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Giovanni Valentini
L’ombra del potere sul piccolo schermo
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
Un’analisi di un evento (Ballarò) e d una condizione (l’anomalia italiana) Da la Repubblica del 9 aprile 2005

I mezzi di informazione italiani si sono adattati all’aria che tira e hanno cominciato ad autocensurarsi, sia sulla stampa sia in televisione.

(da "L’ombra del potere" di David Lane – Editori Laterza, 2005 – pag. 205)

Chi di televisione ferisce, di televisione perisce. Si potrebbe anche liquidare così, parafrasando un vecchio detto popolare, l’apparizione a sorpresa di Silvio Berlusconi a Ballarò dopo la débacle elettorale del centrodestra alle regionali. E magari mettersi l’animo in pace, per archiviare la pratica e compiacersi retrospettivamente per la profezia di Indro Montanelli secondo cui, a furia di vedere e ascoltare il Cavaliere in tv, alla fine gli italiani si sarebbero vaccinati contro il virus del berlusconismo.

Ma siamo proprio sicuri che le cose stiano in questi termini? Non sono stati già commessi in passato troppi errori di sottovalutazione o di distrazione, compreso l’ultimo sulle nomine all’Authority sulle comunicazioni, per smobilitare o abbassare la guardia? E poi, non abbiamo sempre detto che la "questione televisiva", cioè la concentrazione di potere mediatico a danno del pluralismo dell’informazione e della libera concorrenza, è in realtà una questione pre-politica; che riguarda le condizioni fondamentali della vita democratica; che non comincia con la fatidica "discesa in campo" di Berlusconi e neppure finisce con la sua ipotetica ed eventuale uscita dal campo?

È vero che questa volta il centrodestra ha perso, e in modo netto e clamoroso, pur controllando le televisioni pubbliche e private. Ma a ben vedere è proprio il risultato amministrativo che conferma il pericolo sul piano più generale: alle regionali si votava per candidati, liste e programmi locali; fuori da una contrapposizione di tipo ideologico; senza la partecipazione carismatica del "lìder maximo". Fin dai tempi delle "giunte rosse" che in qualche modo rappresentavano un surrogato di alternanza al regime democristiano, questo è sempre stato un voto più libero, meno condizionato dalle appartenenze politiche e meno vincolato dalla fedeltà di partito. E oggi, in un ambito più circoscritto, spesso l’influenza delle tv (e dei quotidiani) locali può contare anche più di quelle nazionali.

Nessuno d’altra parte è tanto rozzo e sprovveduto da aver mai sostenuto che Berlusconi vince perché controlla le televisioni. O soltanto per questo. Dalle analisi di un sociologo come Renato Mannheimer o di un politologo come Ilvo Diamanti, sappiamo però che una buona parte dell’elettorato riceve l’informazione politica esclusivamente o prevalentemente dalla tv e che questa influisce in modo particolare sulla quota degli indecisi, l’ago della bilancia che - soprattutto in un sistema maggioritario - alla fine determina il risultato, la vittoria di uno schieramento sull’altro. Il fatto è che, in mancanza di controprove, nessuno è in grado di dire con certezza quale sarebbe l’esito del voto in condizioni di effettiva parità, se il centrodestra avrebbe vinto ugualmente alle ultime politiche oppure no, se avrebbe perso alle regionali con un distacco ancora maggiore.

Non si spiegherebbe altrimenti l’attenzione che la stampa internazionale, dal New York Times fino all’Economist, continua a rivolgere all’anomalia del "caso italiano". Né la produzione saggistica che i corrispondenti dei giornali stranieri, come quello del settimanale economico di lingua inglese citato all’inizio, dedicano alla "Berlusconi’s Shadow", tradotto più benevolmente in italiano dall’editore Laterza "L’ombra del potere". Ancor prima dell’indecenza del conflitto di interessi, da vent’anni a questa parte c’è in Italia lo scandalo di una concentrazione televisiva e pubblicitaria che danneggia l’intero sistema, drena risorse a favore della tv, e ora occupa e sequestra il servizio pubblico a vantaggio dell’azienda che appartiene al premier e della sua maggioranza parlamentare, in quello che Umberto Eco chiama "il regime del populismo mediatico".

Mentre perfino gli alleati di governo lanciano (finalmente) a Berlusconi l’invito a cedere Mediaset per liberare se stesso e tutto il centrodestra da una tale ipoteca politica, il fronte dei cerchiobottisti di professione rilancia compatto la parola d’ordine del disimpegno, dell’indifferenza, di un malinteso minimalismo, con l’aria di deridere magari l’ingenuità o peggio ancora la faziosità di chi non è abbastanza "scafato" per capire come gira il mondo. E pensare che, prima dell’approvazione di una legge tanto innocua quanto inutile come quella che porta il nome dell’ex ministro Frattini, qualcuno scrisse che la legislatura non sarebbe neppure cominciata senza la soluzione del conflitto di interessi. Purtroppo, invece, è cominciata, ha prodotto molti guasti e francamente non si vede l’ora che finisca quanto prima.

* * *

La decisione di presentarsi all’ultimo momento a Ballarò, al posto di uno dei suoi ministri, è stato - come ha già scritto il direttore di questo giornale - un gesto di disperazione e anche di debolezza da parte del presidente del Consiglio. Nell’ansia di recuperare il terreno perduto e magari di rivendicare la propria leadership sul centrodestra, Berlusconi non poteva scegliere però un’occasione meno propizia. Non solo perché il set della trasmissione, un’arena politica con il pubblico diviso in due schieramenti, è quello che offre minori riguardi e protezioni alla figura istituzionale del premier. Ma anche perché, accettando il confronto diretto con l’opposizione, il presidente del Consiglio s’è dovuto misurare con i due avversari peggiori che gli potevano capitare: Massimo D’Alema e Francesco Rutelli, entrambi più preparati ed efficaci di lui, più giovani e - diciamo così - anche più telegenici. Perfino D’Alema, che notoriamente non è un campione di simpatia, è riuscito a risultare così più affabile e accattivante.

L’errore maggiore, tuttavia, il presidente del Consiglio l’ha commesso riproponendo tal quale il "modello del berlusconismo", imperniato sulla sua persona e sul suo carisma, come ricetta miracolosa per curare i mali del centrodestra, battere l’Unione di Romano Prodi e riconquistare la maggioranza. Evidentemente, l’analisi dell’ultima sconfitta non è stata così lucida da consentirgli finora di individuarne l’origine più remota. E’ un motivo in più per contrastare ora in Parlamento, a un anno dalle politiche, qualsiasi tentativo di modificare la legge elettorale e di abolire la vituperata par condicio.

(sabatorepubblica. it)

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