In un buon romanzo, Il Gattopardo, che non è tra i miei preferiti per la collocazione di chi racconta, il principe di Salina trae dalla Storia (l’Unità d’Italia, i nuovi padroni piemontesi) una morale acida e amara. Essa è di constatazione ma è anche, in sostanza, per il principe e per i finti vinti come lui è, di insegnamento o meglio di incitamento a sapersi adattare al nuovo corso. La frase è diventata proverbiale, ma in questi giorni non mi è capitato di vederla citata. Dice che tutto deve cambiare se si vuole che non cambi niente, che non cambi l’essenziale. Dice, per l’esattezza: «Perché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
Questa oscena saggezza riguarda l’ordinamento classista della società, i poteri concreti e basilari – che sono economici, che riguardano il privilegio economico, i modi di dominare e di agire dei gruppi dirigenti e dei loro singoli rappresentanti, i quali non vengono affatto messi in discussione, che devono restare nelle solite mani e ci restano. Nei casi più gravi, dopo una guerra mondiale e alla fine di una dittatura, si può assistere al rotolamento di qualche testa e marchio, a qualche “epurazione” (in Italia, dopo la guerra, i procedimenti di epurazione dei rappresentanti del vecchio regime colpirono solo pochi, e quasi soltanto in basso, e per breve tempo), nei casi meno gravi, come quello del nostro Paese alla fine del 2010 e in vista della fine, si presume e si spera, del ventennio berlusconiano, è molto facile prevedere che anche stavolta non cambierà niente di sostanziale. Qualcuno verrà messo in pensione anticipata, qualcun altro scivolerà da un ente a un altro e da un incarico a un altro e da una banca a un’altra, qualche gruppo politico portatore di qualche possibile novità sensata avrà per qualche tempo un’effimera importanza – anche perché protetto e cioè insidiato da media famelici – ma rischiando di non durare a lungo se vi si riverserà una schiera di politici e amministratori pronti ad adattarsi alla nuova situazione, con piccoli salti di campo, con spostamenti abili e calcolati o anche, tra i soliti pretoriani e peones, confusi e scomposti.
La pratica recente delle primarie è una buona cosa, perché almeno per il momento non sembra facilmente manipolabile, ma non basta a scalfire i blocchi consolidati dei professionisti della politica, sempre assai abili nei girotondi delle cariche e nella cura delle clientele, e se lo scontento dilaga anche nei confronti dei poteri ancora in carica, se il costo della vita aumenta e la retribuzione delle prestazioni lavorative cala e le stesse possibilità di lavoro diminuiscono a vista d’occhio per il fallimento di un modello economico che ha retto e illuso per lungo tempo, però sono ben radicati nel nostro humus culturale profondo un modo di pensare e dei modelli di comportamento che nessuno sembra aver davvero l’intenzione di scalfire.
Detto più chiaramente, se nel ’45 i fascisti erano scomparsi (ed erano stati la strabocchevole maggioranza della popolazione almeno fino all’entrata in guerra) già oggi va rapidamente scemando il numero di quelli che osano dirsi berlusconiani e che però hanno votato e idolatrato fino a pochi giorni addietro il loro affascinante super-ricco e i suoi magnifici esempi di comportamento civile e morale. Ma questo non vorrà dire che sia morto il berlusconismo e che gli italiani siano improvvisamente guariti dalla loro tendenza al conformismo e all’opportunismo. O, a sinistra, a dire A e fare B e magari a pensare C, e cioè a pensare e vivere, dicendo e credendo il contrario, da perfetti berlusconiani.
Nulla cambierà davvero? La speranza è l’ultima dea, e questa dea è bene onorarla e pregiarla sempre, nonostante le lezioni e le punizioni della realtà, è bene aggrapparsi a quel che di buono il futuro può offrirci e difendere e proteggere il poco che ci convince. Ma è anche bene guardare agli spostamenti della politica con qualche diffidenza, per non farsi fregare un’ennesima volta e perché sarà molto difficile che qualcosa possa davvero cambiare – con questa classe dirigente, con i rappresentanti che ci siamo dati, con le piccole e grandi complicità che abbiamo collezionato nei vent’anni delle vacche grasse (per alcuni grassissime).
Di tutto questo andrebbe rimproverato anche il giornalismo, che credo corresponsabile della miseria morale del nostro paese e di noi tutti, e che, su questo ci si potrebbe giurare, non cambierà negli anni a venire né il pelo né il vizio. Ma l’argomento è troppo grave per risolverlo in due battute, e bisognerà ritornarci.