un esempio. Alcuni di noi, e certamente chi scrive, non riescono a condividere una sola parola di ciò che Umberto Ranieri, vice presidente Ds alla Commissione Esteri della Camera, ha detto all’Unità (e ad altri giornali) sulla questione delle truppe italiane in Iraq. A lui risulta che «la sostanza del pensiero degli italiani sull’Iraq è che il ritiro dei militari coinciderebbe con la linea del tanto peggio». Ranieri sembra non notare che quei soldati sono usati in modo indecoroso dal governo di Berlusconi, esibiti come uno scalpo. Lo ha dimostrato il senatore Schifani che - durante il dibattito sul Decreto per Nassiriya - ha osato leggere in aula il nome dei Caduti del tragico attentato terroristico come se fosse un volantino elettorale per Forza Italia. L’offesa è immensa. Ma Umberto Ranieri, deputato Ds, riassume così la situazione: «Gli italiani non avrebbero capito se avesse vinto la linea: basta, non ce ne frega niente, ci ritiriamo». All’offesa di Schifani si aggiunge in questo modo, sia pure a causa di un linguaggio mal maneggiato, un’altra offesa. Traduce con un «non me ne frega niente» l’angoscia di soldati stipati in un bunker senza la possibilità di svolgere alcuna missione, la assenza radicale di un ruolo umano, militare o politico, e anche l’umiliazione di essere sottoposti (al di fuori di ogni trattato) ai comandi inglesi e americani.
Autorizza l’offerta senza condizioni di soldati italiani ad altri governi che hanno strategie e visioni che l’Italia non ha mai votato. Trova menefreghismo opporsi alla iniziativa personale, narcisistica, estranea al Parlamento ed estranea all’Europa, di Berlusconi, che dona soldati italiani per farsi bello, per ragioni di prestigio personale, soldati vivi e soldati morti, buttati in una missione di guerra mai votata per quello che è.
Eppure il presidente emerito della Repubblica Scalfaro è stato chiaro nel dire: «Sono due momenti distinti. Uno è la gratitudine e l’affetto per i soldati. L’altro è la valutazione totalmente negativa della politica del governo sulla crisi irachena». Eppure il politologo Giovanni Sartori aveva fermamente ammonito sull’imbroglio delle informazioni negate agli italiani: «La triste morale di questa storia è che a Berlusconi è consentito di mentire senza spazio di controprova». Eppure nelle stesse ore in cui si decideva che non si poteva votare «no» al truffaldino decreto Berlusconi, che saldava insieme le due storie distinte degli interventi militari umanitari (Bosnia, Kossovo) e della tragica guerra senza fine in Iraq che sta facendo rivoltare l’America, la rete americana Cnn ha mandato in onda la conferenza stampa settimanale della Casa Bianca. In essa, spinto da domande spietate dei giornalisti che Berlusconi avrebbe definito «mestatori» (come ha fatto con il nostro Solani l’anno scorso) il portavoce di Bush ha detto che «no, in queste condizioni le elezioni non sono possibili; che no, in queste condizioni non si prevede un passaggio delle consegne perché sarebbe difficile dire a chi; che, no non c’è alcuna prospettiva al momento di un possibile intervento delle Nazioni Unite». Venivano smontate, insomma, una per una tutte le presunte ragioni che consigliavano di lasciare le cose come stanno.
Le opinioni pubbliche di Stati Uniti e Inghilterra non hanno alcuna intenzione di lasciare le cose come stanno. Due drammatiche inchieste sulle false ragioni dell’entrata in guerra sono in corso in quei Paesi. E ormai sono in gioco i destini personali ed elettorali dei due leader che quelle guerre hanno voluto e che da quelle guerre non riescono a uscire. Perché dall’opposizione italiana - o da voci autorevoli tra le sue fila - si manda allora il messaggio che discutere quella guerra sarebbe «fregarsene» e che respingere la politica di un governo, sarebbe «abbandonare l’Iraq» come se il valore e la vita di quei soldati potessero lavare le colpe della politica invece che farle vedere in formato gigante? Per fortuna Luciano Violante ha detto con fermezza una frase che tanti, a sinistra e in tutta l’opposizione, si sentono di dire con lui: «Una politica scriteriata ha mandato i soldati a rischiare e a morire».
Naturalmente nessuno mette in dubbio l’onestà o la rettitudine di tutti colore che si sono astenuti senza votare restando sul posto. Ciò che si mette in dubbio - specialmente dopo le spiegazioni autorevoli e non contraddette di Ranieri - è che i cittadini (tra poco elettori) possano capire ciò che sta succedendo. Sarebbe bastato, a coloro che confondono in modo così strano i soldati con il governo che li ha mandati, leggere ciò che un importante collaboratore di Clinton alla Casa Bianca, il prof. Benjamin Barber, ha scritto nel suo libro «L’impero della paura» (Einaudi, 2004): «Le aquile di Bush sono unilateraliste per vocazione perché la loro ira farisaica è profondamente imbevuta di mitologia eccezionalista. Credere che gli Stati Uniti siano unici consente loro di invocare a propria discolpa le virtù dell’America, usare l’innocenza come giustificazione della guerra giusta e avvalersi della indipendenza sovrana per motivare l’unilateralismo strategico». Nessuno ha pensato, negli Usa, che l’ex consigliere di Clinton, in questo suo atto netto e preciso di opposizione alla guerra di Bush, abbia voltato le spalle ai soldati americani o «se ne sia fregato» del loro destino. Nessuno ha pensato che l’ex consigliere della Casa Bianca abbia poca «cultura di governo». Di certo gli americani capiscono bene quali sono le profonde obiezioni alla guerra di Bush. Sanno che Bush, nell’intervista televisiva con Tim Russert si è definito «presidente di guerra», e prendono le distante.
Ma tutto ciò - grave com’è - non è che un esempio. Ci aiuta a capire quanto sia grave e unico il rischio che la nostra Repubblica sta correndo e che le parole di Oscar Luigi Scalfaro e di Giovanni Sartori, due uomini non sospettabili di estremismo, ci raccontano ogni giorno con esemplare chiarezza. Niente è estemporaneo o dovuto a uno scatto di nervi o a una occasionale perdita di controllo, nel comportamento di Silvio Berlusconi.
Il progetto di aggressione ai fondamenti della vita democratica e repubblicana è sistematico, coerente. Oggi si manifesta con un insulto, domani con una legge. La legge può essere per un diretto e sfacciato tornaconto personale (Berlusconi dispone di una maggioranza che vota compatta e senza vergogna la fiducia per salvare una azienda privata del primo ministro, negando una sentenza della Corte Costituzionale), oppure può servire per ferire a morte le istituzioni repubblicane con la cosiddetta «riforma della giustizia» del ministro Castelli, o con la devastante «devolution» di Bossi che vuole rendere ingovernabile un grande Paese. La guerra in Iraq - a cui l’Italia non partecipa e per la quale il Parlamento italiano non ha mai votato - fa parte di questo piano: inchiodare l’opposizione in nome del patriottismo a una impresa che appare clamorosamente sbagliata nei Paesi che l’hanno voluta, e dove però le intimidazioni e le confusioni, pur in presenza di eventi terribili non possono funzionare perché in quei Paesi vi è piena libertà di informazione.
Questo è il punto: se l’azione - diciamo così - del governo di Berlusconi non è estemporanea, non è semplice malgoverno, ma attacco pianificato per scassare un Paese e fare largo a interessi personali e particolari, a un autoritarismo ottuso ma potente, a causa del grandi mezzi mediatici e dell’immenso danaro a disposizione, altrettanto sistematica, punto per punto, momento per momento, bisogna che sia l’opposizione.
Come ho detto all’inizio di questo articolo, con simili affermazioni si corre un rischio: che questa persuasione, certo ossessiva, quanto ossessiva è la tenacia distruttiva di Berlusconi, possa apparire ingrata e ingiusta verso chi le battaglie della opposizione le conduce ogni giorno (anche con duri ostruzionismi notturni) in Parlamento. La nostra appassionata intenzione è di sostenere quell’impegno. Ma anche di non cedere e di non distrarsi, quando, insieme ai cittadini, si perde il filo e il senso di ciò che accade sulla scena politica, almeno agli occhi di chi vede da lontano. Una opposizione non torna a vincere con l’espediente di fregiarsi del titolo di «cultura di governo», che suona bene ma non significa niente. Prima deve diventare cultura di opposizione, finché dura la minaccia e si dispiega il progetto distruttivo di un governante-padrone che agisce brutalmente con tutta la sua ricchezza.
Berlusconi minaccia, ormai si capisce, di comprarsi, in un modo o nell’altro, pezzo per pezzo quel che gli manca per ottenere risultati elettorali che, sulla base di ciò che ha fatto, gli sarebbero negati. Berlusconi non è «la politica», è un evento grave e pericoloso. Ce lo dice la stampa del mondo.
Ce lo dicono i governi europei che non vogliono condividere con lui un summit, a costo di tagliare fuori un Paese importante come l’Italia. Ce lo dice il cupo e ridicolo semestre europeo guidato dalla caricatura di un italiano che sa usare soltanto insulti e barzellette. Ce lo dice lui stesso, ogni giorno, in modo chiaro e sfrontato. Non vedere l’emergenza è impossibile, come è impossibile immaginare che, in Parlamento o fuori, a Nassiriya o in Italia, si stiano vivendo giorni normali.
Tutto ciò noi ci sentiamo di dirlo non per polemica ma per necessità, non per la pretesa di avere ragione ma per un senso grave di allarme che non possiamo rinunciare a comunicare. Non vediamo né spazio né tempo per le riflessioni tranquille dei giorni normali.