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Goffredo Fofi
L'ombra del Gattopardo
28 Novembre 2010
I tempi del cavalier B.
Nella morale gattopardesca, si nasconde la sopravvivenza del berlusconismo anche dopo la fine del Cavaliere. Da L'Unità, 28 novembre 2010 (m.p.g.).

In un buon romanzo, Il Gattopardo, che non è tra i miei preferiti per la collocazione di chi racconta, il principe di Salina trae dalla Storia (l’Unità d’Italia, i nuovi padroni piemontesi) una morale acida e amara. Essa è di constatazione ma è anche, in sostanza, per il principe e per i finti vinti come lui è, di insegnamento o meglio di incitamento a sapersi adattare al nuovo corso. La frase è diventata proverbiale, ma in questi giorni non mi è capitato di vederla citata. Dice che tutto deve cambiare se si vuole che non cambi niente, che non cambi l’essenziale. Dice, per l’esattezza: «Perché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».

Questa oscena saggezza riguarda l’ordinamento classista della società, i poteri concreti e basilari – che sono economici, che riguardano il privilegio economico, i modi di dominare e di agire dei gruppi dirigenti e dei loro singoli rappresentanti, i quali non vengono affatto messi in discussione, che devono restare nelle solite mani e ci restano. Nei casi più gravi, dopo una guerra mondiale e alla fine di una dittatura, si può assistere al rotolamento di qualche testa e marchio, a qualche “epurazione” (in Italia, dopo la guerra, i procedimenti di epurazione dei rappresentanti del vecchio regime colpirono solo pochi, e quasi soltanto in basso, e per breve tempo), nei casi meno gravi, come quello del nostro Paese alla fine del 2010 e in vista della fine, si presume e si spera, del ventennio berlusconiano, è molto facile prevedere che anche stavolta non cambierà niente di sostanziale. Qualcuno verrà messo in pensione anticipata, qualcun altro scivolerà da un ente a un altro e da un incarico a un altro e da una banca a un’altra, qualche gruppo politico portatore di qualche possibile novità sensata avrà per qualche tempo un’effimera importanza – anche perché protetto e cioè insidiato da media famelici – ma rischiando di non durare a lungo se vi si riverserà una schiera di politici e amministratori pronti ad adattarsi alla nuova situazione, con piccoli salti di campo, con spostamenti abili e calcolati o anche, tra i soliti pretoriani e peones, confusi e scomposti.

La pratica recente delle primarie è una buona cosa, perché almeno per il momento non sembra facilmente manipolabile, ma non basta a scalfire i blocchi consolidati dei professionisti della politica, sempre assai abili nei girotondi delle cariche e nella cura delle clientele, e se lo scontento dilaga anche nei confronti dei poteri ancora in carica, se il costo della vita aumenta e la retribuzione delle prestazioni lavorative cala e le stesse possibilità di lavoro diminuiscono a vista d’occhio per il fallimento di un modello economico che ha retto e illuso per lungo tempo, però sono ben radicati nel nostro humus culturale profondo un modo di pensare e dei modelli di comportamento che nessuno sembra aver davvero l’intenzione di scalfire.

Detto più chiaramente, se nel ’45 i fascisti erano scomparsi (ed erano stati la strabocchevole maggioranza della popolazione almeno fino all’entrata in guerra) già oggi va rapidamente scemando il numero di quelli che osano dirsi berlusconiani e che però hanno votato e idolatrato fino a pochi giorni addietro il loro affascinante super-ricco e i suoi magnifici esempi di comportamento civile e morale. Ma questo non vorrà dire che sia morto il berlusconismo e che gli italiani siano improvvisamente guariti dalla loro tendenza al conformismo e all’opportunismo. O, a sinistra, a dire A e fare B e magari a pensare C, e cioè a pensare e vivere, dicendo e credendo il contrario, da perfetti berlusconiani.

Nulla cambierà davvero? La speranza è l’ultima dea, e questa dea è bene onorarla e pregiarla sempre, nonostante le lezioni e le punizioni della realtà, è bene aggrapparsi a quel che di buono il futuro può offrirci e difendere e proteggere il poco che ci convince. Ma è anche bene guardare agli spostamenti della politica con qualche diffidenza, per non farsi fregare un’ennesima volta e perché sarà molto difficile che qualcosa possa davvero cambiare – con questa classe dirigente, con i rappresentanti che ci siamo dati, con le piccole e grandi complicità che abbiamo collezionato nei vent’anni delle vacche grasse (per alcuni grassissime).

Di tutto questo andrebbe rimproverato anche il giornalismo, che credo corresponsabile della miseria morale del nostro paese e di noi tutti, e che, su questo ci si potrebbe giurare, non cambierà negli anni a venire né il pelo né il vizio. Ma l’argomento è troppo grave per risolverlo in due battute, e bisognerà ritornarci.

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