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Zygmunt Bauman
L’odio per lo straniero nasce dalla paura
29 Settembre 2008
Scritti 2008
Di nuovo parole di saggezza e preoccupazione del sociologo polacco, questa volta su la Repubblica del 29 settembre 2008. Mentre in Austria vince il razzismo, ma in Germania rimandano a casa Borghezio.

Anticipiamo parte della prefazione che Zygmunt Bauman ha scritto per Amore per l’odio. La produzione del male nelle società moderne, di Leonidas Donskis (Erickson, pagg. 344, euro 20) che esce in questi giorni.

L’odio e la paura dell’odio sono antichi quando il genere umano (forse ancora più antichi...), e le probabilità che la loro eterna familiarità con la condizione umana possa essere interrotta in un prossimo futuro appaiono alquanto scarse, sempreché ve ne siano. Odiamo perché abbiamo paura; ma abbiamo paura a causa dell’odio che avvelena la nostra coabitazione sul pianeta che condividiamo. Così ci sono sempre motivi più che sufficienti per avere paura; e sempre motivi più che sufficienti per odiare. Sembra che l’odio e la paura siano prigionieri di un circolo vizioso, che si alimentino vicendevolmente e traggano l’uno dall’altra l’animosità e l’impeto che li infiammano. (...)

L’odio è sempre stato con noi, lo è adesso e lo sarà per sempre - qualunque cosa facciamo, e per quanto impegno mettiamo per cercare di rimpiazzare ciascuna delle sue numerose e variegate manifestazioni con la mutua compassione, la comprensione, la solidarietà. È vero? Sì, ma non del tutto. Come ha fatto notare Albert Camus, c’è una novità impressionante nella vecchia storia che abbiamo riportato. Nei tempi moderni - i tempi in cui viviamo, e soltanto nei tempi moderni - ci accade di diffondere e coltivare la paura e l’odio, e di commettere atti di violenza che tendono a esserne conseguenza, in nome di una vita migliore e pacifica, della felicità, dell’umanità, dell’amore. Di usare il male per promuovere il bene. (...)

Abbiamo bisogno di qualcuno da odiare per sbarazzarci del senso devastante della nostra indegnità, sperando così di sentirci meglio, ma affinché questa operazione riesca, essa deve svolgersi celando tutte le tracce di una vendetta personale.

Il legame tra la percezione della ripugnanza e dell’odiosità del bersaglio prescelto e la nostra frustrazione alla ricerca di uno sbocco deve restare segreto. In qualunque modo l’odio sia nato, preferiremmo spiegarlo, agli altri e a noi stessi, adducendo la nostra volontà di difendere cose buone e nobili che essi, quegli individui odiosi, denigrano e contro le quali cospirano, sostenendo che la ragione per la quale li odiamo e la nostra determinazione a liberarci di loro siano causate (e giustificate) dal desiderio di assicurarci la sopravvivenza di una società ordinata e civile. Insistiamo a dire che odiamo perché vogliamo che il mondo sia libero dall’odio. (...)

Recentemente la Suprema Corte di Cassazione italiana ha deliberato che sia legittimo discriminare i rom sulla base della motivazione che «gli zingari sono ladri». E quando i delinquenti di Napoli, brandendo mazze, spranghe di ferro e bottiglie incendiarie, si precipitarono sui campi dei rom e dei sinti situati nella periferia est della città a causa della diceria che una bambina fosse stata rapita da una zingara, la reazione del ministro dell’Interno [Roberto Maroni, ndt] del governo democraticamente eletto di Silvio Berlusconi, fu l’affermazione che «questo è ciò che accade quando gli zingari rubano i bambini», mentre il leader della Lega Nord e ministro dello stesso governo [Umberto Bossi, ndt], dichiarò (benedicendo «la gente» che mette i campi nomadi a ferro e a fuoco e manifestando uno sprezzante sarcasmo per la «classe politica» reticente) che «se lo Stato non fa il suo dovere, lo fa la gente». Fatti analoghi - benché meno pubblicizzati perché annunciati meno esplicitamente e spudoratamente - erano avvenuti in precedenza nella Slovacchia, nella Repubblica Ceca e in Ungheria. L’editorialista del Guardian Seuman Milne riflette che, dato il clima europeo caratterizzato da un acuto senso di incertezza e ansia, «la degenerazione sociale e democratica raggiunta ora in Italia» potrebbe verificarsi dovunque. «La persecuzione degli zingari è la vergogna dell’Italia», conclude, «e un monito per tutti noi». (...)

A differenza delle paure del passato, le paure contemporanee sono aspecifiche, disancorate, elusive, fluttuanti e mutevoli - difficili da identificare e localizzare esattamente. Abbiamo paura senza sapere da dove venga la nostra ansia e quali siano esattamente i pericoli che causano la nostra ansia e la nostra inquietudine. Potremmo dire che le nostre paure vagano alla ricerca della loro causa; cerchiamo disperatamente di trovarne le cause, per essere capaci di «fare qualcosa in proposito» o per chiedere che «qualcosa venga fatto». Le radici più profonde della paura contemporanea - la graduale ma inesorabile perdita di sicurezza esistenziale e la fragilità della propria posizione sociale - non possono essere affrontate direttamente, poiché le agenzie ancora esistenti di azione politica non hanno potere sufficiente per sradicarle in un mondo che si sta rapidamente globalizzando. E così le paure tendono a spostarsi dalle cause reali di malessere per scaricarsi su bersagli che sono solo remotamente, sempreché lo siano, connesse alle fonti di ansia, ma che presentano il vantaggio di essere prossimi, visibili, a portata di mano e per ciò stesso possibili da gestire. Tali battaglie sostitutive, intraprese contro un nemico sostitutivo, non cancelleranno l’ansia, poiché le sue radici reali resteranno dov’erano, assolutamente intatte - ma perlomeno trarremo qualche consolazione dalla consapevolezza di non essere restati inerti, di aver fatto qualcosa per cercare di vendicare la nostra infelicità e di esserci visti mentre lo facevamo. la tormentosa consapevolezza della nostra umiliante impotenza ne sarà forse lenita - per qualche tempo, almeno.

L’afflusso dei migranti, e specialmente di quelli fuggiti da vittimizzazioni, persecuzioni e umiliazioni, o la minaccia del loro arrivo, dà ai nativi dei Paesi a cui approdano un profondo disagio poiché ricorda loro sgradevolmente la fragilità dell’esistenza umana - la loro stessa debolezza che i nativi preferirebbero decisamente nascondere e dimenticare ma che nondimeno li tormenta per la maggior parte del tempo. Quei migranti hanno lasciato le loro case e hanno dovuto separarsi dagli affetti più cari perché non avevano più mezzi di sostentamento e avevano perso il lavoro all’impatto con il «progresso economico» e il «libero mercato», o perché le loro case erano state bruciate, sventrate e rase al suolo a causa del corto circuito dell’ordine sociale, di sommosse e tumulti, o perché vi erano stati costretti dal fatto di essere in esubero, incapaci ormai di guadagnarsi da vivere e segnati a dito come un «fardello della società». Essi perciò rappresentano - o, meglio, incarnano - tutte le cose che i nativi temono; rappresentano quelle terrificanti e misteriose «forze globali» che decidono le regole del gioco in cui tutti noi, i migranti al pari dei nativi, siamo non già giocatori bensì pedine o gettoni. Quando respingono i migranti e li costringono a fare i bagagli per tornarsene da dove sono venuti, i nativi possono almeno bruciare quelle forze odiose e spaventose in effigie; possono conseguire una specie di «vittoria simbolica» in una guerra che sanno (o sospettano, per quanto ne neghino la consapevolezza) di non poter vincere «sul serio».

Prendere i migranti per le cause delle proprie difficoltà e paure può sembrare illogico, ma tutto ciò riposa su una sorta di logica perversa: c’era la sicurezza del lavoro e la certezza di buone prospettive di vita, prima ? ma lo scenario è cambiato sostituendovi la flessibilità del mercato del lavoro e assunzioni incerte e a breve termine, accompagnate da uno sgradevole allentamento dei legami fra le persone, e tutte queste novità si sono verificate proprio quando arrivavano i migranti. È dunque «ragionevole» presupporre che l’arrivo di questi stranieri e l’insicurezza che prima non esisteva siano connessi, e che se si obbligano i nuovi arrivati ad andarsene, tutto tornerà nuovamente agevole e sicuro come ci si ricorda che fosse (indipendentemente dal grado di correttezza del ricordo) prima del loro arrivo. (...)

Le paure di oggigiorno sono generate in larga parte dalla globalizzazione (in altre parole, la nuova extraterritorialità) di forze che decidono delle questioni fondamentali riguardo alla qualità della nostra vita e alle possibilità di vita dei nostri figli. Il primo nesso causale collaterale riguarda il senso di sicurezza esistenziale. (...) La questione della sicurezza esistenziale è scivolata via dalle mani dei partiti che per forza d’inerzia vengono ancora chiamati «la Sinistra», che potevano contare in passato, ma non più nel tempo presente, su uno Stato intraprendente che risolvesse il problema. La questione perciò giace, letteralmente, in mezzo alla strada - da cui è stata lestamente raccolta da forze che, anch’esse erroneamente, vengono chiamate «la Destra». Il partito italiano di destra, la Lega, promette adesso di ripristinare la sicurezza esistenziale - che il Partito Democratico, l’erede della Sinistra, promette di minare ulteriormente con una maggiore deregolamentazione dei capitali e dei mercati, un sovrappiù di flessibilità nel mercato del lavoro e un’apertura ancora più larga delle porte del Paese alle misteriose, imprevedibili e incontrollabili forze globali (porte che, come sa dalle sue amare esperienze, non si possono chiudere comunque).

Soltanto la Lega intercetta l’insicurezza esistenziale, ma la interpreta, ingannevolmente, non come il tipico prodotto del capitalismo senza regole (che significa in pratica libertà per i potenti e impotenza per chi è a corto di risorse), bensì come la conseguenza, per i ricchi lombardi, di dover condividere il loro benessere con i pigri calabresi o siciliani, e come la disgrazia di dover condividere, gli italiani tutti, i loro mezzi di sussistenza con gli zingari ladri e con tutti gli altri stranieri (dimenticando che la migrazione di milioni di loro antenati italiani negli Stati Uniti e nell’America Latina ha contribuito enormemente all’attuale ricchezza di quei Paesi).

Traduzione di Riccardo Mazzeo

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