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Giovanni Carlo; Valentini Petrini
L'ultima battaglia dei contadini nel nome delle energie pulite
28 Luglio 2011
La questione energetica
Un conflitto nel capitalismo dei nostri tempi: agricoltura per produrre beni o energia buona (per un consumo opulento)? La Repubblica, 28 luglio 2011, con postilla

Coltivare i campi o trasformarli in centrali eoliche e fotovoltaiche? Seminare per produrre cibo o per generare biomasse e quindi elettricità? È la nuova battaglia della terra. Tra chi teme la scomparsa definitiva degli agricoltori e chi sostiene che alle energie rinnovabili non si può più rinunciare.

Il boom delle energie rinnovabili spinge molti agricoltori a cambiare mestiere. E i campi diventano centrali per fotovoltaico e biogas

di Carlo Petrini

Agricoltura industriale. Riflettiamo sull´ossimoro. In suo nome, l´uomo ha pensato di poter produrre il cibo senza contadini, finendo con l´estrometterli dalle campagne. Oggi siamo addirittura arrivati all´idea che possano esserci campi coltivati senza produrre alimenti: agricoltura senza cibo. Agricoltura che, se si basa soltanto sul profitto e sulle speculazioni, riesce a rendere cattivo tutto ciò che può essere buono: il cibo, i terreni fertili (che sono sempre meno), ma anche l´energia pulita e rinnovabile. Come il fotovoltaico, come il biogas.

S´è già parlato di come l´energia fotovoltaica possa diventare una macchina mangia-terreni e mangia-cibo. Se i pannelli fotovoltaici sono posati direttamente a terra e per grandi estensioni essi tolgono spazi alla produzione alimentare e desertificano i suoli fino a renderli inservibili. Allora bisogna dirlo chiaro: sì al fotovoltaico, ma sui tetti, nelle cave dismesse, lungo le strade. No a quello sul terreno libero.

Adesso poi è il momento delle centrali a biogas che sfruttano le biomasse, vale a dire liquami zootecnici, sfalci e altri vegetali. Questi materiali si mettono in un digestore, qui si genera gas che serve a produrre energia elettrica e ciò che avanza – il "digestato" - adeguatamente trattato poi può essere utilizzato come ammendante per i terreni. Questi impianti sarebbero ideali per smaltire liquami (problema annoso di chi fa allevamento) e altri rifiuti biologici, integrando il reddito con una produzione di energia che può essere utilizzata in azienda o venduta. Se sono piccoli o ben calibrati rispetto al sistema chiuso dell´azienda agricola funzionano e sono una benedizione - esattamente come può fare il fotovoltaico sul tetto di un capannone o di una stalla. Ma se c´è di mezzo il business, se si fanno sotto gli investitori che fiutano affari e a cui non importa che l´agricoltura produca cibo e che lo faccia bene, allora il biogas può diventare una maledizione. Sta già succedendo in molte zone della Pianura Padana, soprattutto laddove ci sono forti concentrazioni di allevamenti intensivi. È una cosa che stanno denunciando alcune associazioni ambientaliste a livello locale e per esempio da Slow Food Cremona mi segnalano che nella loro provincia ormai la situazione è sfuggita al controllo. Tant´è vero che hanno chiesto alla Provincia una moratoria sull´installazione e autorizzazione di nuove centrali a biogas.

Che succede? Molti agricoltori, stremati dalla crisi generalizzata del settore, si trasformano in produttori di energia, smettendo di fare cibo. In pratica, si limitano a coltivare mais in maniera intensiva per farlo "digerire" dagli impianti a biogas. C´è anche chi lo fa solo in parte, ma sta di fatto che tutto quel mais non sarà mangiato dagli animali e quindi indirettamente neanche dagli umani. Gli investitori li aiutano, a volte li sfruttano. Esistono soccide in cui gli agricoltori sono pagati da chi ha costruito l´impianto per coltivare mais: sono diventati degli operai del settore energia, altro che contadini. Tutto è cominciato nel 2008 con la finanziaria che prevedeva un nuovo certificato verde "agricolo" per la produzione di energia elettrica con impianti di biogas alimentati da biomasse. Impianti "piccoli", di potenza elettrica non superiore a 1 Megawatt. Ma 1 Mw è tanto: ciò ha incentivato il business, perché a chi produce viene riconosciuta una tariffa di 28 cent/kWh, circa tre volte quanto si paga per l´energia prodotta "normalmente".

Ecco allora che il sistema degli incentivi, cui si uniscono quelli europei per la produzione di mais, ha fatto sì che convenga costruire impianti grandi e costosi (anche 4 milioni di Euro), che possono essere ammortizzati in pochi anni. Soltanto nel cremonese nel 2007 c´erano 5 impianti autorizzati, oggi sono 130. E lì oggi si stima che il 25% delle terre coltivate sia a mais per biogas. In tutta la Lombardia si prevede che entro il 2013 dovrebbero esserci 500 impianti. Ci sarebbe da riflettere su quante volte un cittadino che versa anche le tasse arrivi a pagare quest´energia "pulita", ma l´emergenza è di altro tipo: così si minacciano l´ambiente e l´agricoltura stessa.

Primo e lapalissiano: si smette di produrre cibo per produrre energia. Secondo: la monocoltura intensiva del mais è deleteria per i terreni perché deve fare largo uso di concimi chimici e consuma tantissima acqua, prelevata da falde acquifere sempre più povere e inquinate. Senza rotazioni sui terreni si compromette la loro fertilità e si favorisce la diffusione di parassiti come la diabrotica, da eliminare con un´ulteriore aggiunta di antiparassitari. Se il mais non è per uso alimentare, poi, sarà più facile mettere due dosi di tutto invece di una, senza farsi tanti scrupoli. Terzo: chi produce energia coltivando mais può permettersi di pagare affitti dei terreni molto più alti, anche fino a 1500 euro per ettaro, il che crea una concorrenza sleale nei confronti di chi invece ne ha bisogno per l´allevamento. È lo stesso fenomeno che si è creato con i parchi fotovoltaici, dunque sta piovendo sul bagnato. A chi alleva servono terreni soprattutto per rientrare nella "direttiva nitrati", che dovrebbe regolare lo smaltimento dei liquami in maniera sostenibile. Chiedete ai contadini e agli allevatori: i terreni non sono mai stati così costosi come oggi, e per un´azienda che già subisce i danni di un mercato drogato da speculazioni e imposizioni di prezzi bassi da parte del sistema distributivo può voler dire soltanto una cosa, la chiusura.

Ma andiamo avanti. Quarto: gli impianti stessi, quelli da 1 Mw, sono grandi strutture e per costruirle si consuma terreno agricolo sacrificandolo per sempre. Quinto: ci sono già le prime voci sulla nascita di un mercato nero di rifiuti biologici, come gli scarti dei macelli, venduti illegalmente per fare biogas. Non andrebbero mai utilizzati come biomasse, perché ciò che avanza dalla "digestione" poi viene sparso per i campi come ammendante e in questi casi oltre a inquinare potrebbe anche diffondere malattie.

Il problema è la scala. Diciamo chiaramente che in sé il biogas da biomasse non avrebbe nessun difetto. Ma se è realizzato a fini speculativi ed è sovradimensionato, se fa produrre mais al solo scopo di metterlo nell´impianto, se fa alzare i prezzi del terreno, lo consuma e lo inquina, allora bisogna dire no, forte e chiaro. Da questo punto di vista sarà bene che le amministrazioni (comunali per impianti piccoli, provinciali per quelli più grandi) comincino a valutare i fini reali degli impianti prima di concedere autorizzazioni, e sicuramente questi problemi andranno affrontati e debellati con la nuova PAC, la politica agricola comune, che si è iniziata a discutere a Bruxelles.

Da un punto di vista umano capisco gli agricoltori che hanno intravisto con il biogas un modo per risalire la china di un´agricoltura industriale sempre più in crisi. Ma sono sicuro che ci sono altri modi di fare agricoltura, più puliti, diversificati, che puntano alla vera qualità. Questa agricoltura può essere molto remunerativa e dare futuro ai giovani, mentre è soprattutto quella di stampo industriale che sta collassando. Inoltre, prima o poi gli incentivi finiranno. Il biogas con grandi impianti è una pezza sporca che alcuni stanno mettendo alla nostra agricoltura malata, ottenendo l´effetto di darle così il colpo di grazia. Sarà molto difficile tornare indietro: i terreni fertili non si recuperano, le falde s´inquinano, la salubrità sparisce, chi fa buona agricoltura è costretto a smettere a causa di una concorrenza spietata e insostenibile. Agricoltura industriale, che ossimoro.

Ma la conversione alle rinnovabili resta l´unica strada

di Giovanni Valentini

La consumiamo e la sprechiamo. Possiamo già produrne più di quanta ce ne serve. Eppure, continuiamo a importare energia dall´estero per circa il 14 per cento del nostro fabbisogno, più di qualsiasi altro Paese europeo. Come si spiega? Che cosa c´è dietro? E soprattutto, qual è l´alternativa?

All´inizio della stagione più calda dell´anno, e perciò anche più critica per i consumi di elettricità, il paradosso energetico italiano rivela una trama di interessi e di grandi affari che potrebbe ispirare un film di James Bond in lotta contro la Spectre, sullo sfondo di un traffico intercontinentale di petrolio, gas e uranio. Tanto più che, come attestano diverse analisi di enti o istituti internazionali, entro qualche decennio il mondo – e quindi anche il Belpaese – potrebbe essere alimentato soltanto da fonti rinnovabili: cioè sole, vento, biomasse e quant´altro.

Dietro la cortina fumogena del terrorismo mediatico che imperversa dopo il referendum e lo stop al nucleare, la verità è racchiusa in poche cifre. Secondo gli ultimi dati ufficiali diffusi da Terna, la società che è il principale proprietario della rete di trasmissione nazionale dell´energia elettrica, gli impianti installati in Italia hanno una capacità di produzione potenziale di oltre 106 gigawatt (l´unità di misura pari a un miliardo di watt): contro una richiesta che ha toccato il picco storico di 56,8 GW nell´estate 2007 e una potenza media disponibile stimata in 67 GW. Per di più, negli ultimi due anni, la crisi economica ha ridotto ulteriormente la domanda (51,8 GW nel 2009).

In altre parole, come sostengono gli esperti del Wwf, la potenza di cui disponiamo corrisponde al doppio di quella che occorre. E perciò, dice Gaetano Benedetto, direttore delle Politiche ambientali dell´associazione, «non abbiamo bisogno di nuova energia, ma di un´energia diversa, capace di diminuire la nostra dipendenza dalle risorse fossili e di inquinare di meno».

La maggior parte di questa energia (intorno all´86%) è "made in Italy". Per il resto, pur disponendo di impianti in grado di soddisfare l´intera richiesta, la importiamo dall´estero per un motivo di convenienza economica: l´acquisto del surplus non utilizzato che viene prodotto soprattutto in Francia, ma non solo, attraverso le centrali nucleari. I reattori, infatti, non possono essere mai spenti e perciò di notte, quando i consumi sono al minimo, l´energia viene fornita e "svenduta" sotto costo.

Al momento, la nostra produzione deriva dalle centrali termoelettriche per circa la metà ed è garantita dal gas naturale. Ma intanto la quota di carbone (11,9%) cresce in misura preoccupante sia per le emissioni nocive sia per le conseguenze sui cambiamenti climatici. Sta di fatto che ormai in campo energetico abbiamo sostituito la nostra dipendenza dal petrolio con quella dal gas: su circa 80 miliardi di metri cubi utilizzati all´anno, solo un decimo viene prodotto in Italia, oltre il 50% è importato dalla Russia dell´"amico Putin" (23 miliardi) e dall´Algeria (22 miliardi).

Se tutto ciò servisse a fare dell´Italia un hub nella distribuzione del gas, cioè un terminale nel bacino del Mediterraneo, potrebbe anche avere un senso. Ma è evidente che - per interesse o convenienza - molti hanno cavalcato una presunta crisi energetica per favorire la realizzazione di servizi e strutture con una finalità ben diversa dall´approvvigionamento nazionale.

In linea con un trend mondiale e con le stesse direttive dell´Unione europea che entro il 2020 intende ridurre del 20% le emissioni di gas serra, abbassare del 20% i consumi energetici e raggiungere il 20% di produzione da fonti rinnovabili, l´alternativa è proprio lo sviluppo dell´energia verde, naturale, pulita. Finora, però, in Italia questa s´è aggiunta all´energia fossile e non l´ha effettivamente sostituita, fino a rappresentare una quota complessiva di circa 30 GW con un mix di potenza idrica (17,8 gigawatt), termica a biocombustibili (2,4), geotermica (0,7), eolica (5,8) e fotovoltaica (2,9).

«È chiaro – riconosce lo stesso Benedetto – che, in una fase di transizione, per noi il gas resta essenziale». Ma, per arrivare in prospettiva al 100% di energia rinnovabile, occorre avviare subito una svolta radicale, a cominciare dalla riduzione dei consumi inutili e da una maggiore efficienza. In questa ottica, le fonti alternative diventano perciò il perno di un nuovo modello di sviluppo. È perciò che il Wwf ha costituito recentemente "Officinae Verdi", la prima società in Europa che integra la cultura di un´associazione ambientalista, un partner finanziario come Unicredit e uno tecnologico come Solon, leader continentale nelle tecnologie fotovoltaiche, con una partecipazione di 1/3 per ciascuno dei tre soggetti. Spiega il presidente Benedetto: «Abbiamo costruito un modello innovativo, capace di incidere realmente sullo sviluppo della green economy e sulla lotta ai cambiamenti climatici, non solo in perfetta sintonia con gli obiettivi e le politiche comunitarie, ma anche come alternativa possibile alla dipendenza dall´energia fossile e dalle mega centrali».

Accantonata dunque la pericolosa illusione del nucleare, adesso l´Italia ha l´opportunità di marciare verso la "nuova frontiera" dell´energia, all´insegna della sostenibilità e della compatibilità ambientale. Ormai non è più un problema di soluzioni tecnologiche, ma solo di investimenti e di scelte politiche.

Postilla

Due riflessioni

1.- Valentini (come la maggioranza di quanti si occupano di energia) non si pone una domanda: quanta energia effettivamente serve per produrre le merci che sono necessarie al benessere dell’uomo? Una grandissima parte delle merci sono prodotte oggi per aumentare la produzione. É la questione della “società opulenta”, in cui tutta l’attenzione di chi detiene il potere è convincere le persone (naturalmente quelle dotate di capacità di spesa) a consumare di più. Su questo argomento esiste una vastissima letteratura, poco frequentata dai commentatori di oggi.

2.- Le aberrazioni e l’uso distorto delle innovazioni possibili, denunciato da Petrini, non sono altro che la conseguenza dei criteri di selezione delle opportunità proprie al sistema capitalistico, il cui obiettivo non è il maggior benessere del genere umano, ma il massimo guadagno ottenibile dai gestori dei mezzi di produzione. Se chi comanda sono questi (l’economia data), è evidente che si punterà ai grandi impianti e non agli impianti diffusi, e così via.

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